A caccia di libertà. La «carne dell’orso» fra le Alpi e il Klondike
Roberta Mori
L’articolo, che è parte di un lavoro in progress di ampio respiro dedicato al racconto “Ferro” e alla figura di Sandro Delmastro, ricostruisce l’origine di un modo di dire attribuito al personaggio Sandro («il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso») portando alla luce una “fonte” rimasta finora inesplorata. L’espressione, apparentemente bizzarra, fornisce la materia prima per la costruzione di una metafora che riveste un ruolo portante nella semantica del testo e si ricollega all’universo lessicale e retorico de Il sistema periodico, di cui il racconto fa parte.
Il 29 agosto del 1961 esce su «Il Mondo» un racconto di Primo Levi intitolato La carne dell’orso. Rispetto a tutto quanto pubblicato fino ad allora dal chimico-scrittore, il testo presenta una serie di novità: il tema dell’alpinismo, l’ambientazione montana, il riferimento all’immaginario caratteristico della narrativa d’avventura. Alcuni personaggi, che si trovano casualmente a pernottare in un rifugio in alta quota, raccontano, a turno, la loro iniziazione alla montagna, seduti al tavolo dove hanno consumato il pasto, di fronte a una bottiglia di vino che viene passata di mano in mano. L’atmosfera è intima e raccolta, forse perché i narratori appartengono tutti a una stessa «sottospecie umana»:
Con l’avvento della seggiovia viene ad estinguersi un prezioso processo di selezione naturale, in virtù del quale chi sale al rifugio è sicuro di trovarvi, allo stato puro, un piccolo campione di una sottospecie umana poco nota. È gente che non parla molto, e di cui gli altri non parlano affatto, per cui ne manca ogni menzione nella letteratura di quasi tutti i paesi; e che non deve essere confusa con altri generi vagamente affini, che viceversa parlano, e di cui si parla: i fuoriclasse, i sestogradisti, i membri delle celebri spedizioni internazionali, i professionisti, eccetera. Degne persone tutte; ma non è di loro che qui si racconta1Primo Levi, La carne dell’orso, Pagine sparse 1947-1987, in Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi 2016 e 2018, 3 voll.; vol. 2, pp. 1317-1325; p. 1317.
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Il primo narratore racconta una salita avventurosa che lo vide protagonista all’età di quindici anni, insieme a due coetanei, e che si concluse con un salvataggio notturno da parte dei militi della Confinaria. Il secondo narratore è un uomo mingherlino che si è unito al gruppo senza che gli altri se ne avvedessero. La vicenda che narra è accaduta quando aveva intorno ai venti anni e frequentava la montagna in compagnia di due amici, Antonio e Carlo. Quest’ultimo, che aveva già una cospicua carriera alpinistica alle spalle, era la guida e il capo del piccolo gruppo. Nel corso di un’ascesa invernale i tre si persero e riemersero su una vetta sbagliata; spronati da Carlo, arrivarono sulla vetta giusta, ma furono colti dal sopraggiungere della notte e dovettero improvvisare un bivacco all’aperto.
L’espressione che dà il titolo al racconto è attribuita a Carlo ed è pronunciata in risposta alle domande preoccupate dei suoi compagni in procinto di iniziare la discesa dalla cima faticosamente guadagnata:
“E per scendere?” “Per scendere vedremo”, disse Carlo; ed aggiunse misteriosamente: “Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso”2Ivi, p. 1324.
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Levi avrebbe scritto La carne dell’orso durante un periodo di vacanza trascorso a Corvara nelle Dolomiti3Cfr. Ian Thomson, Primo Levi. Una vita, Milano, UTET 2017, p. 402 (I ed. Primo Levi, London, Vintage 2003).
, nell’estate del 1960. Come era solito fare, inviò il testo in lettura a Italo Calvino, insieme ad alcune prove narrative di genere fantascientifico. Il giudizio di Calvino arrivò nella lettera datata 22 novembre 1961: «il tentativo di un’epica conradiana dell’alpinismo incontra tutte le mie simpatie, ma per ora resta un’intenzione»4Lettera di Primo Levi a Italo Calvino del 22 novembre 1961, in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori 2000 pp. 695- 696; p. 696 (già pubblicata in I libri degli altri, a cura di Giovanni Tesio, Torino, Einaudi 1991).
. L’impresa raccontata dal secondo narratore de La carne dell’orso fu ripresa nel 1974 e rifusa all’interno del capitolo “Ferro” de Il sistema periodico5Il racconto, nel dattiloscritto de Il sistema periodico, reca la data del 15 aprile 1974 (si veda Marco Belpoliti, Note ai testi in Primo Levi, Opere complete cit; vol. I, p. 1522).
. Alla base tanto de La carne dell’orso quanto di “Ferro” c’è il ricordo delle imprese alpinistiche compiute da Levi negli anni dell’Università insieme al suo amico e compagno di studi Sandro Delmastro, al quale è ispirato il personaggio di nome Carlo. Secondo Ian Thomson, Levi concepì per la prima volta nel 1947 l’idea di una «saga conradiana» ambientata sulle Alpi e con Sandro Delmastro come protagonista6Ian Thomson, Primo Levi. Una vita cit., pp. 347-8.
, ma il progetto allora non si concretizzò. Rispetto a La carne dell’orso quello ultimato nel 1974 è a tutti gli effetti un racconto nuovo, collocato all’interno dell’autobiografia chimica de Il sistema periodico e dunque strutturalmente omogeneo agli altri racconti della raccolta. Una parte iniziale piuttosto estesa fa da raccordo fra il testo e il macrotesto ed è funzionale all’esplorazione dei nessi che collegano la pratica alpinistica alla vita quotidiana, in una prospettiva che unisce la dimensione storica e quella conoscitiva. I personaggi sono soltanto due: l’io narrato Primo e il coprotagonista Sandro, che soppianta definitivamente la silhouette tutto sommato esile di Carlo de La carne dell’orso per trasformarsi in una delle figure più memorabili dell’intera produzione di Levi. La montagna rappresenta una tappa fondamentale nel percorso di crescita dei due giovani ponendosi accanto alle altre iniziazioni narrate nella prima parte del libro: iniziazione alla chimica, iniziazione al lavoro, iniziazione alla resistenza contro il fascismo. Benché appartenga al ristretto numero di studenti che attraverso il superamento degli esami del primo anno si sono rivelati “adatti” a proseguire gli studi chimici, Sandro non sembra convinto che la chimica, da sola, possa sostenere tutto intero il peso della sua formazione traghettandolo nell’età adulta. È proprio questo il punto delle discussioni fra lui e Primo, il quale invece sente nella chimica «una dignità e una maestà nuove»7Primo Levi, “Ferro”, Il sistema periodico, in Opere complete cit., vol. I, pp. 888-896; p. 891.
e afferma che la chimica e la fisica possono diventare l’antidoto al fascismo che entrambi ricercano perché sono «chiare e distinte e a ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali»8Ibidem.
. Sandro non rifiuta questa proposta di affrancamento dalla cultura fascista, anzi la abbraccia con la consapevolezza che, in mancanza di meglio, la chimica possa svolgere la funzione di una «scuola politica»9Ivi, p. 892.
; tuttavia, alla luce della sua esperienza di vita, molto diversa da quella dell’amico, avverte il bisogno di integrare un’educazione che giudica incompleta perché troppo sbilanciata verso il potenziamento delle capacità mentali a discapito della dimensione materiale e corporea. Di qui l’inizio, per il narratore, di una «stagione frenetica»10Ibidem.
segnata dall’avventura e dalla scoperta di nuovi spazi di libertà: l’educatrice, questa volta, è la montagna, «l’autentica Urstoff senza tempo»11Ibidem.
. Per uno studente di chimica andare in montagna significa imparare a conoscere la materia naturale non solo con il cervello e con le mani, come fa il chimico in laboratorio, ma con tutto il corpo: è un tirocinio continuo che rafforza il carattere e pone l’uomo nella condizione più antica, quella in cui è costretto a confrontarsi con la natura senza altro aiuto che le proprie forze e la propria intelligenza. Anche in “Ferro” l’episodio del bivacco notturno è presentato come il momento culminante della formazione. Sulla scia della definizione di «epica conradiana» data da Calvino, la critica non ha mancato di evidenziare, tanto ne La carne dell’orso quanto in “Ferro” l’influenza di Youth (Giovinezza) di Joseph Conrad12Youth (Giovinezza) di Joseph Conrad è uno dei testi inseriti da Primo Levi nella sua Ricerca delle radici (1981), l’antologia dei testi e degli autori che più hanno contato nella sua esperienza di lettore. Ogni testo antologizzato presenta un titolo scelto da Levi. Il titolo anteposto al brano di Conrad è “Un’occasione di provarsi”.
, richiamato esplicitamente nel discorso del primo e del secondo narratore de La carne dell’orso e poi di nuovo – come si vedrà - nella parte finale di “Ferro”. Tali rilievi sono puntuali e documentati, e a essi si rimanda senz’altro per un’analisi dei rapporti intertestuali fra Levi e Conrad13Cfr. Anna Baldini, Commento ad un racconto di Primo Levi: Ferro in «Per leggere: i generi della lettura», a. 5, n. 8 (primavera 2005), pp. 86-107; Riccardo Capoferro, Primo Levi e Joseph Conrad: l'uomo, la natura e l'avventura del lavoro, in «Contemporanea: rivista di studi sulla letteratura e sulla comunicazione», n. 12 (2014), pp. 11-26; Martina Mengoni, Elementi inattesi. Come nacque Il sistema periodico, in Cucire parole, cucire molecole: Primo Levi e Il sistema periodico, a cura di Fabio Levi e Alberto Piazza, Torino, Accademia delle scienze di Torino 2019, pp. 67- 79.
. Tuttavia, c’è un secondo modello al quale finora gli studiosi che si sono accostati ai due testi non hanno prestato molta attenzione: quello, più nascosto, incarnato da Jack London, il cantore dell’epopea del Klondike. In “Ferro” la presenza dello scrittore americano è preannunciata già nella prima parte del racconto, nel punto in cui sono ricordate le letture preferite di Sandro: Lui, che fino ad allora non aveva letto che Salgari, London e Kipling, divenne di colpo un lettore furioso: digeriva e ricordava tutto, e tutto in lui si ordinava spontaneamente in un sistema di vita; insieme, incominciò a studiare, e la sua media balzò dal 21 al 2914Primo Levi, “Ferro” cit., pp. 891-2.
. Nel momento in cui Levi rielabora letterariamente l’esperienza vissuta e sviluppa una controfigura letteraria di Sandro Delmastro, le opere di London offrono suggestioni, ambientazioni, e un immaginario di riferimento che sarà professato e vissuto direttamente dal personaggio Sandro nel suo rapporto con la montagna. Una conferma indiretta di questo procedimento viene da una definizione contenuta in una risposta di Levi a Giovanni Tesio che gli aveva domandato di parlare della sua amicizia giovanile con Sandro Delmastro: C’era una pura ammirazione! Questo ragazzo così taciturno, dalle parole così scarse, così efficiente fisicamente, sicuro di sé. Aveva un fratello ancora migliore di lui […]. Senza esibizioni, avevano fatto insieme delle cose memorabili, la traversata dell’intero arco del bacino di Cogne – no break – senza interruzioni. Erano citati sul bollettino del Cai, ma per loro era la vittoria in sé a valere, non si davano assolutamente importanza per questo. […] Personaggi londoniani. Lui mi raccontava scarsamente delle sue [imprese], appunto di bivacchi sepolti sotto la neve che lui aveva scavato, notti passate all’aperto in pieno inverno, gite in bicicletta fino al Sestriere per andare poi a sciare, cose leggendarie15Primo Levi, Io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio, Torino, Einaudi 2016; ora in Opere complete cit., vol. III, pp. 996-1072, p. 1034. Le conversazioni con Levi furono registrate fra il 12 gennaio e l’8 febbraio del 1987.
. Per Levi, dunque, London è il creatore di personaggi che possiedono caratteristiche simili a quelle del Sandro Delmastro storico: amore per il rischio, disponibilità a mettersi in gioco senza risparmiare le forze, resistenza alla fatica. Da un’analogia che opera in prima battuta sul piano personale della rievocazione memoriale e che qui si ritrova estrinsecata nel linguaggio colloquiale del dialogo fra intervistatore e intervistato - la scelta non casuale dell’aggettivo «londoniano» - prende forma e corpo il Sandro di “Ferro”; conseguentemente, le «imprese leggendarie» affrontate da Sandro con suo fratello e le altre vissute insieme ai tempi dell’università diventano simili, nella trasfigurazione letteraria, a quelle sognate sui libri di London. La notte trascorsa al gelo e con i piedi nei sacchi dai due universitari torinesi è da leggere come la versione domestica e piemontese di innumerevoli avventure lette nell’adolescenza e nella prima giovinezza: Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il poco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora: il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna, sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale. Ci eravamo tolte le scarpe, come descritto nei libri di Lammer16Eugen Guido Lammer fu un alpinista austriaco, autore del libro Jungborn (pubblicato in Italia nel 1932 con il titolo Fontana di giovinezza). Sostenitore di un alpinismo estremo, senza guide e senza attrezzature, esercitò un certo influsso sugli appassionati di montagna nel periodo fra le due guerre. Levi ricorda così quella lettura giovanile in un’intervista concessa ad Alberto Papuzzi: «Sì, anch’io avevo letto Lammer […], Fontana di giovinezza, e anche Whymper e Mummery. Attraverso quelle pagine era pervenuta fino a noi l’idea di misurarsi sempre con l’estremo e che essenziale è fare sempre il massimo». (Primo Levi, L’alpinismo? È la libertà di sbagliare. Intervista di Alberto Papuzzi [1984], in Opere complete cit. vol.III, pp. 423-27; p. 424).
cari a Sandro, e tenevamo i piedi nei sacchi; alla prima luce funerea, che pareva venire dalla neve e non dal cielo, ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio: e trovammo le scarpe talmente gelate che suonavano come campane, e per infilarle dovemmo covarle come fanno le galline17Levi, “Ferro” cit., pp. 895-6.
. Jack London era un autore famigliare ai ragazzi italiani della metà degli anni Trenta, un caposaldo della cultura adolescenziale e giovanile18Primo Levi avrebbe letto tutta l’opera di Jack London negli anni del Liceo, secondo quanto riportato da Carole Angier, in Il doppio legame. Vita di Primo Levi, Milano, Mondadori 2004 (I ed. The double bond, London, Viking 2002), p. 13.
. Il mito della “febbre dell’oro” era giunto in Italia negli anni Venti, diffuso dai libri di London e dall’omonimo film di Charlie Chaplin19La febbre dell’oro (The Gold Rush) superò il visto della censura il 14 dicembre del 1925 (dato desunto dalla ricerca effettuata nella “Banca dati della revisione cinematografica”, progetto di ricerca sulla censura cinematografica in Italia promosso dal Mibact e dalla Cineteca di Bologna: http://www.italiataglia.it/search/). Si ringrazia Valentina Rossetto per la segnalazione.
. Gian Dàuli, figura eclettica di traduttore, editore e scrittore, portò avanti fra il 1924 e il 1929 il progetto di pubblicazione dell’opera completa di London per i tipi della casa editrice Modernissima20Gian Dàuli: traduzioni, collane editoriali dirette o curate, opere narrative. Un elenco (forse) completo, a cura di Mario Marchetti, «Tradurre- Pratiche, teorie, strumenti» n. 7 (autunno 2014): https://rivistatradurre.it/gian-dauli-traduzioni-collane-editoriali-dirette-o-curate-opere-narrative/ URL consultata il 21/01/2021. Si veda anche Gian Dàuli editore, traduttore, critico, romanziere, saggio introduttivo di Michel David, antologia e iconografia a cura di Michel David e Vanni Scheiwiller, Banca Popolare Vicentina - Libri Scheiwiller, Milano 1989.
: fra il 1924 e 1925 uscirono le traduzioni italiane de Il richiamo della foresta, Martin Eden, Radiosa aurora, Il tallone di ferro, cui seguirono altri titoli negli anni successivi. Alla fine del decennio e per tutti gli anni Trenta i racconti e i romanzi dello scrittore statunitense furono pubblicati anche da La Nuova Italia, Sonzogno, Monanni, Bietti, Barion. Levi plasma il profilo del suo personaggio montando insieme frammenti di realtà e caratteristiche fuori dall’ordinario che lo affratellano ai protagonisti dei romanzi di avventura. Sandro sembra «fatto di ferro»21Primo Levi, “Ferro” cit., p. 892.
e il suo modo di essere ricorda quello sfuggente e solitario del gatto22Ivi, p. 890.
; soprattutto, possiede una misteriosa sensibilità grazie alla quale riesce a stabilire un rapporto privilegiato con il mondo naturale, al punto che quando mima le sembianze e le movenze degli animali si ha l’impressione che si trasformi momentaneamente in loro. Per questa e per altre capacità lo si potrebbe definire un personaggio “magico”, assumendo l’aggettivo nell’accezione illustrata da Robert S.C. Gordon nei suoi studi più recenti su Levi. Gordon infatti ritrova nell’opera leviana tracce sparse di un “pensiero magico” che non costituiscono un sistema quanto piuttosto «una presenza irregolare ma persistente, un sottostrato sottile ma pervasivo»23Robert S.C. Gordon, Primo Levi e il pensiero magico, in Primo Levi, a cura di Mario Barenghi, Marco Belpoliti e Anna Stefi, «Riga», 38, Milano, Marcos y Marcos 2017, pp. 484-493; p. 485.
, del quale si colgono le manifestazioni nei vari aspetti dell’alchimia e nelle conoscenze segrete proprie della stregoneria. Come uno sciamano, Sandro riesce a esercitare un controllo istintivo sul mondo circostante, sul suo corpo e anche su quei bisogni naturali che agiscono dentro di lui, come la fame o la stanchezza: «Poteva camminare due giorni senza mangiare, o mangiare insieme tre pasti e poi partire»24Primo Levi, “Ferro”, cit. p.893.
. Grazie al suo intuito, si aggira sicuro per le montagne come se fosse attirato da una forza invisibile: Mi trascinava in estenuanti cavalcate nella neve fresca, lontano da ogni traccia umana, seguendo itinerari che sembrava intuire come un selvaggio25Ibidem.
. La trasfigurazione letteraria investe anche lo sfondo su cui il personaggio si muove: pur essendo a pochi chilometri da Torino, la montagna di Sandro è descritta e vissuta come se fosse remota nello spazio e nel tempo. A questo proposito, appare indicativo quanto affermato da Levi nell’intervista con Alberto Papuzzi: La montagna per noi era anche esplorazione, il surrogato dei viaggi che non si potevano fare alla scoperta del mondo, e di noi stessi; i viaggi raccontati nelle nostre letture: Melville, Conrad, Kipling, London. L’equivalente casalingo di quei viaggi era l’Herbetet»26Cfr. intervista citata alla nota 16, pp. 425-26.
. Non desta meraviglia che gli itinerari in montagna si svolgano lontano da ogni traccia umana, in luoghi riservati soltanto a loro, che il mondo degli adulti può immaginare ma ai quali non può avere accesso, come dimostrano le domande ironiche e leggermente provocatorie che il locandiere rivolge ai due amici quando fanno ritorno in pianura e pagano una stanza che è stata usata soltanto per una notte, invece che per due come era nei loro piani27cfr. “Ferro”, p. 896.
. Se la crescita e la maturazione passano necessariamente dall’errore, qui, in linea con un topos caratteristico della narrativa avventurosa, l’errore “formativo” consiste nello smarrire la strada. È grazie all’inattesa deviazione che, una volta calata la notte, diventa possibile affrontare e superare la prova di iniziazione. Jack London è protagonista di quella che si potrebbe definire una sottile mise en abyme verso la fine del racconto “Ferro”, nel punto in cui compare di nuovo la frase misteriosa («il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso»), che questa volta è pronunciata da Sandro e ripresa, alcune righe dopo, dal narratore. L’origine dell’espressione “carne dell’orso” si trova in un romanzo breve di Jack London intitolato Smoke Bellew, uscito per la prima volta a puntate fra il giugno 1911 e il giugno 1912 sulla rivista «Cosmopolitan»28cfr. Storia di un libro a puntate, a cura di Sergio Calderale in Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike, Torino, Robin Edizioni 2014. Traduzione di Sergio Calderale e Pier Francesco Paolini. “Nota editoriale”, Edizione Kindle.
. Il testo, che oggi non figura fra i titoli più conosciuti di London, fu pubblicato in Italia nel 1930 dalla casa editrice Sonzogno nella traduzione di Gastone Rossi. Nel 1930-31 le avventure di Smoke Bellew furono riproposte dalla casa editrice Bietti suddivise nei due volumi intitolati La febbre dell’oro e Gli avventurieri nella traduzione curata da Arturo Salucci. Nella seconda metà degli anni Trenta l’opera, tradotta integralmente da Mario Benzi, venne ripubblicata più volte con il titolo di “Fumo Bellew” dalle edizioni Barion di Sesto San Giovanni, che proprio in quegli anni cambiò nome in Barion Casa per edizioni popolari29Dati desunti dalla ricerca effettuata sul Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale (Opac Catalogo SBN): https://opac.sbn.it/opacsbn/opaclib URL consultato il 02/02/2021.
. Sostenitrice di un’editoria popolare accessibile a tutti, la Barion produceva le caratteristiche edizioni economiche che si potevano acquistare sulle bancarelle cittadine. La fascetta de La febbre dell’oro recitava: «corse folli attraverso la neve e i ghiacci, notti febbrili al tavolo da giuoco; lotte aspre e violente per la conquista del prezioso metallo». I primi due capitoli del romanzo si intitolano, rispettivamente, “The Taste of the Meat” (Il sapore della carne) e “The Meat” (La carne), dove per carne si intende proprio la carne dell’orso. Al centro della narrazione ci sono le avventure di Cristopher Bellew, detto “Smoke”, giovane intellettuale dell’ambiente bohémien di San Francisco insoddisfatto del suo lavoro di redattore in una rivista culturale, il quale decide di partire per un viaggio alla volta del Klondike in compagnia dello zio John, uomo spiccio, di grande vigore fisico, veterano della conquista del West. È proprio quest’ultimo, nel corso di un colloquio con il nipote, del quale disapprova la mancanza di spirito di iniziativa e lo stile di vita sedentario, a introdurre l’immagine della carne dell’orso come emblema della vita selvaggia e libera, spesa tra i pericoli di una terra inospitale, a contatto con la natura e con uomini forti, capaci di sopportare la fatica e le privazioni: Alla tua età possedevo soltanto la biancheria che indossavo e cavalcavo dietro al bestiame a Colusa. Ero duro come la roccia e sulla roccia potevo anche dormirci. Vivevo di carne di bue secca e di carne d’orso30Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike, Torino, Robin Edizioni 2014. Traduzione di Sergio Calderale e Pier Francesco Paolini. Capitolo I “Il sapore della carne”, par. I. Edizione Kindle. Cfr. l’originale in inglese: «When I was your age I had one suit of underclothes. I was riding with the cattle in Colusa. I was hard as rocks, and I could sleep on a rock. I lived on jerked beef and bear-meat» (Jack London, Smoke Bellew, New York, Grosset & Dunlap Publishers 1912. Illustrated by P. J. Monahan, p. 11).
. In seguito a questa affermazione «la carne dell’orso» diventa quasi un leit-motiv, un termine di paragone simbolico rispetto al quale le vicende che accadono al protagonista sono etichettate e ordinate secondo una scala ideale di audacia crescente. Nelle prime settimane trascorse nel Klondike, spinto dalla necessità, Cristopher compie una rapida iniziazione alla wilderness: il suo corpo, costretto a trasportare carichi pesanti in condizioni disagevoli, cambia e si rafforza; dentro di lui prorompono tratti caratteriali che non sospettava di possedere, quali la tenacia, la capacità di resistenza, la forza di volontà. Quando lo zio è in procinto di fare ritorno a San Francisco Cristopher- Smoke decide di non seguirlo e di rimanere a lavorare nel Klondike motivando la sua scelta con queste parole: Che gusto c’è a tornarsene indietro dopo che si è arrivati così lontano? – domandò. – Inoltre ho assaporato il gusto della carne, e mi piace. Io proseguo […]. Mi sono trovato un lavoro. Guarda tuo nipote, Christopher Smoke Bellew. Si è trovato un lavoro da centocinquanta dollari al mese, più il vitto. Sta per scendere fino a Dawson insieme a un paio di bei tipi e del lavorante assoldato da un altro gentiluomo. Cuoco, barcaiolo e tuttofare […]. Si dice che i grizzlie col muso bianco siano piuttosto numerosi nel bacino dello Yukon […]. Beh, mi ritrovo soltanto con la biancheria che indosso e sto andando a caccia di carne d’orso. Questo è quanto31Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike cit., capitolo I “Il sapore della carne”, par. VIII. cfr. «“What’s the good of turning back after getting this far?” he asked. “Beasides, I,ve got my taste of the meat, and I like it. I’m going on […] I,ve got a job. Behold your nephew, Christoper Smoke Bellew! He’s got a job at a hundred and fifty per month and grub. He’s going down to Dawson with a couple of dudes and another gentleman’s man-- camp-cook, boatman, and general all-around hustler. […] They say the baldface grizzlies are thick in the Yukon Basin […]. Well, I’ve got only one suit of underclothes, and I’m going after the bear-meat, that’s all”». (Jack London, Smoke Bellew cit., p. 33).
. Ai fini di un confronto fra London e Levi interessa maggiormente il secondo capitolo del libro, intitolato “The Meat”, “La carne”, non soltanto perché vi si trovano descritte le situazioni narrative che devono aver colpito l’immaginazione di Levi, ma anche perché è qui che ci si imbatte in un locus testuale che in “Ferro” è ripreso da vicino e riempito di nuovi significati. Dopo aver compiuto la sua iniziazione e aver assaporato per la prima volta, metaforicamente, la “carne dell’orso”, Cristopher si mette consapevolmente alla ricerca di quella carne. Viene assoldato da due ricchi gentiluomini, Sprague e Stine, per sbrigare le incombenze pratiche di un viaggio attraverso il Klondike, insieme a Shorty, il cuoco tuttofare che diventa il suo nuovo compagno di avventure. Il motivo ricorrente della carne dell’orso offre l’occasione per una serie di battute allusive che vanno a rafforzare la complicità fra Smoke e Shorty. I due riescono ben presto a liberarsi dei loro datori di lavoro, i quali si rivelano del tutto inadatti a quel tipo di vita. Smoke e Shorty si mettono, per così dire, in proprio e Smoke riesce ad arricchirsi e a fare fortuna, in un primo momento con una serie di vittorie alla roulette nella bisca dell’Elkhorn, a Dawson, e poi con le concessioni aurifere, guadagnate a prezzo di sovrumane fatiche fra i ghiacci e attraverso una lotta serrata con gli altri cercatori d’oro. Il patto di amicizia e di mutua lealtà fra Smoke e Shorty è stipulato a prima vista a partire dall’intesa immediata sul significato da dare alla “carne dell’orso”: – Sei stato cresciuto a carne d’orso? – gli domandò Altroché, - fu la risposta, - ma la prima cosa che mi han dato che io possa ricordare è il latte di bufala. Siediti e mangia qualcosa, i nostri due capi non si son’ancora alzati32Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike cit., cap. II, “La carne”, par. I «Kit put out his hand and shook. “Were you rised on bear-meat?” he queried.“Sure”, was the answer; “though my first feedin’ was buffalo-milk as near as I can remember. Sit down an’ have some grub. The bosses ain’t turned out yet”». (Jack London, Smoke Bellew cit., p. 35).
. La presenza di Sprague e di Stine infastidisce Smoke proprio perché la grettezza e la pigrizia di cui entrambi danno prova gli appaiono inconciliabili con il coraggio e lo spirito di abnegazione che un’esperienza come quella esige da chi la intraprende. Ancora una volta l’autore ricorre alla metafora gustativa per esprimere questo concetto: Di pari passo con la montante consapevolezza delle sue capacità era subentrata una crescente disapprovazione nei confronti dei loro due capi. Non si trattava tanto di irritazione, comunque presente, quanto piuttosto di disgusto. Aveva assaporato il gusto della carne, e gli era piaciuto, ma quei due gli stavano insegnando come non andava mangiata33Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike cit., capitolo II, “La carne”, par. II. «Along with the continuous discovery of his own powers had come an ever-increasing disapproval of the two masters. It was not so much irritation, which was always present, as disgust. He had got his taste of the meat, and liked it; but they were teaching him how not to eat it». (Jack London, Smoke Bellew cit., p. 44).
. Più avanti nello stesso capitolo è narrato il superamento di una prova che per Christopher assume il significato di un’ulteriore iniziazione. Per poter procedere nel viaggio la piccola compagnia formata da Smoke, Shorty, Sprague e Stine è costretta ad attraversare in barca due rapide molto pericolose, nei due punti noti come Box Canyon e White Horse. I padroni si defilano, ma Smoke prende in mano la situazione mostrando una innata predisposizione per la navigazione. Dopo aver cavalcato la cresta dell’onda del Box Canyon in un punto difficilissimo ed esserne uscito incolume, non appena il fragore delle onde si attenua, Shorty parla e dimostra di aver assimilato a fondo la lezione dell’amico: Questa sì ch’era carne d’orso, – esultò, – vera carne d’orso. Di’ un po’, Smoke, l’appetito c’è venuto sol’adesso, che ne dici? Non mi vergogno a dirti in confidenza che prima che partissimo ero l’uomo più maledettamente impaurito al di qua delle Montagne Rocciose. Adesso son’un mangiatore d’orsi34Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike cit., capitolo II, “La carne”, par. III. «“That was bear-meat” he exulted, “the real bear-meat. Say, we want a few, didn’t we, Smoke, I don’t mind tellin’ you in confidence that before we started I was the gosh-dangdest scaredest man this side of the Rocky-Mountains. Now I’m a bear-eater.”» (Jack London, Smoke Bellew cit., p. 47).
. Smoke è consapevole che se vuole sopravvivere deve affinare le sue capacità di lettura e di osservazione della nuova realtà per capire in fretta quale è il comportamento più adatto in ogni situazione, quali i rischi, quali i vantaggi. Prima di salpare per la traversata della “criniera” del White Horse è colto dal pensiero dei suoi antenati e sente che dentro di lui si è risvegliata un’antica eredità: quella degli uomini devoti alla “carne dell’orso”, fra i quali può essere annoverato anche il suo amico Shorty: Kit era diviso tra due sensazioni: la prima, lo sprone che gli proveniva dalla tempra del suo compare; l’altra, ugualmente di stimolo per lui, era la consapevolezza che il vecchio Isaac Bellew, e tutti gli altri suoi antenati, avevano affrontato imprese simili nella loro marcia alla conquista del West. Quello che erano stati in grado di fare loro, poteva riuscire a compierlo anche lui. Era questa la carne, la carne gagliarda, e si rendeva conto, come mai prima, che per mangiarla occorrevano uomini altrettanto gagliardi35Jack London, “Smoke” Bellew. Storia di un soprannome nel Klondike cit., capitolo II, “La carne”, par. IV.
. Vale la pena, in questo caso, di riportare l’originale inglese direttamente nel corpo del testo, e non in nota: Kit was divided between two impressions: one, of the caliber of his comrade, which served as a spur to him; the other, likewise a spur, was the knowledge that old Isaac Bellew, and all the other Bellews, had done things like this in their westward march of empire. What they had done, he could do. It was the meat, the strong meat, and he knew, as never before, that it required strong men to eat such meat36Jack London, Smoke Bellew cit., p. 50.
. Confrontiamo ora quest’ultima citazione con il brano di “Ferro” in cui il narratore, dopo aver descritto la notte trascorsa in montagna, si sofferma su quello che è, secondo lui, il significato più autentico della formula adottata da Sandro: Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino37Primo Levi, “Ferro” cit., p. 896.
. Levi opta per un ordine di frase marcato, ottenuto attraverso lo spostamento del soggetto (la carne dell’orso) a destra e la collocazione del verbo essere e del dimostrativo in prima posizione («era questa»), che recupera la costruzione inglese «it was the meat», ma ha in più il vantaggio di focalizzare ulteriormente, grazie anche all’uso della virgola dopo il dimostrativo, l’attenzione sull’essenza di quella carne, cioè, come viene precisato nel periodo successivo, sul suo sapore unico e inconfondibile. È ripreso da London l’uso della congiunzione «e» («and» in inglese) per introdurre le riflessioni del protagonista-narratore, a questo punto dichiaratamente auctor, oltre che agens, del racconto, e conscio delle implicazioni prospettiche e affettive che la sua posizione comporta. Nell’ultima pagina di “Ferro” il riuso della citazione tratta dal secondo capitolo di Smoke Bellew segna, nel momento di massima somiglianza formale fra i due testi, uno scarto evidente, non solo rispetto al modello, ma anche rispetto al tono con cui fino ad allora le avventure dei due personaggi sono state narrate. A mutare completamente infatti è il punto di vista da cui si guarda al passato appena rievocato, perché la «spavalderia»38La parola «spavalderia» nell’opera di Levi compare soltanto in “Ferro”, nella descrizione del carattere di Sandro, del quale si dice che era «coraggioso, perfino con una punta di spavalderia» (p. 890). L’eccessiva sicurezza o temerarietà è un ingrediente essenziale delle avventure in montagna.
e l’incoscienza propri della giovinezza lasciano il posto, in poche righe, alla consapevolezza della piena maturità, quando si è superata la “linea d’ombra” e si conosce fin troppo bene quali aspirazioni si sono realizzate e quali no e, soprattutto, quale piega hanno preso i destini individuali dei protagonisti di quella lontana stagione. «Ora, che sono passati molti anni»: questa precisazione serve, da un lato, a marcare la differenza di tono di cui si è detto e, dall’altro, a preparare la transizione dal tempo del racconto al tempo storico che caratterizza il finale di “Ferro”. Sulla soglia del passaggio Joseph Conrad si sostituisce a Jack London come autore di riferimento: la riflessione suscitata dal ricordo della “carne dell’orso” è espressa in termini che riecheggiano brani di Youth (Giovinezza)39Le citazioni, più o meno esplicite, da Youth sono evidenziate, tanto ne La carne dell’orso quanto in “Ferro”, da Riccardo Capoferro alle pp. 14-22 del lavoro citato alla nota 13. Si riporta un brano dal racconto di Conrad, a titolo di esempio, nella traduzione italiana di Ugo Mursia accolta da Levi ne La ricerca delle radici: «Ricordo la mia giovinezza e quel sentimento che non potrà mai più tornare – il sentimento di poter essere eterno, di poter sopravvivere al mare, alla terra, a tutti gli uomini; quel fallace sentimento che ci lusinga alle gioie, ai pericoli, all’amore, allo sforzo vano – alla morte; quella trionfante convinzione di forza, quel calore di vita nella manciata di polvere, quell’ardore nel cuore che con l’andar degli anni s’indebolisce, si raffredda, s’impicciolisce e smuore – e smuore, troppo presto, troppo presto – prima della vita stessa» (Primo Levi, La ricerca delle radici in Opere complete cit., vol. II, pp. 77-87; p. 83).
e di The Shadow- Line: a Confession (La linea d’ombra. Una confessione)40Si veda, ad esempio, questo brano, all’inizio del racconto: «Ci chiudiamo alle spalle il cancelletto della fanciullezza – ed entriamo in un giardino incantato. Qui perfino le ombre risplendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha le sue seduzioni. E non perché questa sia una terra inesplorata. Sappiamo fin troppo bene che tutti gli uomini sono passati di qui. È il fascino di un’esperienza universale da cui ci attendiamo sensazioni non comuni o personali – qualcosa che sia solo nostro». (Joseph Conrad, La linea d’ombra. Una confessione, Milano, Feltrinelli 2019. Traduzione di Simone Barillari; p. 13).
, come se fra i due maestri della narrativa d’avventura avvenisse un simbolico passaggio di testimone. Il Levi del 1974 guarda con affetto e rimpianto a quei tentativi di libertà – incompiuti ed estremi – che erano tutto ciò che il momento storico poteva offrire a due ragazzi che volevano trovare da soli la loro strada. Due periodi fungono da cerniera fra il tempo del racconto e il tempo della Storia: Sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi. Non hanno servito a lui, o non a lungo41Primo Levi, “Ferro” cit., p. 896.
. Dopo l’ultima frase il personaggio Sandro è identificato con la figura storica del partigiano Sandro Delmastro, primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione, comandante di gruppi di resistenti in Val Pellice e nella città di Torino. Con una mossa abbastanza inconsueta, lo scrittore toglie al personaggio la maschera di carta per mostrare il volto della persona storica che vi si cela sotto. Levi conduce il lettore in un punto di osservazione esterno alle vicende narrate, dal quale si comprende che “Ferro” è un racconto di formazione duplice non soltanto perché rappresenta il percorso di maturazione di due individui, ma anche perché contiene in nuce un secondo racconto di formazione, ellittico, che riguarda il solo Sandro. Del secondo “racconto nel racconto” i fatti narrati in “Ferro” – che si potrebbero sintetizzare in modo schematico come segue: incontro con Primo Levi, scoperta di nuovi autori e di nuovi libri, nascita di un interesse autentico per lo studio della Chimica, adesione a un sistema di vita alternativo al fascismo, “tirocinio” in montagna – pongono le premesse; l’esito e insieme il compimento tragico della formazione è interamente contenuto nella narrazione della morte di Sandro, avvenuta appena cinque anni dopo l’inizio di quella «stagione frenetica»42Ivi, p. 892.
: Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell’aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso, con una scarica di mitra alla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori43Ivi, p.896.
. Mutuando una categoria dagli studi storici, si potrebbe dire che entrambi i protagonisti del racconto “Ferro” approdano di fatto – attraverso prove, errori e piste tutt’altro che lineari – a una forma di «antifascismo esistenziale»44Il concetto di antifascismo esistenziale fu declinato da Guido Quazza in senso generazionale (cfr. Guido Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli 1976) e poi sviluppato da Giovanni De Luna, storico che si è occupato a lungo del Partito d’Azione, il movimento che si rifaceva a “Giustizia e Libertà” dei fratelli Rosselli, in cui tanto Primo Levi che Sandro Delmastro militarono durante la Resistenza (cfr. Giovanni De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana, Torino, Bollati Boringhieri 1995).
, ovvero un atteggiamento di intima opposizione al fascismo che si nutre di idee e comportamenti a esso antitetici, ma che non sfocia ancora in una militanza antifascista o in aperta ostilità. Il salto di qualità dall’antifascismo esistenziale all’antifascismo militante, che resta fuori dal racconto ma è testimoniato a posteriori dall’uccisione di Sandro a Cuneo, si configura come un passaggio dalla potenza all’atto e fornisce – dalla fine – un’ulteriore chiave interpretativa e un preciso orizzonte semantico alla narrazione. Che la montagna avesse assunto il ruolo di «educatrice» ante litteram per un’intera generazione di antifascisti cresciuti durante il ventennio fascista è un dato acquisito dalla storiografia; lo si ritrova precocemente nella stampa partigiana fiorita nei venti mesi della lotta contro il nazifascismo e nella pubblicistica successiva legata alla Resistenza. Appaiono illuminanti, a questo proposito, le parole scritte nel breve profilo di Sandro Delmastro apparso il 10 maggio 1945 su «Giustizia e Libertà. Quotidiano del mattino» in un articolo in ricordo dei caduti del Primo Comitato Militare Piemontese del Partito d’Azione: Il più giovane, il primo caduto. Il suo coraggio era contenuto e quasi pudico, ed era coraggio fatto di profondo amore di vita, schivo perciò da ogni parvenza esteriore, da ogni vanteria che egli avrebbe considerata come un oltraggio alla propria forza, alla forza della sua generazione, sorta in mezzo agli inganni, liberata da un profondo e difficile lavoro di approfondimento interiore. Nato nel ’17 divise la sua giovinezza tra gli studi e la montagna, prima forma di liberazione per tanti suoi coetanei, e che egli amò con quel sorriso che i compagni ricordano e che resta loro nel cuore come la più bella testimonianza della sua anima45Il Comitato militare piemontese del Partito d’Azione, in «Giustizia e Libertà. Quotidiano del mattino», a. I, 10 maggio 1945.
. In “Ferro” sono mostrate le prime tappe di «un lavoro di approfondimento interiore» che per il narratore continua, nella totale assenza di maestri, anche nei racconti “Potassio”, “Nichel” e “Fosforo”, fino alla scelta resistenziale descritta in “Oro”. La montagna è uno spazio sospeso dove è possibile assaporare qualche ora di effimera libertà, lontano dalle città dove si consumano i rituali dell’educazione fascista e della propaganda del regime, ma soprattutto è parte integrante di un processo più ampio di ricerca della propria identità. Il sapore della “carne dell’orso” diventa allora il presagio di una lenta liberazione dai condizionamenti della mentalità dominante, come accade anche in Smoke Bellew: dopo aver assaggiato la carne dell’orso nel Klondike anche Christopher cambia vita e muta la sua scala di valori. La parola “liberazione” esprime con precisione il senso del processo compiuto dai personaggi perché presuppone un’azione da parte di un soggetto che libera o che, come in questo caso, si libera. La ripresa da parte di Levi di un romanzo probabilmente amato da Sandro Delmastro può essere interpretata anche come un ulteriore omaggio alla memoria dell’amico e a quella inattesa scoperta delle proprie potenzialità - «discovery of his own powers» (cfr. nota n. 33) si legge nell’ inglese di London più evocativo, in questo caso, dell’italiano - che la montagna e l’amicizia avevano reso possibile. La metafora della carne dell’orso è estrapolata dalla sfera semantica della caccia, presente ne Il sistema periodico come emblema della ricerca della soluzione ai tanti enigmi che il chimico militante deve fronteggiare nella sua lotta contro la materia: questa derivazione è la prima evidenza che balza all’occhio del lettore, qualora non conosca l’origine dell’espressione. La citazione da London quindi non solo si inserisce perfettamente nella situazione narrativa del racconto, ma stabilisce una rete di relazioni paradigmatiche con il macrotesto perché va a innestarsi nel tessuto linguistico e figurale del libro diventando una tessera di una costruzione discorsiva unitaria. Il chimico conosce quelle che Pavese definì «le due esperienze della vita adulta», ovvero «il successo e l’insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave»46Primo Levi, “Nichel”, Il sistema periodico, Opere complete cit., vol. I, pp. 906-919; p. 916.
: nella genealogia dell’idea di caccia come ricerca di sé e acquisizione di conoscenza va inserito senz’altro il nome di Herman Melville, l’autore di Moby Dick, che in “Fosforo” viene ricordato da Levi come una delle letture più importanti degli anni giovanili47Cfr. “Fosforo”, Il sistema periodico, in Opere complete cit., vol. I, pp. 940-52, p. 941: «L’indomani stesso mi licenziai dalle Cave, e mi trasferii a Milano con le poche cose che sentivo indispensabili: la bicicletta, Rabelais, le Macaroneae, Moby Dick tradotto da Pavese ed altri pochi libri, la piccozza, la corda da roccia, il regolo logaritmico e un flauto dolce». Per un confronto fra Primo Levi e Herman Melville si veda Gianluca Cinelli, Primo Levi e Herman Melville, in Innesti. Primo Levi e i libri altrui, a cura di Gianluca Cinelli e Robert S. C. Gordon, Oxford, Peter Lang 2020, pp. 345-360.
nella traduzione fatta da Cesare Pavese nel 1936 per Frassinelli. In “Ferro” ci si discosta dalla chimica e dall’ambito professionale per addentrarsi in un territorio esistenziale e storico che si colloca esattamente all’intersezione fra la microstoria e la macrostoria. La caccia di Primo e di Sandro è una caccia individuale e generazionale che infine dovrebbe fornire risposta ai quesiti che li incalzano (si vedano, a questo proposito, gli interrogativi sollevati da Primo: «Non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante venisse richiesto di credere senza pensare? Non provava ribrezzo per tutti i dogmi, per tutte le affermazioni non dimostrate, per tutti gli imperativi?»48Primo Levi, “Ferro” cit., p. 891.
). È una caccia simbolica, la cui posta in gioco è il cambiamento e la capacità di fare delle scelte nel mondo degli adulti, in contesti ben diversi da quello universitario. La Storia, quella con la “s” maiuscola, racconta che ci sono riusciti.Un personaggio «londoniano»
Smoke Bellew, un’opera dimenticata di Jack London
The Meat
La carne dell’orso e la “linea d’ombra”
Prima forma di liberazione