La deontologia del Testimone

di Roberta Mori

Intervento tenuto da Roberta Mori al seminario di aggiornamento per docenti Il mio terzo mestiere. Primo Levi e gli studenti, tenutosi giovedì 28 novembre 2019 presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in occasione del centenario della nascita di Primo Levi.

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Il mio terzo mestiere. Primo Levi e gli studenti

Seminario di aggiornamento per insegnanti organizzato in occasione del centenario della nascita di Primo Levi, il Centro Internazionale di Studi Primo Levi, l'Associazione Figli della Shoah, la Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC), la Fondazione Memoriale della Shoah di Milano e l'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Buongiorno a tutti,

Il mio intervento di questa mattina è stato pensato per fornire alcuni stimoli e, indirettamente, alcuni suggerimenti, ai docenti che si trovano a dover affrontare in classe la didattica della Shoah. Nel fare questo attingerò non solo alla mia esperienza di responsabile del settore didattico del Centro Studi Primo Levi, ma direttamente alle opere di testimonianza di Levi e soprattutto ai tanti interventi e alle riflessioni che Levi ha dedicato al Lager. Mi rifarò prevalentemente ma non esclusivamente ai testi che è oggi possibile leggere, riuniti in un'unica sede e con il titolo "Pagine sparse 1947-1987",  nel secondo volume delle Opere complete di Primo Levi (a cura di Marco Belpoliti, con indici e Bibliografia a cura del Centro Studi).

Ripercorrendo alcuni di questi interventi di Levi e collegandoli a Se questo è un uomo, Lilìt e altri racconti, I sommersi e i salvati, emerge quella che chiamerei "la deontologia del testimone Primo Levi": un insieme di norme non scritte che regolano l'approccio a una materia difficile e insieme imprescindibile.

La sua deontologia è questione di strategie comunicative - abbiamo visto che Levi sapeva interagire con tatto e intelligenza con i suoi interlocutori - e prescrive un dosaggio esatto delle parole a seconda degli effetti che si vogliono ottenere;  ma investe anche la scelta dei contenuti, dei temi che il testimone deve affrontare per provare a dire Auschwitz. E il testimone, come si legge in un testo del 1955 intitolato "Anniversario", sentiva e sente la parola, «come un bisogno e un immediato dovere». Troviamo in questa definizione della testimonianza come dovere la stessa radice lessicale della parola da cui siamo partiti, "deontologia", dal greco deon- deontos, che significa appunto "il dovere". Possiamo quindi  definire meglio la deontologia del testimone come il discorso sui doveri che Levi in piena autonomia si è dato e ai quali ha cercato di mantenersi fedele.   

Non sempre mi sarà possibile seguire una linea diacronica.

Il mio discorso  parte  da un testo poco noto, intitolato "Decodificazione", apparso su rivista nel 1976 e poi incluso in Lilìt e altri racconti. Mi sembra che ogni docente dovrebbe conoscerlo perché tocca questioni che interessano chiunque si occupi di educazione. Nel testo un personaggio che parla alla prima persona e che è chiaramente un alter-ego di Levi, anche perché esperto di vernici, racconta di aver trovato alcune scritte naziste lungo una strada di collina, nei pressi del paese in cui trascorre le vacanze estive. Dopo una breve indagine privata, scopre che le scritte sono state fatte da un giovane che non corrisponde affatto all'immagine del neonazista aggressivo così come l'aveva immaginato:

uno studente sui 15 anni, muscoloso e tarchiato, di buona famiglia, emotivamente instabile, introverso, tendente alla sopraffazione e alla violenza

Il colpevole è infatti Piero, al quale l'anno prima il soggetto narrante aveva dato delle ripetizioni di algebra e geometria. Piero

è  magro, timido, miope, e non mi risulta che si occupi di politica: [...] è piuttosto un lamentoso, uno di quelli che tendono a vedere il mondo come una vasta rete di cospirazioni al loro danno, e se stessi al centro del mondo, esposti a tutti i soprusi.

Quando incontra Piero per caso l’adulto prova una groviglio di sensazioni che chi insegna conosce bene e che Levi cerca di dirimere:

una vaga sofferenza, costituita da uno strato superficiale di dispetto, e da uno più profondo che mi sembrava rimorso, un rimorso impreciso, senza indirizzo, da analizzare poi.

È  convinto infatti che avrebbe potuto esercitare un'influenza positiva  sull'allievo attraverso le sue ripetizioni private, e pensa di aver sprecato un'occasione. Avverte  il peso di un insuccesso formativo conclamato, avverte la responsabilità di quel fallimento. L'autore dimostra di conoscere bene le dinamiche della relazione educativa. Provando poi a spiegare in che cosa e in che modo le ripetizioni, ovvero la trasmissione di un sapere,  avrebbero potuto essere utili, ci fornisce quella che a me sembra una definizione molto lucida della sfida che gli insegnanti e gli operatori culturali in genere dovrebbero porsi quando affrontano la didattica della Shoah attraverso lo studio dei testi di Levi:

Può essere la prima rivelazione, in una carriera scolastica, della severa potenza della ragione, del coraggio intellettuale che respinge i miti, e della salutare emozione di ravvisare nella propria mente uno specchio dell’universo. Può essere un antidoto contro la retorica, l’approssimazione, l’accidia; può essere, per il giovane, una verifica […] della sua muscolatura mentale, o l’occasione per svilupparla.

L'opera di Primo Levi fornisce a chi si occupi di Shoah delle coordinate precise che ci permettono di orientarci ancora oggi, in un mondo scolastico enormemente cambiato rispetto a quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, che probabilmente Levi aveva imparato a conoscere nei suoi incontri con gli studenti. Esiste infatti un nucleo "forte" di motivi legati all'esperienza della deportazione che non muta, semmai si arricchisce gradualmente, a partire dai primi testi degli anni Cinquanta fino a I sommersi e i salvati. Proprio questo nucleo stabile ci permette di riconoscere i contenuti fondamentali che bisogna padroneggiare in quanto formatori e ci suggerisce come parlare ai giovani della Shoah.   

Oggi proveremo così a tracciare un "vademecum" aperto e sempre passibile di aggiornamento per i nostri tempi e per i nostri allievi. Vorrei tornare alla citazione e provare a scomporla nelle sue componenti per individuare quali sono, secondo Levi, gli obiettivi di una relazione formativa che arricchisca e migliori tanto il docente quanto il discente.

Partiamo dalla seconda frase della citazione, dalla pars destruens: i discorsi del docente devono rappresentare un antidoto contro la retorica, dice Levi. Questo tema gli sta molto a cuore. Ci torna più volte, ma in un'occasione si spinge fino a fornire una definizione di quello che dovrebbe essere secondo lui lo studio della Storia a scuola. La citazione che sto per leggervi si trova in un articolo intitolato  “Il tempo delle svastiche”  uscito nel gennaio del 1960 su «Il giornale dei genitori. Mensile per l’educazione dei figli» . La sede in cui l'articolo esce si presta ai discorsi didattici:  si tratta infatti della rivista fondata nel 1959 da Ada Gobetti e da lei diretta fino al 1968, pensata come uno strumento di educazione dei genitori e come uno spazio pubblico di discussione sui temi pedagogici in cui sono presi in considerazione vari aspetti della vita culturale, civile, politica. Vi scrivono insegnanti, medici, psichiatri. Levi prende le mosse da un bilancio della mostra sulla Deportazione (di cui si è già parlato) e si focalizza poi sul modo migliore di trasmettere ai figli «un patrimonio morale e sentimentale» che si ritiene importante. Nel caso specifico parla della memoria della Resistenza, ma i punti che individua  valgono in generale per l’insegnamento della storia e in particolare per la didattica della Shoah di cui ci occupiamo oggi:

A questo processo d’imbalsamazione, temo, abbiamo contribuito anche noi. Per descrivere e trasmettere i fatti di ieri, abbiamo troppo spesso adottato un linguaggio retorico, agiografico, e quindi vago. Credo che se desideriamo che i nostri figli sentano queste cose, e pertanto si sentano nostri figli, dovremo parlare loro un po’ meno di gloria e di vittoria, di eroismo,  e un po’ di più di quella vita dura, rischiosa e ingrata, del logorio quotidiano, dei giorni di speranza e di disperazione […]. Solo così i giovani potranno sentire la nostra storia più recente come un tessuto di eventi umani, e non come un «pensum» da addizionare ai molti altri dei programmi ministeriali.

La retorica vuota,  gli approcci generici e superficiali sono inutili, se non controproducenti, e possono generare negli studenti un’assuefazione seguita da un rifiuto. Il rischio di “imbalsamare la Shoah”, di trasformare lo studio di questo argomento in uno dei tanti “pensum” previsti dai programmi ministeriali esiste già ed è possibile che molto spesso si sia andati  inconsapevolmente in questa direzione. Secondo Levi un possibile riparo consiste nel dimostrare ai più giovani che la storia è  “un tessuto di eventi umani”  e come tale deve essere studiata. Sotto questo aspetto la sua opera letteraria mette a nostra disposizione un campionario sterminato di “microstorie” attraverso cui ricostruire la Storia, quella con la “S” maiuscola. Si pensi ai molteplici ritratti dei compagni di deportazione o più in generale di persone che hanno conosciuto quell’esperienza, disseminati in tutta la sua opera, non soltanto in Se questo è un uomo, ma anche ne La tregua, in Lilìt e altri racconti (1981), ne Il sistema periodico (1975), ne I sommersi e i salvati: le storie dei Gattegno, di Steinlauf, di Alberto Dalla Volta, di Cesare, del Greco, dello zingaro Grigo, di Lorenzo, soltanto per fare qualche esempio, permettono di restituire ai ragazzi di oggi un’immagine viva e concreta del passato e delle dinamiche della storia del Novecento. Non solo, ma nell’intenzione dell’autore salvare dall’oblio queste storie, restituire alle vittime un volto e un’identità significa anche sabotare a posteriori il progetto di annullamento degli individui perseguito dal nazismo: questa valenza civile e perché no, militante, dello studio di un autore come Levi dovrebbe essere fatta notare ai ragazzi, dovrebbe essere per loro una motivazione ulteriore. Fin dalla “Prefazione” a Se questo è un uomo 1947 egli nel raccontare la Shoah si  è posto come obiettivo «lo studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano» e ha analizzato i risvolti etici del comportamento del singolo, dentro e fuori dal Lager: si dovrebbe provare a spiegare che la dimensione etico-morale è il sostrato ineludibile di ogni azione individuale e collettiva, e che quindi studiare la storia di ieri serve a munirsi di strumenti di analisi che ci permettono di leggere il presente e anche i nostri stessi comportamenti. In ciò  Levi ci soccorre  perché rappresenta le sofferenze e le strategie di sopravvivenza messe in atto non dagli eroi, ma da un campione medio di umanità. Si ricordi ad esempio quanto afferma a proposito di Se questo è un uomo:

per mia tendenza e per elezione, ho cercato di mantenere l’attenzione sui molti, sulla norma, sull’uomo qualsiasi, non infame e non santo».

cfr. Se questo è un mondo, in «L’Italia che scrive. Rassegna per il mondo che legge», XXX, n. 10, ottobre 1947.

Se si guarda alla sua opera ci si accorge che la sua narrazione del Lager non è mai  intonata a un unico registro ma è varia e sfaccettata perché varie e sfaccettate sono le componenti dell’essere umano: si pensi a un capitolo come “Il canto di Ulisse”, in Se questo è un uomo, oppure al racconto Cerio, in cui è narrata un’avventura che in Lager ha coinvolto Primo e il suo amico Alberto, oppure a un racconto come “Il cantore e il veterano” in Lilìt, in cui troviamo il ritratto di Ezra, un ebreo pio dell’Europa dell’Est, un tipo umano non molto frequente nell’ambiente laico dell’ebraismo torinese in cui lo scrittore era cresciuto. Sfumature e toni ancora diversi si ritrovano nelle poesie di tema concentrazionario. Sarebbe corretto dare agli studenti almeno un assaggio di questa varietà per farli entrare in contatto con la complessità del panorama umano e delle questioni di cui tener conto quando parliamo di Lager e di testimonianza.

Continuiamo con la pars destruens e vediamo quali sono gli altri due nemici da combattere in ambito formativo: un antidoto contro l’approssimazione e l’accidia .

L’approssimazione. Ritorniamo a quanto afferma Levi nell’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo, in cui raccoglie le risposte alle domande che gli venivano poste più frequentemente dai ragazzi. Levi dice che nei suoi libri di testimonianza si è  «rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta», escludendo quelli  appresi più tardi da libri o giornali. Ad esempio, non descrive i dettagli delle camere a gas e dei crematori perché non ci è stato di persona e perché quando era in Lager  ne aveva appreso soltanto notizie vaghe e indirette. Come può regolarsi il docente di oggi, che non è un testimone e che non era neanche nato all’epoca dei fatti? In modo molto semplice, come ci auguriamo che faccia per qualunque argomento di studio: deve documentarsi e  studiare i libri di storia; ha inoltre la possibilità di consultare gli archivi che conservano i documenti relativi alla deportazione, e rispetto ai docenti di ieri è avvantaggiato dalle tecnologie: può  consultare infatti gli archivi on line che mettono a disposizione documentazione di vario tipo, e in particolare gli archivi audiovisivi che raccolgono migliaia di testimonianze di superstiti di tutti i paesi europei;  può, ancora, affinare una conoscenza specifica delle opere di Primo Levi. Io consiglio di evitare di parlare in modo generico; semmai si possono proporre ai ragazzi dei “casi di studio” su cui ci si è particolarmente documentati.

Oltre che l’approssimazione, l’altro “nemico” che la deontologia del testimone Primo Levi consiglia di affrontare (e possibilmente sconfiggere) è l’accidia. Io qui declinerei questo concetto in due direzioni: ci troviamo infatti a fronteggiare la nostra “pigrizia” e anche la difficoltà di costruirsi una competenza specifica in un contesto scolastico come quello odierno; ma ci troviamo a fronteggiare anche la pigrizia mentale degli studenti, i loro preconcetti, la riluttanza a dedicarsi con serietà allo studio di questo tema perché magari, anche per effetto di pratiche didattiche scorrette sperimentate negli anni scolastici precedenti, sono convinti di sapere già tutto quanto c’ è da sapere in proposito. 

A me capita quasi sempre, quando partecipo agli incontri con gli studenti, che qualche ragazzo mi chieda perché a scuola si parli sempre e solo della Shoah e non anche degli altri genocidi che pure sono avvenuti nel mondo. Oppure perché si parli soltanto dei crimini del nazismo e non anche di quelli dello stalinismo. Anche a Primo Levi questo capitava, ce lo ha raccontato in diverse occasioni. Ad esempio, già in “Testimonianza per Eichmann” (1961) dice che a volte, quando prende la  parola, qualcuno gli chiede:

Perché parlare ancora di atrocità? Non sono cose passate? Perché turbare le coscienze dei nostri figli?

Levi non dà segni di insofferenza di fronte a tali obiezioni e individua quale è “il nocciolo della questione” da sottoporre ai suoi interlocutori, cioè che nei campi

si sono intravisti i sintomi di una malattia troppo grave, perché sia lecito tacerne […] Nel cuore di questa civile Europa, è stato sognato un sogno demenziale, quello di edificare un impero millenario su milioni di cadaveri e di schiavi. Il verbo è stato bandito per le piazze: pochissimi hanno rifiutato, e sono stati stroncati; tutti gli altri hanno acconsentito, parte con ribrezzo, parte con indifferenza, parte con entusiasmo. Non è stato solo un sogno: l’impero, un effimero impero, è stato edificato: i cadaveri, gli schiavi ci sono stati.

Lo sterminio, sulla scala dei milioni, è stato perpetrato “curvando” la scienza e la tecnologia a fini ignobili, si sono messi su impianti di tipo industriale che producevano morte. Allo stesso modo, quando i ragazzi gli chiedono conto dei Gulag, argomenta che il sistema dei Gulag, pure esecrabile, si poneva scopi diversi da quello nazista perché l’obiettivo principale dei campi sovietici era il lavoro forzato per l’edificazione di un’economia socialista. Levi non fa sconti e  definisce i campi sovietici “un inferno” in cui avveniva però “un massacro fra uguali”; i campi tedeschi per Levi rimangono un unicum nella storia dell’umanità perché basati su un’ideologia impregnata di razzismo che prevedeva la morte per le razze giudicate inferiori. Soltanto nei campi nazisti poi si giunse allo sfruttamento dei cadaveri (i capelli delle donne erano usatI dalle industrie tedesche, l’oro prelevato dai denti finiva nelle banche tedesche) e all’uccisione di bambini e moribondi.  

Torniamo alla definizione da cui siamo partiti e rivolgiamoci stavolta alla pars costruens, cioè ai risultati positivi che si possono conseguire affrontando correttamente il compito educativo che ci siamo prefissi, quello di impostare un discorso efficace sulla Shoah. Soffermiamoci sulla frase iniziale del periodo selezionato, che mi ha colpito molto quando ho letto per la prima volta  “Decodificazione”:

Può essere la prima rivelazione, in una carriera scolastica, della severa potenza della ragione, del coraggio intellettuale che respinge i miti.

Certamente l’opera di Levi ci offre esempi notevoli della potenza della ragione e del coraggio intellettuale che respinge i miti. In particolare l’opera I sommersi e i salvati, che possiamo considerare l’approdo ultimo della riflessione leviana sul Lager, se affrontata in classe negli ultimi anni delle scuole superiori, diventa occasione di un lavoro di dissoluzione di quegli stereotipi sul Lager di cui i giovani possono diventare facili vittime. Primo Levi si era reso conto già all’inizio degli anni Ottanta, ad esempio quando è intervistato da Anna Bravo e Federico Cereja nel 1983, che esisteva uno scollamento, una distanza pericolosa fra la realtà del Lager da una parte, e la percezione, l’immagine di quella stessa realtà che i giovani, i quali erano ormai “i figli dei figli”, si erano formati, forse in conseguenza di un processo inevitabile legato al passare del tempo, oppure a causa di uno studio lacunoso e dell’affermarsi di alcuni messaggi diffusi dal cinema e dalla cultura di massa. Levi fa l’esempio di un ragazzino di una scuola elementare che non si è limitato a chiedergli perché non è scappato dal Lager, ma che ha anche disegnato una mappa del Lager indicandogli quali fossero le vie di fuga da tentare, ovviamente dopo aver ucciso le sentinelle naziste. È forse questo il risultato della visione di film d’azione in cui è mostrato il prigioniero vittorioso che spezza le sue catene e riconquista la libertà. Come si può contrastare un fenomeno di questo tipo oggi, nell’epoca di internet e dei social, quando il tema del Lager è oggetto di una sorta di “sovraesposizione mediatica”? Levi nel capitolo Stereotipi cerca di porre un argine a questa deriva spiegando con dovizia di particolari che il prigioniero del Lager era estremamente indebolito, demoralizzato, era vestito di stracci e senza capelli: se anche fosse riuscito a scappare, dove sarebbe potuto andare? Ci avverte però che il fenomeno descritto fa parte di una più generale difficoltà umana a percepire le esperienze altrui:

tendiamo ad assimilarle a quelle viciniori, come se la fame di Auschwitz fosse quella di chi ha saltato un pasto, o come se la fuga da Treblinka fosse assimilabile alla fuga da Regina Coeli.

Ci ricorda poi che è compito dello storico cercare di “colmare” questa spaccatura che esiste e che diventa tanto più ampia quanto più tempo è trascorso dagli eventi narrati. Gli insegnanti trovano nelle pagine di Levi molti spunti per mettere in guardia gli studenti dagli stereotipi e dalle semplificazioni indebite. Per quanto riguarda i primi si trovano dei validi esempi nel capitolo omonimo de I sommersi; per quanto riguarda le semplificazioni, Levi in molti luoghi testuali ci dice  chiaramente che per descrivere la vita quotidiana del Lager il nostro linguaggio della vita quotidiana risulta insufficiente.  Primo Levi con i suoi lettori di Se questo è un uomo  mette in chiaro l’esistenza di un problema di dismisura delle cose viste e vissute rispetto alle parole:

Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create ed usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è  faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.

Una pagina come questa può essere accostata a un passo da “Cerio”  ne Il sistema periodico in cui Levi afferma che la fame provata ad Auschwitz era

un bisogno, una mancanza, uno yearning, che ci accompagnava ormai da un anno, aveva messo in noi radici profonde e permanenti, abitava in tutte le nostre cellule e condizionava il nostro comportamento. Mangiare, procurarci da mangiare, era lo stimolo numero uno, dietro a cui, a molta distanza, seguivano tutti gli altri problemi di sopravvivenza, ed ancora più lontani i ricordi della casa e la stessa paura della morte.

Credo che questo problema del linguaggio debba essere affrontato a scuola, così come l’altro, pure discusso da Levi ne il capitolo Comunicare de I sommersi e i salvati, della babele linguistica del Lager, che rendeva difficile comunicare e anche comprendere gli ordini impartiti. Mi sembra che un approfondimento di questi aspetti, una conoscenza dettagliata delle condizioni di vita dei deportati, siano molto più produttivi, dal punto di vista didattico, che l’insistenza su particolari crudi  o la visione di filmati con immagini raccapriccianti dei campi, di fronte alle quali la reazione può essere di comprensibile chiusura.

 Levi si dà il compito di contestare criticamente non soltanto gli stereotipi che riguardano i prigionieri,  ma anche  quelli sui loro carcerieri. I nazisti, dice Levi, non erano

le belve romantiche care ai rotocalchi, ma dei freddi dementi morali

“La perversione razionale nei campi di sterminio”, 1952

Le virtù “belliche e cavalleresche” dei tedeschi sono soltanto una menzogna: i grandi colpevoli erano degli uomini mediocri, abituati a obbedire. A tracciare il ritratto autentico di persone mediocre e vili contribuisce la constatazione di non avere incontrato quasi mai fra i propri carcerieri dei “mostri”, ma soltanto degli “uomini medi”. A questo proposito è illuminante un’affermazione che si trova alla fine de I sommersi e i salvati:

Erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler.

Ci troviamo qui al cuore del concetto circoscritto da Hannah Arendt in occasione del processo Eichmann e definito “la banalità del male”: un concetto che apre prospettive inquietanti sulla natura dell’essere umano, ma che permette di spiegare ai più giovani l’apparente paradosso di crimini enormi e senza precedenti compiuti da uomini ordinari e persino banali. È proprio la constatazione di questa desolante banalità che può metterci al riparo dai rischi di un’idealizzazione dei nazisti, in un senso o nell’altro.

Lo stesso coraggio intellettuale che porta Levi a sfatare gli stereotipi lo induce a rivolgere la sua attenzione a un tema scottante ed estremamente delicato: quello del collaborazionismo in condizioni di costrizione estrema (Ghetto, Lager), preso in esame nel capitolo Zona grigia de I sommersi e i salvati. Si tratta di un argomento complesso, che però per lo scrittore è necessario esplorare se si vuole riconoscere la verità storica, e cioè che

è ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema infero, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario, esso le degrada, le assimila a sé, e ciò tanto più quanto più esse sono disponibili, bianche, prive di un’ossatura politica o morale.

L’edizione scolastica de I sommersi e i salvati, di cui abbiamo già parlato, vorrebbe essere uno strumento capace di accostare studenti e insegnanti a questi temi che non possono essere taciuti all’interno di una didattica della Shoah aggiornata e al passo con gli ultimi studi sull’argomento. Credo che peraltro questa sia l’unica via possibile per presentare con onestà intellettuale una questione sterminata, con risvolti storiografici, filosofici, antropologici, giuridici, sociologici, e  per sua natura passibile di essere ridotta entro uno schema semplificato soltanto al prezzo di distorcere la realtà dei fatti e di perdere una preziosa opportunità educativa.

L’ultimo punto di cui parlerò si ricollega infine a un’immagine suggestiva presente nella citazione da cui siamo partiti: la didattica come occasione per verificare la muscolatura mentale dei propri allievi, o come occasione per contribuire a svilupparla.

Abbiamo toccato molti punti, ma è rimasta fuori fino a ora la domanda delle domande: perché il nazismo ha preso piede, perché l’odio antisemita?

Sono temi estremamente complessi, ma non per questo si deve evitare di dare una risposta: non esistono contenuti preclusi all’intelligenza dei giovani, basta porgerli loro con le dovute cautele, calibrando il linguaggio e costruendo un edificio di conoscenze partendo da concetti più semplici e intuitivi. Mi sembra esemplare da questo punto di vista uno scritto intitolato L’intolleranza razziale, del 1979 - nato come intervento pubblico in occasione di un ciclo di incontri organizzato dal comune di Torino - in cui Levi precisa preliminarmente che le sue parole sono un tentativo di spiegazione e non pretendono certo di avere valore incontrovertibile, perché la spiegazione non è una, ma sono molte. Levi ragiona qui insieme da scienziato e da storico, e dice che le radici dell’intolleranza razziale vanno ricercate nella nostra natura di animali gregari. Si rifà a Konrad Lorenz, fondatore dell’etologia, e al suo libro intitolato Il cosiddetto male, nel momento in cui afferma:

l’intolleranza razziale ha origini lontanissime, non solo preistoriche, ma addirittura preumane, addirittura è incorporata in certi istinti primordiali che sono dei mammiferi e non solo dei mammiferi. Con questo non voglio dire, anzi mi guardo bene dal dirlo, che sia un male non sradicabile; se siamo uomini è perché abbiamo imparato a metterci al riparo, a contravvenire, a ostacolare certi istinti che sono la nostra eredità animale.

Una volta chiarito questo punto, a proposito del nazismo cerca di ricostruire un contesto storico, richiamando la situazione della Germania dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, il nazionalismo tedesco, le peculiarità della personalità di Hitler. Mi sembra che in questo  testo, così come ne I sommersi e i salvati e nelle risposte dell’Appendice, si trovi un esempio mirabile di metodo, la capacità di osservare uno stesso problema da punti di vista diversi, la capacità di usare strumenti di lettura diversi e al tempo stesso non pretendere di aver detto la parola ultima su quel problema. Ecco, mi sembra che il compito educativo che ci è richiesto quando trattiamo la didattica della Shoah sia proprio questo: insegnare a non arretrare di fronte alle verità più scomode, imparare a cogliere e a penetrare la complessità, e a immaginarla attraverso lo studio. Non è semplice, ma di fronte ai dubbi e allo scoraggiamento che Levi nella sua veste di educatore, come abbiamo visto, conosceva bene, dovremmo essere sorretti da una affermazione contenuta in un testo intitolato Chi vuole l’odio antisemita (1979), scritto all’indomani di alcuni episodi di antisemitismo e alla ribalta conquistata da posizioni negazioniste come quelle di Robert Faurisson e di Louis Darquier de Pellepoix, con la quale vorrei salutarvi:

il pessimismo delle opinioni può e deve convivere con l’ottimismo dei fatti, cioè dell’operare quotidiano.


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