Per un 27 gennaio di libera discussione

La testimonianza di Primo Levi ci colpisce perché fa riflettere sul dolore concreto di cui il mondo è sovraccarico, e che commuove tanto più oggi chiunque alzi lo sguardo sulle crisi che ci coinvolgono sempre più da vicino. E il dolore, la sofferenza non hanno colore, non hanno confini.

Sappiamo d’altra parte che l’opera di Levi è intimamente refrattaria alle semplificazioni; anche a quelle - per restare legati all’attualità - relative allo Stato di Israele, del quale lo scrittore ha molte volte indicato l’importanza storica, e verso cui ha sempre espresso la sua profonda affezione, senza far mancare all’occorrenza critiche anche molto severe. Dico questo per sottolineare l’irriducibilità dei suoi scritti ai tentativi – che pure ci sono stati – di strumentalizzarli nell’infuocato dibattito successivo all’attacco del 7 ottobre. La sua vocazione abituale – connaturata al lavoro di chimico – a “separare, pesare e distinguere” lo ha aiutato ogni volta ad adeguare il suo pensiero caso per caso senza farsi intrappolare da schemi precostituiti; tanto da poter aiutare anche noi a misurare con cura giudizi e atteggiamenti.

Ecco allora una prima considerazione. È sotto i nostri occhi che la Shoah si stia progressivamente allontanando nel tempo e che – malgrado i necessari e ripetuti sforzi di tenerne viva la memoria – il suo ricordo stia progressivamente sbiadendo nella mente di molti; a maggior ragione fra i più giovani. Ed è altrettanto evidente quanto sia invece la cruda realtà della storia di oggi, delle aggressioni micidiali di uno Stato contro l’altro, delle violenze “inutili” e oltre ogni misura nei contesti più vari, a richiamare alla mente le pagine più nere del ’900; come se la tregua inaugurata con la liberazione di Auschwitz stesse oramai arrivando agli sgoccioli e il sogno angoscioso dell’improvviso risveglio nel Lager che chiude il libro di Levi intitolato appunto La tregua si stesse avverando. Ma è proprio la crescente distanza da Auschwitz e la sempre minore consapevolezza di tanti riguardo alle implicazioni profonde di quell’esperienza a togliere spessore alla conoscenza della storia e ad alimentare disinvolti e pericolosi cortocircuiti fra il presente e il passato. Questo è tanto più vero per chi come noi ha la ventura di poter guardare ai nuovi conflitti di oggi, e poter dire la sua, dal di fuori: a distanza di sicurezza si finisce spesso più per accapigliarsi sulle parole che non misurarsi sui fatti, cogliendone appieno i tratti drammaticamente contraddittori.

La realtà concreta non è mai lineare e spesso convivono e si intersecano prospettive differenti che è più facile e consolatorio abbracciare in modo unilaterale. Vediamo in proposito alcuni dei problemi più attuali.

È un fatto difficilmente contestabile che la risposta militare di Israele all’attacco mortale del 7 ottobre sia una guerra di sopravvivenza contro una pluralità di soggetti statuali e non, che vogliono esplicitamente cancellare quel paese dalla carta geografica. Come si può ben capire, la portata del conflitto, che ha al centro la posta cruciale della questione palestinese, rimanda sia a un contesto più largamente planetario, sia a una storia di molti secoli. Avere chiaro questo non esime però dal considerare l’intreccio, nella politica israeliana, fra le forti spinte – pur molto contrastate – a mettere in questione l’ordine democratico all’interno, e quelle che cercano di imporre con una forza sovrabbondante e crudele il Grande Israele non solo contro Hamas ma contro i palestinesi. Riconoscere la compresenza di questi fattori è un dovere per tutti; costituisce un dato di realtà di fronte al quale misurare il proprio attaccamento alla democrazia, la propria avversione alla violenza e la propria disponibilità a difendere i diritti di tutti.

E ancora: una delle ragioni che attribuiscono al conflitto in corso una valenza tanto più ampia è l’impulso che esso ha dato alla crescita dell’antisemitismo, si può dire in tutto il mondo. Sappiamo che l’odio antiebraico è una malattia dalle radici millenarie; prospera e si sviluppa fra i non ebrei per ragioni che, per lo più, ben poco hanno a che fare col comportamento degli ebrei; è altresì pronta ad attivarsi – per le ragioni di crisi più varie negli equilibri politici e sociali – in forme sempre diverse e rinnovate; ed è oramai riconosciuto da vari decenni che l’antisionismo per lo più di sinistra è una di quelle forme. Sappiamo inoltre che una tale malattia ha un’altissima capacità di infiammare. Il terreno è stato lungamente preparato nei secoli, e basta una scintilla a trasformare il singolo ebreo in un’espressione priva di vera individualità e a identificarlo con l’ebreo collettivo immaginato dai suoi nemici. A volte non è così facile distinguere – ma una tale distinzione va fatta – fra chi contribuisce ad attizzare il fuoco senza volerlo e chi finge di non accorgersene. In ogni caso succede con troppa facilità che alla fine l’odio per gli ebrei sembri la cosa più naturale del mondo.

Tenuto conto di quanto ci suggerisce con forza la realtà che ci circonda, la Shoah resta comunque un luogo cruciale dove attingere non certo risposte à la carte alle domande del momento, ma conoscenze e consapevolezza sulla complessa natura degli esseri umani, messi a nudo dalla condizione estrema della persecuzione, della deportazione e dello sterminio. A condizione però che ci si avvicini a quel mondo infero con l’impegno di chi vuol capire sul serio e la modestia di chi è conscio della propria infinita piccolezza. Questo a maggior ragione nel momento che stiamo vivendo, nel quale l’urgenza dell’attualità rischia di tradursi in pressappochismo, smania di semplificazione e esibizione di certezze.

 

L’11 giugno 1983, nella lettera di risposta alla domanda, fra le altre, rivoltagli dai ragazzi di una terza media vicino a Perugia, su «quali consigli darebbe ai giovani sulla base della sua ricca esperienza» Primo Levi scrisse loro:

Oltre ai consigli generici che tutti vi possono dare (studiare per prepararsi alla vita, ma senza perdere il gusto per il divertimento e per il gioco; amare il prossimo ed aiutarlo, ma senza lasciarsi abbattere dalle sventure altrui; coltivare l’arte della discussione obiettiva; lottare contro i preconcetti e i pregiudizi propri ed altrui), aggiungerei il consiglio specifico di rispettare tutte le opinioni, ad esclusione di quelle che comportano il disprezzo delle opinioni altrui. Questo viene a dire che la democrazia è una buona cosa: un bene fragile ed essenziale.

Un modo, quello di Levi, per sottolineare che la discussione, bene essenziale, deve avvenire fra pari. Nessuno degli interlocutori deve trovarsi sotto ricatto di una minaccia o, peggio, di una violenza reale o possibile. Sapendo che a rompere l’equilibrio basta poco: ad esempio la certezza che l’altro di fronte a te non sia in alcun modo interessato ad ascoltarti, o non ti prenda sul serio, o abbia quale unico obiettivo quello di ritorcerti contro le tue parole.

Questo vale a maggior ragione in previsione del prossimo 27 gennaio, una data nella quale la relazione fra presente e passato potrebbe surriscaldarsi più che negli anni scorsi. L’anniversario della liberazione di Auschwitz deve poter diventare un’occasione preziosa di confronto reciproco – e come tale va interpretato e difeso –, tanto più in un momento in cui le passioni buone e soprattutto cattive rischiano di portarsi via, primo fra tutti, il diritto di misurarsi lealmente con gli altri. Quanto agli argomenti da discutere, come si è visto, non mancano di certo.

Fabio Levi


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