Conversations with Primo Levi
Some of the most interesting questions asked of Primo Levi and by him as well as his answers in over twenty five years of interviews and conversations.
Begin your conversation with Primo Levi
Choose a topic
Quali sono i motivi profondi dell’antisemitismo più o meno sentito e praticato nel corso della storia anche da altri popoli?
L’antisemitismo ha radici antiche e molteplici: volta a volta, ha avuto carattere religioso, o etnico, o economico. Ma in Germania, nella sua forma più virulenta, è stato un impulso irrazionale, di natura intimamente biologica, benché verniciato di filosofia romantica d’accatto.
Esiste ancora nel mondo il pericolo di un ritorno dell’antisemitismo o della persecuzione razziale di massa, coi sistemi di tipo nazista?
L’antisemitismo non è spento, e persecuzioni razziali di massa possono ritornare. […] Un nuovo Hitler, che in qualsiasi paese venisse a prevalere, e disponesse delle terribili armi della tecnica e della propaganda moderne, troverebbe seguaci con facilità irrisoria.
Dieci mesi in un Lager, dieci mesi quando Lei aveva ventitre anni: segnano una persona per tutta la vita?
[...] Non saprei dire per quale motivo, ma ho l’impressione, se non le sembra cinica l’espressione, che mi abbia arricchito questa avventura, cioè mi ha fornito un’enorme mole di esperienze, di cui ho travasato una parte abbondante nei miei libri, ma ho l’impressione che non sia tutto, che valga ancora la pena di pensarci sopra, di ragionarci sopra, di studiare quali elementi di questa esperienza si ripetano nel mondo d’oggi intorno a noi, quali penso che non potranno ripetersi più, quali stanno già ripetendosi ed è una tematica che avevo impostato…
Dieci mesi in un Lager a ventitre anni impediscono di essere felici poi dopo, nel resto della vita?
[...] L’avventura del Lager non mi ha distrutto né fisicamente né mentalmente, come è successo ad altri, non ha distrutto la mia famiglia, non mi ha privato di una patria, non mi ha privato di una casa, non solo non mi ha privato di un lavoro, ma me ne ha regalato un secondo, perché io probabilmente non avrei mai scritto se non avessi avuto queste cose da scrivere.
Ecco, che effetto Le fa rivedere questi luoghi?
È tutto diverso, sono passati oltre quarant’anni; […] Io avevo percorso questi paesi d’inverno e la differenza è totale, perché l’inverno polacco era, ed è tuttora, un inverno duro, non come quello a cui noi in Italia siamo abituati, la neve persiste tre, quattro mesi, e noi eravamo inetti, incapaci insomma di reggere all’inverno polacco, sia durante la prigionia che anche dopo. Io ho percorso questi paesi allo stato di persona dispersa, di persona spiazzata, alla ricerca di un baricentro, di un qualcuno che mi accogliesse.
Lei non crede che gli altri, gli uomini, vogliano al più presto dimenticare Auschwitz, oggi?
Esistono segnali che questo avviene, dimenticare o addirittura negare. Questo è significativo: chi nega Auschwitz è quello stesso che sarebbe pronto a rifarlo.
Quale riconoscimento alla Sua opera ricorda con più viva emozione?
Probabilmente il Campiello ’63, ma, precedentemente, la prima recensione avuta per Se questo è un uomo, su «La Stampa», ad opera di Arrigo Cajumi, che mi promosse scrittore. È stata un’emozione superiore a quella dei premi letterari che sono seguiti e che naturalmente ho accettato volentieri, ma che spesso risultano cerimonie ibride, letterarie e mondane al medesimo tempo, in cui ci si stanca, in cui si viene presentati a centinaia di persone che poi dimentichiamo. La recensione del critico intelligente vale molto, è un grande dono.
Un Suo pregio e un Suo difetto.
Il mio pregio sta nell’attenermi alla realtà: un debito che il Primo Levi scrittore ha verso il Primo Levi chimico. Il mio difetto è la mancanza di coraggio, la paura per me e per gli altri.
Se dovesse scegliere una frase, una parola, un’immagine per definirsi...?
Mi sento un centauro. Perché doppio, ibrido, bifido. Sono italiano ed ebreo, chimico e scrittore, razionalista e poeta. Sono favolosamente stazionario e mi piacerebbe viaggiare.
Forse Primo Levi non ama parlare di sé?
No, mi piace moltissimo parlare di me (ride), però è vero che sono riservato. Naturalmente le due cose sono contraddittorie, ma quando si presenta l’occasione di parlare di me lo faccio con piacere, con narcisismo, addirittura.
Che valore ha, per Lei, un premio?
Per me un premio è un riconoscimento da parte del pubblico. Io tengo molto al pubblico, non appartengo a quella categoria di scrittori – pregevolissima – che scrivono per sé. Io scrivo per chi mi legge e quindi un premio mi porta davanti a un pubblico vasto. Questo mi fa piacere, anche perché mi permette un contatto, magari indiretto, con i miei lettori. È gradevole quando mi scrivono i miei lettori, e mi scrivono in molti.
È tornato ad Auschwitz?
Due volte, nel 1965 e nel 1982 . La scritta della lapide che c’è all’ingresso del «memorial» degli italiani non è firmata ma è mia. Le posso dettare le parole: «Visitatore, osserva le vestigia di questo campo e medita: da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa’ che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa’ che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non sia nuovo seme né domani né mai.
Il titolo Ad ora incerta allude alla discontinuità con cui Lei scrive poesie. Ma quali sono le occasioni di queste spinte discontinue?
Devo premettere che il titolo è tratto da un verso della mia poesia Il superstite e che esso dipende a sua volta da un luogo tratto dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Anch’io, come dice Coleridge del vecchio marinaio, al ritorno da Auschwitz mi sono sentito dotato di uno strano potere di parola. Questa è l’origine del titolo. Poi mi sono accorto che si attagliava molto bene a descrivere la saltuarietà con cui faccio poesia.
E le occasioni dell’«ora incerta»?
Sono le più imprevedibili. Una ragnatela, una chiocciola, il ponte del diavolo a Lanzo, oppure la memoria, il ritorno della memoria.
Della poesia 11 febbraio 1946 tratta dal volume Ad ora incerta, mi hanno colpito tre versi: «Meditai la bestemmia insensata | che il mondo era uno sbaglio di Dio | io uno sbaglio del mondo». In che cosa consiste l’insensatezza di questa bestemmia?
Questa è una poesia d’amore, l’ho scritta in un momento in cui ero innamorato. In quest’atmosfera mi sembrava blasfemo quello che avevo pensato fino a poco prima, cioè che il mondo fosse uno sbaglio di Dio e io uno sbaglio del mondo. Devo dire che non potrei piuù sostenere questi tre versi, oggi, perché vanno intesi in senso metaforico. Che il mondo sia uno sbaglio di Dio, oggi lo ritengo ancora una cosa non piuù blasfema ma insensata perché se c’è un Dio non sbaglia. E neppure credo di essere io uno sbaglio nel mondo. O nessuno o tutti, non io in specie.
Per quanto tempo Lei è stato internato?
Per un anno, dal febbraio del ’44 al gennaio del ’45.
Qual è il ricordo di un suono, di una parola, piú precisa di Auschwitz? Qual è il ricordo che Le torna più spesso alla memoria?
Come parole, i comandi. Come suono, le marce che suonava l'orchestra ogni mattina e ogni sera, era una dozzina forse, una quindicina, sempre le stesse. Io non so scrivere musica, ma potrei dettarle benissimo. Ho scritto in Se questo è un uomo che è l’ultima cosa che dimenticheremo. Sono passati quarant’anni e posso confermarlo.
E' ironico che il momento più doloroso della Sua vita sia stato anche il più incisivo.
Non c’è contraddizione, non crede? È stata una cosa dolorosa, certamente, però è stato anche – sembra cinico dirlo – il periodo piú interessante della mia vita. È stata un’avventura anche. Non sono il solo a parlare cosí.
Che cosa vuol dire, moralmente e spiritualmente, «abituarsi» [alla violenza]?
Uno perde la sua umanità, semplicemente. L’assuefazione alla vita del Lager è per un verso l’unica via per sopravvivere, per l’altro significa perdere una parte della propria umanità. Il tema di Se questo è un uomo è anche questo. Riguarda le guardie e i prigionieri. Non erano piú umani né gli uni né gli altri. La disumanità del sistema nazista arrivava fino ai prigionieri, salvo quelle poche eccezioni.
Come si riacquista l’umanità, dopo Auschwitz?
Ricorda le ultime pagine di Se questo è un uomo? Lí ho descritto come l’ho riacquistata, quando con altri compagni abbiamo potuto aiutare i malati e i moribondi, benché fossimo malati anche noi. Ho mantenuto un’amicizia profonda con un francese che mi ha aiutato, Charles [Conreau]. Ci scriviamo ancora. […] perché abbiamo avuto l’impressione, sia lui sia io, di aver vissuto un’importante avventura insieme: quella di aver cercato di salvare delle vite umane. Era appena finita la prigionia: eravamo ancora ad Auschwitz, ed eravamo ancora malati. Però abbiamo montato una stufa e abbiamo fatto da mangiare per dieci persone, cercando di farle sopravvivere un po’ di più. Abbiamo avuto proprio l’impressione di riacquistare la dignità umana. Aiutando gli altri. E anche gli altri l’hanno sentito. Quei poveri malati, povera gente, alcuni moribondi, che hanno deciso di darci un tozzo di pane che avevano avanzato, anche questo era un atto di umanità, diverso da quello che era avvenuto prima.
Ci può mai essere una «violenza utile»?
Ad Auschwitz, ho avuto la sensazione di due diversi livelli di crudeltà. […] in molte azioni dei nazisti c’era proprio il desiderio di infliggere sofferenza fine a se stessa. E niente altro. Ho citato anche il caso, il caso clamoroso, delle novantenni [dell’ospizio ebraico di Venezia] che sono state caricate sui treni e portate nei Lager. Non era piú logico ucciderle subito? Non so se sia giusta la mia interpretazione, che è quella, appunto, di infliggere la massima sofferenza possibile; o magari era pura stupidità. […] Penso che ci fosse proprio un piacere maligno a deportarle. Siccome erano stati nutriti da una intensa propaganda secondo cui gli ebrei erano veramente Ungezieferen – animali nocivi, parassiti – […]. Eravamo davvero odiati da molti ed era considerato giusto farci soffrire.
Si è mai posto la domanda di come sarebbe stata la Sua vita senza Auschwitz?
E sí, certo! Non solo me la sono posta, ma me la pongono tutti! Io non so rispondere. Scusi, se io dicessi a Lei, «Se Lei non fosse nata in America, che cosa avrebbe fatto?» Lei non potrebbe rispondere. [...] Non lo so, ma posso fare qualche supposizione. Probabilmente non avrei scritto. O avrei scritto chissà cosa. Facevo il chimico, e con molta convinzione. Infatti, ho fatto il chimico per tutta la vita. […] Probabilmente non avrei scritto o avrei scritto delle cose completamente diverse, forse qualche trattato di chimica. Certamente possedevo la capacità di scrivere; questo non posso negarlo. Non sono nato da nulla. Avevo fatto degli studi classici abbastanza seri e lo strumento della scrittura lo possedevo. Ma non avrei avuto, come dire, la materia prima per diventare scrittore.
C’era una lingua franca ad Auschwitz, che non fosse il tedesco?
All’inizio era il polacco, e anche lo yiddish. Poi arrivarono così tanti ungheresi che tutti parlavamo ungherese. Era la lingua piú diffusa. Io parlavo tedesco con loro, dal momento che non tutti ma molti ungheresi sapevano un po’ di tedesco. Eccetto i contadini. I contadini non sapevano niente, ed erano così numerosi!
In Lager c’era differenza tra uomini e donne?
Uomini e donne erano in Lager diversi e le donne stavano peggio. Stavano peggio per molti motivi: in primo luogo perché il lavoro era lo stesso per uomini e per donne e mediamente le donne sono meno robuste degli uomini e poi perché l’ideologia nazionalsocialista era profondamente antifemminista. Le donne erano considerate, come dire, degli strumenti di riproduzione. Dovevano «fabbricare» guerrieri, «fabbricare» i difensori della patria, non avevano altro scopo. Non si vedeva nella donna altro, anche se poi eccezioni ce n’era, naturalmente, come ce n’era dappertutto, ma alle ragazze a scuola veniva insegnato questo: che la donna doveva essere modesta, doveva non aspirare a una carriera, doveva sposarsi presto, doveva sposarsi con un uomo biondo, bello, germanico, di razza pura e cosí via e mettere al mondo piú figli possibile. Questo disprezzo veniva moltiplicato per le donne non tedesche: erano ancora peggio, insomma erano veramente una merce di dozzina. Bisogna pensare cosa significa, anche per un uomo, naturalmente, ma tanto piú per una donna, abituata, che so io, a una certa eleganza, a una certa cura di se stessa, avere i capelli rasati e venire privata di tutto, vestita di stracci non sulla sua misura, di scarpe con cui non si poteva camminare. Perdere, insomma, ogni caratteristica femminile, diventare un pupazzo immondo. Era molto traumatizzante. Questo, è chiaro, non l’ho provato io, perché i campi erano separati, però ho parlato con molte mie amiche che hanno raccontato quello che anche noi sentivamo, cioè questa spersonalizzazione del primo giorno…
Quali sono i primi sentimenti e le prime sensazioni che prova adesso quando pensa al Lager?
[…] In primo luogo ho sviluppato dei terribili calli, una callosità, perché ho parlato di queste cose con parecchie centinaia di persone e il mio libro, Se questo è un uomo, è stato tradotto in molte lingue, ne ho parlato pubblicamente, è stato ridotto per radio e per teatro, ha avuto, insomma, una lunghissima storia e oramai il Lager sta dietro a tutta questa barriera di destini successivi. Per questo dico che è inquinato il mio ricordo del Lager, si confonde con quello del libro. Devo fare uno sforzo per pensare adesso a quella condizione e per ricostruirla e devo dire che Se questo è un uomo mi funge da memoria artificiale perché se non l’avessi scritto, avrei finito col dimenticare qualche cosa.
La coscienza di patire tutti una comune ingiustizia non vi univa?
Non abbastanza. Per molti motivi. Il motivo fondamentale è che mancava la comunicazione […]. Pochi fra noi ebrei italiani capivano il tedesco o il polacco; pochissimi. Io sapevo qualche parola di tedesco. L’isolamento linguistico, in quelle condizioni, era mortale. Sono morti quasi tutti gli italiani per questo. [...] Chiedevi informazioni, notizie, spiegazioni al tuo compagno di letto e quello non ascoltava e non capiva. Questo fatto era già un primo grosso ostacolo all’unione, al riconoscersi come compagni.
Auschwitz è la prova della non-esistenza di Dio?
C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. [Sul dattiloscritto, a matita, ha aggiunto: Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo].
Ha ancora dei contatti con i compagni del Lager?
Henek l’ho perso di vista completamente. Ho ritrovato invece quel Pikolo, quello del canto di Ulisse; con lui ci vediamo sovente; viene a fare le vacanze in Italia e fa il farmacista in un piccolo paese vicino a Strasburgo. È uno di quelli che hanno rimosso tutto: […].
Non sapevate come funzionava, come procedeva [lo sterminio]?
No. Correva, sí, voce che ci fossero un crematorio e una camera a gas, ma siccome non erano nel mio campo... Erano a quattro chilometri di distanza e cosí le voci che ci arrivavano erano censurate, e per molte ragioni. Censurate perché i tedeschi non volevano che si sapessero, e censurate perché anche i prigionieri che venivano da altri campi e le sapevano non ne parlavano volentieri, quasi per una specie di galateo. Come in un salotto non sta bene parlare di cancro, cosí là non si parlava di camere a gas; era considerato di cattivo gusto, insomma. Si sa, ci sono, ma... e poi nessuno sapeva bene come fossero fatte, perché chi ci andava non ne usciva.
Quanto è durato il viaggio [per Auschwitz]? E dove siete arrivati?
Tre giorni. Poi siamo arrivati direttamente ad Auschwitz. Il viaggio è stato durissimo, perché faceva molto freddo, e soprattutto perché non ci avevano avvisato di portarci dietro dell’acqua. Non ci avevano comunicato la destinazione; ci avevano detto: «Portatevi qualche scorta per un giorno o due di viaggio»; cosí l’acqua non è bastata e abbiamo avuto molta sete.