In presa diretta con la storia

Pubblichiamo il testo dell'intervento tenuto da Fabio Levi, presidente del Centro, alla conferenza Primo Levi scrittore di lettere. Il progetto LeviNeT, che ha avuto luogo a Ferrara il 26 settembre 2024.

L’inaugurazione del portale LeviNet è l’occasione giusta per sottolineare non solo l’originalità e l’importanza del progetto che è stato appena illustrato, ma la sensibilità e la lungimiranza di coloro i quali in Europa hanno scelto di sostenerlo. Questo per almeno due ragioni. In primo luogo una tale decisione mostra quanto ampio sia il riconoscimento attribuito oggi all’opera di Primo Levi nel contesto internazionale. E mi riferisco qui prima di tutto alla sua testimonianza su Auschwitz, universalmente riconosciuta come punto di riferimento insostituibile nella pur vasta e molto ricca letteratura sul tema. Già era così quando il progetto è stato approvato, ma lo è tanto più ora, in presenza delle crescenti difficoltà ad affrontare l’esperienza dello sterminio nazista nella nuova situazione venutasi a creare dopo il pogrom del 7 ottobre e quel che ne è seguito. Proprio in ragione di quelle difficoltà l’urgenza di ricordare la Shoah e di riflettere su quell’esperienza è divenuta infatti tanto più pressante, così come l’approccio universalistico e carico di contenuti etici proposto da Levi può rivelarsi tanto più utile.

C’è poi da considerare un secondo risvolto di quella decisione. La pubblicazione delle corrispondenze fra Levi e i suoi molti interlocutori di area tedesca nel dopoguerra favorisce una dislocazione dello scrittore torinese nel contesto culturale del suo e del nostro tempo, imponendo un salto ulteriore nel lungo e complesso percorso della sua ricezione. Oggi la pubblicazione di quell’intenso e ricco carteggio contribuirà a far uscire l’autore di Se questo è un uomo dalla condizione un poco paradossale in cui si è trovato per tanto tempo: quella di un testimone ascoltato in tutto il mondo, ma proveniente da un paese come l’Italia, considerato a torto, ma per molto tempo e in tante parti del mondo, assai meno coinvolto di altri nelle persecuzioni di razza. Viceversa la nuova documentazione ora disponibile certifica una sua partecipazione da protagonista a un dibattito e a un impegno internazionali capaci di misurarsi momento  per momento con la lunga ombra proiettata dal genocidio hitleriano sulla società europea dei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. Ecco allora che Primo Levi, da autore italiano via via sempre più ascoltato oltre i confini del proprio paese, diventa a pieno titolo autore europeo in grado di offrire in presa diretta il proprio contributo originale alla riflessione sul passato del fascismo e dell’antisemitismo e sulle loro risorgenze nel presente, in un orizzonte culturale ben più ampio. Con la ulteriore conseguenza che, a questo punto, è l’insieme della sua opera - come sappiamo ricca di innumerevoli sfaccettature di cui pure la testimonianza su Auschwitz è parte essenziale - a dover essere considerata in una prospettiva diversa e più larga.

L’incontro di oggi servirà proprio a un primo tentativo di riorientare lo sguardo su Levi in una chiave europea. Quanto al mio intervento, esso si limiterà  a indicare alcune tappe del percorso che ha portato sin qui per poterne apprezzare meglio l’esito, ragionando in particolare sul contributo che in questo senso ha cercato di dare il Centro Primo Levi di Torino insieme a molti altri soggetti.

 

Il riconoscimento e l’affermazione di un classico contemporaneo avvengono per vie tutt’altro che lineari e del tutto imprevedibili. Tanto più in un mondo globalizzato come il nostro, dove la diffusione delle opere dei grandi scrittori procede secondo direttrici che spesso, ma non sempre, riescono a superare le barriere imposte ad esempio dalle distanze culturali o dalla politica. Si pensi qui alle tante traduzioni di Levi pubblicate di recente da case editrici cinesi o dell’estremo oriente; ma senza dimenticare che, in un passato più lontano, libri come Se questo è un uomo o La tregua sono stati bloccati, per lungo tempo e non a molti chilometri da noi, in tutta l’Europa comunista fino alla caduta del muro. Senza contare la varietà delle reazioni fra i suoi vari pubblici alla qualità letteraria dell’opera o alle caratteristiche personali dello scrittore. Qui penso, oltre che alla geografia, al passaggio da una generazione all’altra e, ad esempio, al favore che Levi ha ottenuto e continua a ottenere fra i più giovani.

Quando il Centro è nato, quindici anni fa, di una cosa eravamo certi: che un autore come Primo Levi non avesse bisogno di essere promosso, perché la sua diffusione andava procedendo - pur fra ostacoli e limiti indubbi, ma con una progressione evidente - secondo percorsi propri su cui difficilmente,  date le nostre  forze limitate, avremmo potuto influire direttamente. Sapevamo anche però che quella diffusione avrebbe potuto essere favorita, a partire dall’Italia e in un orizzonte sempre più vasto, da un lavoro di approfondimento dell’opera, di tutta l’opera, in un rapporto di mediazione accurata con i pubblici interessati.

Sapevamo altresì che la presenza di Se questo è un uomo e de La tregua nella cultura del nostro paese aveva un ancoraggio profondo in consistenti settori della popolazione, grazie soprattutto alla scuola, dove quei libri erano entrati dal basso, per iniziativa diretta del loro autore chiamato a discutere in molte classi di tutta Italia dagli insegnanti e dagli studenti più sensibili alla storia della Resistenza, delle persecuzioni e al valore della dialettica democratica soprattutto negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Per un Centro come il nostro quel radicamento aveva un peso molto maggiore di qualsiasi presenza mediatica e faceva di Levi molto più di un simbolo. Abbiamo dunque deciso di lavorare esclusivamente su di lui e sui suoi testi e non su altro - fossero anche i mille aspetti più interessanti della Shoah - per non rischiare di ridurre il suo ruolo solo al suo nome o alla sua fama.

Si era allora, peraltro, nel momento in cui, grazie a un gruppo di intellettuali sensibili e acuti - di cui fortunatamente alcuni sono qui con noi oggi - Levi veniva oramai apprezzato dai critici e non solo, oltre che come testimone, per le sue doti di scrittore e per l’ampiezza dei suoi interessi. Di qui l’orientamento del Centro a proseguire nella medesima direzione alla ricerca delle potenzialità ancora inespresse dell’opera, fino alla progressiva affermazione di un nuovo punto di vista da cui considerarla: non quello di chi via via scopriva ricchezze ulteriori da aggiungere a ciò che già era noto - per intenderci nella logica: sì il testimone, ma anche… -, quanto quello di chi guardava a un insieme poliedrico nel quale ogni aspetto reagiva con tutti gli altri e ogni idea mostrava di essere maturata nell’incrocio fra varie linee di pensiero.

Una terza dimensione di studio e di lavoro del Centro è poi derivata dell’attenzione che lo scrittore ha  sempre prestato alla comunicazione con i suoi interlocutori: quando dialogava in prima persona con i ragazzi in classe o con pubblici diversi nei teatri; quando faceva dei suoi testi un’occasione per inventare ogni volta nuovi linguaggi destinati a sostenere il dialogo con i lettori; o ancora quando sperimentava nuove forme di incontro e di scambio praticando altri media oltre la parola pronunciata in pubblico e il testo scritto. Tutto questo ha spinto il Centro a studiare la lingua di Levi - come si sta finalmente facendo ora in modo sistematico nel quadro di un progetto interuniversitario -, e a curare ogni volta la relazione fra contenuti e forme della comunicazione nel suo lavoro quotidiano e nella realizzazione degli strumenti utili al suo compito di mediazione.

 

In questo sforzo di apertura ad altri approcci e punti di vista, il Centro ha potuto contare, al di fuori del suo ristretto ambito, su solide competenze e appassionate disponibilità in Italia e all’estero, potendo così svolgere in modo positivo una funzione di stimolo e catalizzatore. Senza tuttavia che questo comportasse un appannamento dell’attenzione per quello che è sempre stato il luogo cruciale della riflessione di Levi: l’interesse per Auschwitz declinato sempre più in profondità, da angolature spesso inedite e con gli occhi del poi. Anzi, proprio quello sforzo di apertura ha aiutato a dare maggior valore ai suoi primi scritti su quel tema e a comprendere meglio la loro capacità di durare nel tempo e di fare da ponte verso le generazioni successive.

Nelle parole di Levi le verità dello sterminio riescono ad imporsi nella loro evidenza, superando in tal modo la crescente distanza di tempo. E la loro forza non sta solo nella esattezza, accuratamente verificata dal testimone fattosi anche storico delle esperienze vissute da lui e intorno a lui. Sta anche nella capacità di suscitare  fiducia nell’interlocutrice e nell’interlocutore, e di toccare la loro anima e la loro mente. Così pure quelle verità, nella loro inevitabile incompiutezza, nel mistero che le attraversa ricco più di interrogativi che non di risposte esaustive, sa rivolgersi direttamente alla coscienza morale di coloro cui sono proposte, i quali proprio per questo si sentono coinvolti in prima persona; è certo loro ben chiara la distanza abissale - ma purtroppo sempre minore - fra la propria condizione nell’oggi e quel mondo infernale, ma sono essi uomini o donne come i protagonisti di allora e non possono dunque rimanere indifferenti alla dimensione umana, appunto, di quegli eventi e delle domande che essi suscitano. Grazie però, anche in questo caso, alla sensibilità e alla perizia letteraria di chi sta raccontando.

A innescare il corto circuito con il lettore di oggi e  - perché no? - di domani è dunque lo scrittore, che fa della letteratura il mezzo per attrarre, per informare e per far riflettere colui al quale si rivolge, non certo dunque per uscire dalla realtà o per sfuggirla. L’imperativo morale cui Levi si sente severamente vincolato gli impone di dare conto delle vicende umane delle persecuzioni e dello sterminio, nei loro tratti di normalità, nelle loro contraddizioni e anche nei loro aspetti di insondabile oscurità. E in questo, descrivere le vicissitudini degli individui ha un ruolo essenziale: esse sono casi particolari, ben radicati nella storia, ma proposti nella loro dimensione universale.

Per Levi mettere un tale impegno alla prova di Auschwitz è stato una scommessa sfibrante. Lui per primo era colto ripetutamente dall’angoscia di non essere ascoltato e da quella di non riuscire a farsi capire. Essere compreso da interlocutori differenti in momenti  e realtà differenti era un compito proibitivo che dipendeva dall’incontro fra due sensibilità assai differenti e per certi versi opposte: l’una - quella del lettore - più spontanea e aleatoria, meno consapevole e fortemente condizionata dal contesto; l’altra - quella dello scrittore - sostenuta da una volontà precisa, da un impegno intellettuale e morale incrollabile e condizionata, oltre che dal contesto, dalle caratteristiche e dalla disposizione d’animo dell’interlocutore.

Sulla sensibilità dello scrittore si innestava poi lo sforzo creativo del raccontare, del mettere su carta, rispettando rigorosamente i fatti ma permettendosi, come Levi diceva con il solito understatement, di “arrotondarli”. E lascio qui agli esperti il compito di spiegare che cosa questo significasse nel tratteggiare le situazioni, i personaggi e via dicendo. Una cosa però mi preme far rilevare in proposito, proprio nel quadro di questa presentazione. Levi certo “arrotondava” a suo modo, seguendo le preferenze, i linguaggi, i giudizi e soprattutto i talenti che erano soltanto suoi. Ma sarebbe sbagliato e ingiusto accreditare - come si potrebbe essere tentati di fare - una invadente prevalenza della sua soggettività, magari di sue presunte pulsioni inconsce, tali da condizionare ad esempio la trasformazione di persone in personaggi allo scopo di regolare dei conti con loro o con se stesso.

La ricchissima documentazione che viene presentata oggi ci porta in tutt’altra direzione. Raccontare Auschwitz ai suoi contemporanei del momento e a quelli che verranno dopo presuppone per Levi un lavoro di grande responsabilità, destinato a non concludersi mai: mettersi cioè all’ascolto del presente per cogliere quanto e come Auschwitz, anche dopo la sua fine e la liberazione dei pochi sopravvissuti, continui a pesare nella realtà del dopoguerra sul modo di essere, di sentire e di pensare di chi è venuto poi, oltre che sul proprio.

Le corrispondenze con i vari interlocutori tedeschi hanno al centro proprio questo. E’ il fatto che permettano di  misurare quanto l’Europa sia o non sia sensibile e reattiva nel mantenere la memoria dello sterminio, nel constatare la presenza tutt’altro che inoffensiva dei sopravvissuti dell’altra parte, e nel contrastare le risorgenze di fascismo e antisemitismo, a offrire volta per volta indicazioni sulle iniziative da prendere e sulle giuste parole da pronunciare. Ed è il fatto che la trama dei corrispondenti si estenda per lo più in area germanica, nel cuore del continente, ad esaltare la dimensione europea di quegli scambi e del loro protagonista, dando maggior efficacia a una discussione chiaramente finalizzata. “Arrotondare” dunque per dare piena soddisfazione allo scrittore certo, ma nel suo sforzo di andare incontro al modo di pensare e di sentire del suo pubblico.

 

Nell’immagine prevalente che si aveva di Primo Levi fino a questo momento era dunque come se mancasse una parte. Si sapeva della sua attenzione ininterrotta per le vicende politiche internazionali, per il ripetersi di tragedie di grande portata, per lo sviluppo del negazionismo, per le vicende di Israele e per molto altro. Mancava però, se non su alcuni episodi particolari, una precisa testimonianza del lungo lavorio quasi quotidiano, condotto per vari decenni del dopoguerra insieme a personalità di levatura internazionale, inteso a contendere, quasi palmo a palmo, il terreno della storia e del presente ai perpetratori, tutt’altro che scomparsi, e ai loro epigoni.

In questo la pubblicazione delle carte d’archivio ha, e avrà ancor più alla fine del lavoro di cura per il momento nelle sue fasi iniziali, una chiara funzione di disvelamento. Ma gli effetti sarebbero stati assai minori rispetto a quelli che si stanno perseguendo, se anche in questo caso l’attenzione per i contenuti non fosse stata accompagnata dall’attenzione per le forme della comunicazione. Certo, nel nostro caso è venuta in soccorso opportunamente l’Unione Europea con la sua disponibilità di mezzi, ma sono le buone idee a rendere produttive le risorse investite. Così la traduzione degli scambi epistolari in tre lingue consente di abbattere una delle maggiori barriere che hanno rallentato di molto la fortuna internazionale di Levi in passato. La disponibilità delle lettere su un sito web facile e ben costruito potrà ridurre i tempi di reazione degli studiosi e rendere la consultazione accessibile a pubblici molto più larghi. La cura nella presentazione e gli apparati proposti offriranno l’opportunità di apprezzare ancora meglio - come dicevo all’inizio - la statura europea di Primo Levi.

E’ dunque con piena soddisfazione che il Centro, partecipe sin dalla sua ideazione di questo lavoro, si felicita per la sua concreta realizzazione, ringraziando Martina Mengoni, le sue collaboratrici e i suoi collaboratori, l’Università di Ferrara e tutti coloro che a partire da oggi contribuiranno a valorizzare la documentazione proposta su LeviNet e a metterla a disposizione di tutti.


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