Conversations with Primo Levi

Some of the most interesting questions asked of Primo Levi and by him as well as his answers in over twenty five years of interviews and conversations.

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Dieci mesi in un Lager, dieci mesi quando Lei aveva ventitre anni: segnano una persona per tutta la vita?

[...] Non saprei dire per quale motivo, ma ho l’impressione, se non le sembra cinica l’espressione, che mi abbia arricchito questa avventura, cioè mi ha fornito un’enorme mole di esperienze, di cui ho travasato una parte abbondante nei miei libri, ma ho l’impressione che non sia tutto, che valga ancora la pena di pensarci sopra, di ragionarci sopra, di studiare quali elementi di questa esperienza si ripetano nel mondo d’oggi intorno a noi, quali penso che non potranno ripetersi più, quali stanno già ripetendosi ed è una tematica che avevo impostato…

Dina Luce
p. 312

Dieci mesi in un Lager a ventitre anni impediscono di essere felici poi dopo, nel resto della vita?

[...] L’avventura del Lager non mi ha distrutto né fisicamente né mentalmente, come è successo ad altri, non ha distrutto la mia famiglia, non mi ha privato di una patria, non mi ha privato di una casa, non solo non mi ha privato di un lavoro, ma me ne ha regalato un secondo, perché io probabilmente non avrei mai scritto se non avessi avuto queste cose da scrivere.

Dina Luce
p. 313

Ecco, che effetto Le fa rivedere questi luoghi?

È tutto diverso, sono passati oltre quarant’anni; […] Io avevo percorso questi paesi d’inverno e la differenza è totale, perché l’inverno polacco era, ed è tuttora, un inverno duro, non come quello a cui noi in Italia siamo abituati, la neve persiste tre, quattro mesi, e noi eravamo inetti, incapaci insomma di reggere all’inverno polacco, sia durante la prigionia che anche dopo. Io ho percorso questi paesi allo stato di persona dispersa, di persona spiazzata, alla ricerca di un baricentro, di un qualcuno che mi accogliesse.

Emanuele Ascarelli e Daniel Toaff
p. 349

In Lager c’era differenza tra uomini e donne?

Uomini e donne erano in Lager diversi e le donne stavano peggio. Stavano peggio per molti motivi: in primo luogo perché il lavoro era lo stesso per uomini e per donne e mediamente le donne sono meno robuste degli uomini e poi perché l’ideologia nazionalsocialista era profondamente antifemminista. Le donne erano considerate, come dire, degli strumenti di riproduzione. Dovevano «fabbricare» guerrieri, «fabbricare» i difensori della patria, non avevano altro scopo. Non si vedeva nella donna altro, anche se poi eccezioni ce n’era, naturalmente, come ce n’era dappertutto, ma alle ragazze a scuola veniva insegnato questo: che la donna doveva essere modesta, doveva non aspirare a una carriera, doveva sposarsi presto, doveva sposarsi con un uomo biondo, bello, germanico, di razza pura e cosí via e mettere al mondo piú figli possibile. Questo disprezzo veniva moltiplicato per le donne non tedesche: erano ancora peggio, insomma erano veramente una merce di dozzina. Bisogna pensare cosa significa, anche per un uomo, naturalmente, ma tanto piú per una donna, abituata, che so io, a una certa eleganza, a una certa cura di se stessa, avere i capelli rasati e venire privata di tutto, vestita di stracci non sulla sua misura, di scarpe con cui non si poteva camminare. Perdere, insomma, ogni caratteristica femminile, diventare un pupazzo immondo. Era molto traumatizzante. Questo, è chiaro, non l’ho provato io, perché i campi erano separati, però ho parlato con molte mie amiche che hanno raccontato quello che anche noi sentivamo, cioè questa spersonalizzazione del primo giorno…

Alessandra Carpegna
p. 817