Presentazione di "In un'altra lingua"

In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il 15 maggio 2015 è stato presentato In un'altra lingua il volume di Ann Goldstein e Domenico Scarpa tratto dalla sesta Lezione Primo Levi e pubblicato da Einaudi in edizione bilingue italiano/inglese.

Di seguito proponiamo il testo dell'incontro.

Fabio Levi
Possiamo dare inizio al sesto appuntamento che oramai è diventato una costante delle ultime edizioni del Salone del libro, cioè la presentazione del volume tratto dalle Lezioni Primo Levi, in particolare dalla Lezione Primo Levi che è stata tenuta all’inizio di novembre dell’anno scorso. É una piccola tradizione. Devo dire che sono contento che questa piccola tradizione si sia instaurata in un mondo così frenetico e complicato. E speriamo che questa tradizione possa protrarsi ancora nel tempo. Diciamo che l’occasione di oggi è un po’ diversa dal solito, nel senso che in realtà di occasioni ce ne sono due: la prima è data, come giustamente sottolineava Ernesto Ferrero prima, dalla prossima uscita dei Complete Works di Primo Levi presso Liveright Norton a New York. Un evento che credo sia molto importante, non solo perché Primo Levi sarà, credo, l’unico autore italiano contemporaneo in assoluto tradotto in un’altra lingua – in particolare l’inglese non è una lingua qualunque, come sappiamo. Questo, diciamo, è già un fatto particolarmente rilevante. Ma c’è un altro aspetto – non è questione di primati – ma c’è un altro aspetto secondo me molto importante da sottolineare, e cioè che tradurre l’opera completa di Primo Levi aiuta ad avere un quadro di quello che ci ha lasciato diverso da quello cui normalmente si è abituati; nel senso che giustamente è stata finora sottolineata la testimonianza di Primo Levi sul lager come centrale nell’approccio alla sua opera, ma potendo considerare complessivamente tutto quello che ha scritto sarà anche possibile collocare quell’evento centrale in un contesto più ampio e cambiare punto di vista, considerare anche la testimonianza come parte di un tutto molto più ricco e molto più articolato di quanto normalmente non si pensa. É l’impostazione che per esempio abbiamo voluto dare alla mostra che si è tenuta recentemente a Torino e che ha avuto un notevolissimo successo: una mostra che voleva guardare all’opera di Primo Levi da diverse angolature. Ed è, credo, il punto di vista che d’ora in avanti dovrà essere assunto in modo costante nel momento in cui si voglia entrare in rapporto con la sua opera. Quindi c’è questa occasione importante che mi premeva sottolineare, e ce n’è un’altra, ovviamente, che è data dalla uscita della Lezione Primo Levi, che non a caso si occupa del problema della traduzione. Diceva giustamente Ernesto prima, si occupa del Primo Levi tradotto, in particolare del Primo Levi tradotto in inglese, e si occupa anche del Primo Levi traduttore. Cercheremo in questa conversazione di guardare alle due, ai due aspetti: cosa vuole dire tradurre Primo Levi, come è possibile e quali problemi pone, e dall’altra che cosa intende Primo Levi per traduzione; ne parleremo tra poco in particolare con Domenico, il quale ha dedicato una parte significativa del volume che presentiamo oggi proprio a questo argomento. L’altro aspetto che volevo sottolineare è che questa volta la Lezione non è stata tenuta da un unico relatore, ma è stata tenuta da due persone diverse, che si sono alternate nel novembre scorso e che hanno ognuna partecipato alla realizzazione del volume dal proprio punto di vista. Da un lato Ann Goldstein che ha curato e ha tradotto una buona parte dell’opera di Primo Levi per questa edizione americana – Ann Goldstein è una traduttrice sperimentata, ha tradotto Leopardi, ha tradotto la Ferrante, non so fare l’elenco di tuttele cose che ha fatto e è in procinto di fare. Di Domenico Scarpa non voglio sottolinearele qualità, se non dire che oltre ad essere consulente del Centro Primo Levi ha partecipato attivamente a questo lavoro, occupandosi in primo luogo di coordinare l‘appendice delle edizioni americane, assieme ad altri collaboratori del Centro Primo Levi, ma anche per sottolineare che quello che volevamo ribadire attraverso la scelta di due relatori, che sia Ann sia Domenico hanno contribuito insieme a questa nuova edizione dell’opera in inglese. Ovviamente la cura e le traduzioni sono della mano di Ann, ma Domenico ha svolto un lavoro di supporto, credo significativo. E forse vale la pena che proprio cominciamo da questo per iniziare la nostra conversazione.
Vorrei chiedere a Ann in che modo il supporto di Primo Levi… di Domenico Scarpa, può essere stato significativo. Il lapsus non è irrilevante. Ve lo spiego. In realtà Primo Levi ha seguito, fino dove ha potuto, tutte le traduzioni delle sue opere. Ed è proprio di lì che siamo partiti. Primo Levi ha collaborato con i traduttori, e abbiamo voluto che in qualche modo quella abitudine, quello sforzo venisse riproposto nel momento in cui si trattava di offrire una traduzione unitaria e complessiva della sua opera. E quindi proprio richiamando quell’esperienza vorrei chiedere ad Ann in che modo ha potuto funzionare questo lavoro, in che modo Domenico le è servita per il proprio lavoro.

Ann Goldstein
Grazie. Abbiamo lavorato insieme per la maggior parte del tempo. Quando non ero in Italia, non ci sono stata molte volte, mandavo liste di domande a Domenico. Vi cito subito qualche esempio. Nel capitolo dei Sommersi e i salvati c’è una frase: «Per chi non sappia trarre dalla coscienza di sé la forza necessaria per ancorarsi nella vita»; io ho scritto: «Volevo assicurarmi: ‘coscienza’ nel senso di ‘consciousness’, non di ‘conscience’». Domenico scrive: «Coscienza di sé è ‘consciousness’, sì, nell’accezione o con la sfumatura di ‘self-awareness’. Implica il conoscere se stessi, le proprie qualità e i propri limiti, i 'tools' che potranno permetterti di sopravvivere e i punti deboli che ti potrebbero nuocere». La forma definitiva della frase è stata: «For those who have no solid inner resources. For those who cannot draw from their own self-consciousness the strength needed to cling to life». Dunque abbiamo scelto ‘self-consciouness’, non solo ‘consciousness of self’, una parola inglese ma che spero includa tutti i sensi che Domenico ha accennato.
E poi un altro esempio, dal capitolo “Cesare” della Tregua [Cesare è il soggetto]: «Era uscito di fra la legna che sembrava un Cristo in croce». Si dice – io ho scritto – ‘Christ on the cross’, o è più come ‘un povero Cristo’, cioè 'poor wretch', o qualcosa del genere?. E Domenico mi ha scritto: «Credo che qui si possa anche rinunciare a Cristo, perché Levi sta soprattutto cercando un’immagine emblematica che il lettore italiano capisca all’istante, e deve capire che il personaggio è venuto fuori di lì sotto sporco, soprattutto sanguinante, scorticato, come se lo avessero flagellato con lance e fruste, come Cristo. L’importante è usare un’immagine che implichi la pelle scorticata, le abrasioni, i graffi». La frase definitiva: «He had emerged from the wood pilelooking like Christ on the Cross». Dunque sono tornata all’immagine del Cristo, perché mi sembrava che includesse quasi tutti i sensi dell’immagine.
Un altro  esempio. In questo caso Domenico mi ha scritto: «Mi sono accorto per puro caso che finora nella traduzione inglese della poesia che apre Se questo è un uomo al secondo verso del testo l’espressione ‘tiepide case’ viene tradotta con ‘warmhouses’. Non so se hai già corretto in ‘lukewarm’, in caso contrario direi che andrebbe fatto, sia perché in italiano l’espressione suona insolita, idiosincratica, sia perché nessuno mi toglie dalla testa che ci sia un riferimento biblico all’Apocalisse di Giovanni, 3. 15.16, che nel testo inglese ha ‘lukewarm’, sia nelle versione attuale sia nella King James». Usiamo la traduzione di Jonathan Galassi che infatti non aveva scritto ‘lukewarm’, perché è così strana in inglese, ma anche perché ‘lukewarmhouses’ non rende il contrasto che mi sembra importante. Cioè, ‘lukewarm’ dà l’impressione in inglese non di un posto bello e sicuro, ma di un posto non molto comodo. Ho guardato il riferimento biblico e credo di aver capito l’idea di ‘lukewarm’, ma non sono convinta. E alla fine Jonathan ha scritto ‘heatedhouses’, che va bene nel contesto – non ho tutta la poesia davanti a me.
E poi un esempio di un altro tipo. Nelle Pagine sparse nel saggio Deportati. Anniversario, Levi scrive: «É superfluo in questa sede ricordare le cifre, ricordare che si è trattato della più gigantesca strage della storia». In questo caso non potevo capire a cosa riferisce ‘questa sede’, perché è un saggio, un discorso, e non è chiaro. E Domenico mi ha scritto: «Si riferisce al fatto che Primo Levi scriveva su una rivista dedicata al decimo anniversario della Liberazione, edita dal City Council di Torino. Cioè sapeva di rivolgersi a un pubblico già ben informato sui disastri della guerra e sensibile ai temi della Resistenza. Per non dover mettere una nota a piè pagina, direi che potresti tranquillamente omettere la traduzione delle parole ‘in questa sede’, lasciando inalterata la figura retorica della preterizione: ‘è superfluo ricordare le cifre’». Infatti abbiamo fatto così: che è un altro modo di risolvere un problema.

Fabio Levi
Ann è sempre molto concreta e aiuta a entrare nel merito delle questioni. Credo che avete avuto idea, un’idea del dialogo che si è stabilito fra Ann e Domenico e che è durato parecchio tempo, no?

Ann Goldstein
Parecchio tempo, sì. Qualche anno.

Fabio Levi
Io vorrei adesso sentire Domenico, il quale, profondo conoscitore della lingua di Primo Levi – diciamo più esattamente, ne abbiamo parlato tante volte, dei linguaggi di Primo Levi, perché per ogni opera l’autore costruisce un linguaggio specifico, che si riferisce a quello che vuole dire, al contesto nel quale si situa quel particolare tema o argomento – vorrei porre a Domenico la questione in questi termini: vorrei che lui ci dicesse come si sente a leggere Primo Levi in inglese. Lui ovviamente non è di madrelingua inglese, non è di cultura anglosassone, è di cultura italiana, conosce molto bene l’italiano, ha partecipato a questo lavoro ma ovviamente ha dovuto mettersi nei panni del futuro lettore di lingua inglese. Allora vorrei sapere come ti sembra Primo Levi scritto in inglese.

Domenico Scarpa
Grazie Fabio e grazie a voi di essere qui stamattina. Vorrei fare un passo indietro, perché vorrei partire dagli esempi che ha fatto Ann, la quale ha citato passaggi della nostra corrispondenza di questi anni che all’inizio non mi ricordavo. Me li sono ricordati quando gliel’ho detti. Mi hanno lasciato devo dire alquanto turbato, perché quando vedi… fuor dal pelago alla riva ti volgi e vedi tutta la distesa che hai attraversato, dà una sensazione piuttosto strana. Quello che viene fuori dallo stile della nostra comunicazione è che usavamo, almeno io usavo, una lingua mista. E questo comincia forse a rispondere alla domanda di Fabio Levi. Cioè, usavo un italiano con delle frasi molto piane, senza incisi, senza diramazioni, e con molti inserti, con molta 'speziatura' – come se fossero i capperi nella salsa tonnata, avrebbe detto Gadda, buttati così alla rinfusa – di espressioni e locuzioni inglesi, per l’appunto. Levi ha scritto, ha dovuto inventarsi una sorta di lingua mista del genere. Non poteva usare l’italiano standard. Non poteva usare una lingua già nota, già conosciuta, già usata, già usurata per esprimere un’esperienza che non aveva precedenti. E bisognava portare tutto ciò in un’altra lingua – da cui anche il titolo della nostra Lezione. Oggi, a cose fatte, a prendere in mano idealmente le bozze dei tre volumi, le galleys dei tre volumi di Liveright che contano quasi 3000 pagine – quasi tremila pagine stampate di Primo Levi – che impressione si ha? Avete visto, Ann vi ha fatto degli esempi di suggerimenti accolti e di suggerimenti non accolti; vi ha fatto esempi soprattutto di ragionamenti su una parola, su un’espressione; anche di divagazione, perché il traduttore è anche qualcuno che ha bisogno di spendere tempo su una parola, di girarci intorno, di menare il can per l’aia – si dice in inglese… la traduzione di questo idiom italiano è in inglese ‘beating around the bush’: menare corte intorno al cespuglio, sperando di stanare la lepre del significato, sperando di stanare quella volpe, che esca fuori e corra e noi la catturiamo. Beh, l’impressione che ho io oggi a leggere dei passi della traduzione Liveright è – e lo dico ancora in lingua mista, in inglese – di 'consistency', di coerenza, di coerenza complessiva, di ribadimento di una armonia, di una pienezza, di una sferica rotondità del linguaggio di Levi trasposto in un’altra lingua. Nel testo scritto della Lezione mi è capitato di dire che, quando io apro una pagina, un file dei Complete Works di Liveright e vado a leggermi una pagina di Primo Levi in inglese perché mi occorre citarlo in inglese per l’attività nostra del Centro, trovo di solito tradotti letteralmente gli elementi chiave del discorso: i sostantivi, i verbi d’azione, gli aggettivi qualificativi, questi tre pilastri, questi tre cardini, questo treppiede su cui regge l’intera opera. E questa 'consistency' è fortissima. E qui lasciatemi allontanare un attimo, poi tanto ritorneremo. Consistency era il titolo della sesta e ultima delle Lezioni americane che Calvino avrebbe dovuto tenere in America nel 1985. Avrebbe voluto scriverla ad Harvard dove era invitato; non ci riuscì perché morì quell’estate. Ora, ‘consistency’ era una parola pregna, pesante, era piena di significato, densa di significato perché non solo significa ‘coerenza’ – è un false friend in italiano, non significa ‘consistenza’, significa ‘coerenza’ – ma ‘coerenza’ in un’accezione particolare, cioè di connessione e armonia fra le parti di un tutto complesso. Ed è una parola che Calvino prendeva da Edgard Allan Poe, dal suo poema cosmologico Eureka, che è del 1848, un anno abbastanza importante: se pensiamo che Levi ha scritto sugli eventi del ’43-’45 il suo Se questo è un uomo, il ’48 è un anno importante. Poe aveva usato ‘consistency’ in questo senso, per dare l’immagine della coerenza e della complessità e dell’armonia dell’universo. Poe è stato tradotto in francese integralmente da Charles Beaudelaire, il grande 'peintre de la vie moderne', il primo che ha fatto irrompere la modernità, la frenetica modernità del mondo contemporaneo nell’Europa. Beaudelaire è una delle fonti principali di Primo Levi in Se questo è un uomo: ci sono un sacco di citazioni palesi e nascoste da Le fleursdu mal in Se questo è un uomo, come ha mostrato Alberto Cavaglion. Ho battuto intorno al cespuglio fino adesso? Forse sì, ma forse non del tutto, perché il dialogo con Ann Goldstein intorno a quest’opera si è nutrito di questi percorsi sinuosi e magari a volte inutili, che andavano pure in vicoli ciechi, ma era opportuno farli per arrivare a questa grande 'consistency' della edizione Liveright. La leggo con stupore e con profondo riconoscimento dell’opera di Levi.

Fabio Levi
Vorrei tornare da Ann. Avete visto che lei rimane rigidamente legata alle parole. Ed è giusto che sia così, ed è un bene che sia così. Vorrei adesso uscire dal dialogo con Domenico e vorrei invece entrare più direttamente nel suo lavoro. E vorrei chiederle se può farci degli esempi di parole, espressioni, locuzioni che per lei sono state particolarmente significative, sia magari perché le hanno posto dei problemi non indifferenti da risolvere sia perché magari in quelle espressioni, in quelle locuzioni ha riconosciuto dei segni particolari, ricorrenti della lingua che doveva tradurre.

Ann Goldstein
Non so se posso rispondere esattamente, però in Levi difficili sono le parole della scienza, perché per uno che non è scienziato è difficile qualche volta capire una parola o un processo scientifico. Ho preso un esempio ma è abbastanza lungo, e non ho l’italiano. Nel capitolo “Fosforo” del Sistema periodico c’è la descrizione di come dare ai conigli… per misurare la glicemia, e c’è una descrizione molto dettagliata e complessa, direi, di come inserire queste cose nella gola del coniglio, eccetera. Le descrizioni come questa sono molto difficili perché devi non solo capire le parole, ma anche il complesso, tutta l’azione e un’azione è sempre difficile da descrivere. C’è un saggio di Levi dove lui critica Manzoni, no?

Domenico Scarpa
É Renzo che, stando in bilico su una carretta in movimento, prende a pugni, dà un pugno a qualcuno che cerca di arrampicarsi. Impossibile che qualcuno in equilibrio riesca a fare un movimento di slancio del genere. É la meccanica, la dinamica che è fisicamente impossibile, e quindi Manzoni…

Ann Goldstein
Sì, sì, dice: non è possibile. Levi sempre presenta una descrizione che è esatta e che devi rendere in un modo esatto, dunque l’azione deve avere senso in inglese, e questo è difficile. Un altro esempio più semplice. A lui piace l’allitterazione, usa sempre  due o tre aggettivi con la stessa lettera all’inizio, come Cattaneo e Calibano, freddo e fame, ambigua e affascinante, recuperarli e richiuderli, in tutte le forme della lingua – verbi, aggettivi, sostantivi – e il traduttore deve decidere in ogni caso se è possibile preservare, conservare questi suoni. Perché la lingua di Levi suona benissimo, ed è difficile capire come riprodurre questo suono anche in inglese, e non so se l’abbiamo fatto.
Un altro esempio potrebbe essere la parola ‘scomposto’. Nel brano su cui ho concentrato nella Lezione c’è la parola ‘scomposto’–‘scomposti’ in questo caso, ma è una parola che appare abbastanza spesso. «La parola ‘scomposti’ è forse la più difficile da rendere in tutto il brano, e anche la più complessa, perché racchiude più di un significato» – e devo dire che non è che è sempre usata nello stesso significato. Devo sentirmi libera di cambiare un po’, in ogni caso, e decidere in ogni caso. Continuo: «Il verbo da cui deriva, ‘scomporre’, significa disfare, ma anche disordinare, e ‘scomposto’ vuol dire sconveniente, sguaiato, ma anche disordinato. Il problema è decidere quale senso è il più forte, quale deve prevalere nella versione in questo caso. Appunto, bisogna scegliere, decidere, e quindi anche escludere. In inglese il vocabolario ci offre varie possibilità. La parola più affine è ‘discomposed’, aggettivo che si usa per una persona che non è in ordine. All’inizio pensavo a ‘scomposti’ in un senso puramente fisico : “Erano cadaveri e si disfacevano” – si riferisce ai cadaveri che sono in una fossa comune. O erano stati disfatti perché giacevano lì abbandonati da tempo, erano cioè ‘decomposed’; ma meditando sui vari significati della parola e immaginandomi la scena mi è venuta l’idea dei corpi ammucchiati in disordine: ‘A jumble pile of bodies’;‘Corpses jumbled together’. Domenico ha detto: «Scomposto significa disordinato, in questo caso come mucchio di ossa e membra gettate per terra, alla rinfusa. Ma c’è anche un sottinteso di oscenità: posa scomposta è eufemismo per posa oscena”». Leggo tutto questo per indicare come si deve pensare a una singola parola. Qualche riga prima nella Tregua c’è l’episodio della fossa comune, dove Levi e il suo compagno Charles hanno appena rovesciato il corpo del loro compagno Sómogyi non nella fossa, ma sulla neve corrotta, perché la fossa era piena; la sepoltura non si dava. Il fatto che non ci sia sepoltura è già sconveniente, addirittura osceno: dunque ho provato ‘unseemly’, con l’aggiunta di ‘pile of’, che equivale a ‘mucchio di persone’, per sottolineare l’idea che quella massa di cadaveri è oscena – la massa, non gli individui. Ma tornando di nuovo alla frase, era la scena, meditando di nuovo sull’insieme, così ho cominciato a pensare che ‘unseemly’ fosse troppo carico di emozioni, di giudizio morale, e che l’idea di quei cadaveri in disordine, di un mucchio di cadaveri fosse più forte; e inoltre l’idea dell’oscenità, del  il giudizio morale è contenuta negli sguardi dei soldati. Alla fine ho usato la parola ‘a jumble of corpses’.

Fabio Levi
Vorrei adesso aprire il discorso ad una prospettiva più generale. Sappiamo che Domenico di mestiere fa il critico letterario. So io che Domenico, come tutti noi, ha dei chiodi fissi. Dice sempre che il critico letterario, quantomeno il suo modo di essere critico letterario, è un modo che gli impone di rimanere molto legato, direi quasi abbarbicato al testo. Ogni interpretazione deve avere il suo limite e il suo sostegno nel testo, nella storia di quel testo e così via. Allora, quello che volevo chiedergli è che cosa questa esperienza di  sostegno alla traduzione di Ann gli ha insegnato in quella prospettiva sia su Primo Levi sia sul suo mestiere.

Domenico Scarpa
Beh, sarebbe facile dire che ha confermato l’idea che si debba stare abbarbicati ai tesi. Provo a dirlo in altro modo. Ha confermato l’idea che si debba avere il massimo rispetto per i fatti. Questa è un’idea molto in armonia con Primo Levi. Il massimo rispetto per i fatti è inventarsi sempre un modo nuovo per raccontarli, per ricostruirli, per riferirli, per dirli. Bisogna essere assolutamente vincolati al testo e in particolare al suo significato letterale, alla sua cronologia, e poi trovare un modo per restituirlo agli altri, per portarlo al numero più largo di persone. Ma attenzione, conquistandosene una alla volta, non a migliaia o a milionate per volta, ammesso e non concesso che sia possibile. Lavorare sui piccoli significati e sui piccoli numeri, che mettono radici, ecco. Che mettono radici. Mi fermerei qui per il momento, mi ha insegnato questo, sì.

Fabio Levi
E invece voglio chiedere un’altra cosa a Ann. Credo che tutto quello che ci hai raccontato fino adesso ci ha fatto capire fino in fondo quanto sia difficile tradurre. Sappiamo che il lavoro di traduttore è un lavoro necessario, assolutamente necessario, sappiamo che è un lavoro difficile, sappiamo anche che è un lavoro misconosciuto, bistrattato – i traduttori sono pagati pochissimo, no? – è un mestiere difficile da intraprendere, anche se può risultare un mestiere straordinariamente affascinante. Allora vorrei chiedere a Ann, visto che qui ci sono molti che dovranno scegliere cosa fare nella propria esistenza, se lei si sente di consigliare questo lavoro, magari perché, o perché sì e perché no.

Domenico Scarpa
Li facciamo scappare? O li teniamo?

Ann Goldstein
Io sono arrivata al mestiere di traduttrice, come ho detto nella Lezione, attraverso la lingua italiana invece che la letteratura. Ma aggiungerei che ci sono arrivata anche attraverso il mio lavoro di ogni giorno. Faccio l’editor, anche il copy-editor, cioè controllo i testi degli scrittori e li correggo. Correggo in senso ampio; ritengo che questo lavoro voglia dire o implichi aiutare uno scrittore a fare il suo meglio, a essere se stesso, a presentarsi, a esprimersi nel modo migliore, ovvero a realizzare la sua voce vera. Dunque io non è che riscrivo il testo di un autore, di uno scrittore, ma faccio i controlli cominciando con la grammatica, la punteggiatura, la sintassi, la logica delle parole, e naturalmente il senso; io credo che questo mestiere sia una buona preparazione per il lavoro del traduttore. Primo nel senso che si è abituati a concentrare sui dettagli, a lavorare in un modo minuzioso, meticoloso. Poi in un senso direi quasi psicologico, perché si è abituati ad essere nel fondo, a presentare un’altra persona. Per fare il traduttore devi amare la lingua, le lingue, e avere la voglia, la capacità di lavorare in quel modo appena descritto, con i dettagli. E importante allo stesso modo è non avere un grande ego. Negli Stati Uniti il lavoro del traduttore è stato storicamente mal pagato e sottovalutato. Esiste un’organizzazione, un sito web per la traduzione e per il traduttore, che si chiama Three per cent, o tre per cento, che rappresenta la percentuale dei libri pubblicati ogni anno negli Stati Uniti che sono stati tradotti. Spero che il numero abbia cominciato a cambiare un po’ in questi giorni con tante piccole case editrici dedicato – almeno tante – alla traduzione, ma è difficile guadagnarsi da vivere come traduttore. Solo il più grande traduttore americano, Lee Weaver, è riuscito a guadagnare sufficiente da vivere con la traduzione. Infatti lui aveva una casa vicino ad Arezzo dove c’era una camera che si chiama “The apple chamber”, perché ha guadagnato tanti soldi dal Il nome della rosa. Ma io non ho fatto così. In generale i traduttori hanno altri lavori, come insegnanti, professori, o lavorano in una casa editrice, che gli permettono di fare il mestiere di traduttore.

Fabio Levi
Un lusso.

Ann Goldstein
Io considero che il mio lavoro di ogni giorno mi paga per essere una traduttrice.

Fabio Levi
Abbiamo capito che il lavoro intellettuale è un lusso. Adesso vorrei passare all’altra parte del discorso. Abbiamo parlato di tradurre Primo Levi, adesso vorrei parlare di Primo Levi traduttore. A partire da una frase importante, che abbiamo per esempio riproposto nella mostra di Palazzo Madama: «La lingua – una frase di primo Levi – manca di parole per descrivere questa offesa». Già prima Domenico ha accennato alla questione, cioè a come l’opera di Primo Levi rappresenti uno sforzo straordinario per descrivere nella nostra lingua una realtà difficilissima da rappresentare, la realtà del mondo capovolto del lager. Questo ci fa capire come il concetto di traduzione possa avere numerosi significati, in particolare nell’opera di Primo Levi. Su questo, vorrei chiedere a Domenico che cosa pensa e soprattutto che cosa racconta nel libro che stiamo presentando oggi.

Domenico Scarpa
Ho cominciato la Lezione con un paragrafo, un capitoletto che si intitola “Un linguaggio radicale”. Vorrei dire alcune cose. É una definizione, una possibile definizione del linguaggio usato da Primo Levi: un linguaggio radicale significa innanzitutto un linguaggio che spesso basa il suo supplemento di significato, la forza con cui ci arriva, la novità con cui ci colpisce sul fatto che le parole vengono usate nel loro senso letterale o ancora di più etimologico. Levi fa un esempio: se uno scrittore sa che il verbo scatenare significa liberarsi delle catene potrà usare questa parola con maggiore coscienza e soprattutto in un senso meno ovvio. Non tutti si accorgeranno dell’operazione che hai fatto, ma tutti sentiranno in qualche modo che non hai usato la parola nella maniera più banale. Levi dà questo consiglio a un giovane scrittore, ma era un’operazione che già aveva compiuto per conto suo, addirittura nell’episodio di Hurbinek ne La tregua, dove descrive il bambino di tre anni Hurbinek, nato in Auschwitz, come un qualcuno i cui occhi erano pieni della volontà di scatenarsi, e di scatenarsi nel linguaggio. La stessa identica parola. Questo ci dice una cosa abbastanza importante, che pure ho tentato di mettere in chiaro nella Lezione, cioè che il tradurre e il testimoniare sono per Primo Levi, e forse anche in generale, due attività confrontabili, due attività che hanno qualche aspetto in comune. Così come Levi ci dice che il testimone integrale di Auschwitz dovrebbe essere colui che in Auschwitz è morto, è arrivato alla fine della trafila di disfacimento, di distruzione, mentre in realtà i testimoni, di fatto, sono coloro che come lui sono sopravvissuti, quindi che non hanno percorso fino in fondo il cammino dell’esperienza, nella traduzione noi sappiamo che, per  quanti sforzi faccia un bravo traduttore, quale può essere Ann Goldstein, non riuscirà mai a riportare in un’altra lingua l’interezza del significato, o comunque tutte le sfumature, o comunque non riuscirà a trasferire da un mondo all’altro un intero sistema culturale. Perché un testo rappresenta non solo un tot di figure retoriche, ma un intero sistema culturale da trapiantare, e questo non si riesce a farlo. E però il traduttore il suo lavoro lo fa lo stesso. Ossia, tanto la testimonianza, quanto la traduzione sono due attività impossibili in linea teorica, ma necessarie sotto l’aspetto pratico; è impossibile farle in maniera completa, ma è necessario farle fin dove si può nella realtà. Vorrei tornare un attimo sulla domanda che Fabio mi faceva prima – che cosa imparato da questo lavoro –  perché anch’io molti anni fa – adesso ho smesso – ho fatto per qualche anno il traduttore. Ho smesso perché mi sono accorto di non essere né abbastanza bravo, né abbastanza veloce a fare questo mestiere. Però posso dire che cosa devo alla traduzione in generale. Ho tradotto un paio di libri che hanno avuto parecchio successo: come La lettera d’amore di Cathleen Schine per Adelphi e La casa del sonno di Jonathan Coe per Feltrinelli. Soprattutto questo secondo lavoro – risale al 1997-98, quindi quasi vent’anni fa – credo che mi abbia finalmente insegnato un po’ come funziona la lingua italiana, mi abbia insegnato un po’ l’eufonia della nostra lingua. Non è solo che la nostra lingua manca di parole, manca anche di punteggiatura. Il lavoro su Jonathan Coe, il lavoro del traduttore mi ha insegnato qualcosa su come puntuare la frase, su come ritmarla. Una mia  cara amica mi diceva che – prima di quella data – nelle cose scritte da me si sentiva sempre un po’ di sabbia – sapete quando mangiate delle vongole, dei frutti di mare e vi rimane la sabbia sotto i denti? – la mia scrittura dava quel senso lì. Da quando ho fatto qualche anno di traduzione, mi illudo che la sabbia sia scomparsa. Non dico che sia buona da mangiare come le vongole, quello che scrivo, ma la sabbia non c’è.

Fabio Levi
Vorrei a questo punto tornare al punto di partenza. Due occasioni: la presentazione della Lezione Primo Levi e la prossima uscita dell’opera in inglese. Chiedo sempre a Mimmo: che cosa comporterà secondo te l’uscita dell’opera completa di Primo Levi in inglese? Come modificherà il processo di ricezione di quello che ci ha lasciato, a livello internazionale?

Domenico Scarpa
Posso dirlo con una battuta piuttosto provocatoria, forse. L’edizione inglese dei Complete Works esce nell’autunno 2015, a settant’anni dalla liberazione di Auschwitz. La pubblicazione dei Complete Works rappresenterà la seconda liberazione di Primo Levi. In che senso? La liberazione dalla etichetta, che continua ad avere Primo Levi in Italia e all’estero, soltanto, soprattutto come testimone del lager. Levi, dal momento in cui uscirà l’edizione dei Complete Works verrà considerato semplicemente – si fa per dire, semplicemente – come un grande scrittore del secondo Novecento. Uno scrittore del secondo Novecento che si è sperimentato in ogni genere di scrittura, che ha sperimentato molti talenti, che ha inventato molti linguaggi, che si è tradotto in molte lingue, innanzitutto in italiano, e al quale – certo - è capitato all’inizio, per necessità, di tradurre in discorso l’evento cardine del ventesimo secolo. Ci tengo a questa definizione: l’evento cardine, non il male assoluto e non l’evento estremo che sono definizioni povere, pigre, giornalistiche che non ci dicono nulla su Auschwitz. Evento cardine è qualcosa che riguarda tutti, qualcosa che non si capisce ancora, qualcosa che deve essere interpretato. Ed è anche una citazione dall’inglese: cardine, ‘joint’, come nell’Amleto: «The time is out of joint. O cursed spite. That ever I was born to set it right!».E’ il monologo di Amleto: il tempo è fuori cardine, il tempo è fuori sesto, il tempo è fuori giunto. Quale maledizione che proprio io sia nato per rimetterlo in sesto, per rimetterlo sui propri cardini. A partire da questa maledizione-necessità, beh, Levi ha fatto altro e verrà riconosciuto. É qualcosa, la pubblicazione dei Complete Works, che scuoterà molte pigrizie, a cominciare dall’Italia, pigrizie dell’ambiente accademico, per il quale Primo Levi è uno scrittore chiaro, che si capisce. Cosa c’è più da dire su Primo Levi, ragionano molti accademici in Italia. Auschwitz oramai si sa, si conosce: cosa c’è più da dire? C’è da dire tutto. Anche pigrizie editoriali. Ann ci ha portato – ma spero che ne parlerà lei fra qualche attimo – ha portato una bellissima sorpresa che è questa brochure, questo libretto anzi. Liveright ha realizzato un libretto antologico dedicato alla stampa dove ha messo la riproduzione della copertina, delle copertine del cofanetto che racchiuderà i tre volumi, l’indice generale dei tre volumi e poi una serie di scritti di Primo Levi tradotti in inglese. Questo libretto comincia con La chiave a stella, prosegue con Se non ora, quando?; poi c’è il capitolo di Hurbinek ne La Tregua, c’è uno dei racconti di fantascienza delle Storie naturali, c’è "Fosforo" del Sistema periodico, c’è il racconto disperso L’ultimo Natale di guerra, e infine ci sono due poesie. Ho detto infine. Non c’è Se questo è un uomo e non c’è I sommersi e i salvati in questa scelta. Cosa fanno, gli americani, vogliono cancellare Auschwitz? Nossignore, vogliono dare un’altra prospettiva – poi mi dirà Ann se sto interpretando correttamente. Auschwitz c’è eccome, perché c’è l’episodio di Hurbinek, cioè il modo più stringato, più complesso, più compatto in cui Levi ha racchiuso il cardine di Auschwitz – non l’estremo di Auschwitz. E poi fra le due poesie messe qui dentro c’è Shemà, cioè c’è la poesia epigrafe di Se questo è un uomo. C’è la prima e c’è l’ultima poesia di Primo Levi. Altro che assenza di Auschwitz: c’è, ma c’è in un’altra prospettiva. E c’è innanzitutto La chiave a stella, cioè uno scrittore-faber e uno scrittore-montatore, uno scrittore che ha inventato un nuovo linguaggio per dire concretamente, con precisione le cose. Credo che questo cambierà le cose.

Fabio Levi
Ann, vuoi dirci qualcosa tu a proposito di questo inizio?

Ann Goldstein
Voglio solo dire che la traduzione di un progetto come i Complete Works è un grande progetto. Le case editrici americane non fanno queste cose, o le fanno raramente. La scelta di Primo Levi non è nuova, però è importantissima. Voglio dire che anche per il mestiere del traduttore, fare un progetto così, con uno scrittore così grande, in traduzione, è qualcosa.

Domenico Scarpa
Un fuori programma. Vorrei chiedere una cosa a Ann. Te la senti di leggerci in inglese l’episodio di Hurbinek, le due pagine? Credo che sentire l’episodio di Hurbinek da La tregua, dal capitolo “The Big Camp” – cominciamo a dirlo in inglese; il titolo è stato finalmente tradotto letterale: The TruceLa tregua, non come nella prima edizione statunitense del 1965 The Rewakening, cioè il risveglio. La fedeltà letterale a Primo Levi è uno dei pregi di questa edizione: If This is a ManThe Truce; "The Big Camp"; "Hurbinek".

Ann Goldstein
«Hurbinek was a nothing, a child of death, a child of Auschwitz. He appeared to be about three; no one knew anything about him; he didn’t know how to talk and didn’t have a name. That odd name, Hurbinek, had been assigned by us, perhaps by one of the women, who had inter­preted with those syllables one of the inarticulate sounds that the child every so often emitted. He was paralyzed from the lower back down, and his thin, sticklike legs had atrophied; but his eyes, lost in his pinched, triangular face, flashed, terribly alive, full of demand, of insistence, of the will to be released, to shatter the tomb of his muteness. The speech that he lacked, that no one had taken care to teach him, the need for speech, persisted in his gaze with explosive urgency: it was a gaze both savage and human, or, rather, mature and judgmental, so charged with force and pain that none of us could sustain it.
No one except Henek: a strong, healthy Hungarian boy of fifteen whose bed was next to mine. Henek spent half his days beside Hur­binek’s bed. He was maternal rather than paternal: it’s likely that, if our precarious shared life had been extended beyond a month, Hurbinek would have learned to speak from Henek, certainly more than from the Polish girls, who were too tender yet too empty, intoxicating him with caresses and kisses but avoiding intimacy.
Henek, on the other hand, sat beside the little sphinx, calm and per­sistent, immune to the sad power that emanated from him; he brought him food, arranged his blankets, cleaned him with skillful hands, devoid of repugnance; and he talked to him, in Hungarian, naturally, in a slow, patient voice. After a week, Henek announced seriously, but without a hint of presumption, that Hurbinek had “said a word.” What word? He didn’t know, a difficult word, not Hungarian: something like “mass-klo, “matisklo.” At night we strained our ears: it was true, every so often from Hurbinek’s corner came a sound, a word. Not always exactly the same, in truth, but it was certainly an articulated word, or, rather, slightly different articulated words, experimental variations on a theme, a root, maybe a name.
Hurbinek continued his obstinate experiments as long as he lived. In the following days, we all listened to him in silence, anxious to understand –  and there were among us speakers of all the languages of Europe – but Hurbinek’s word remained secret. No, it was certainly not a message, not a revelation: perhaps it was his name, if he had even been blessed with one; perhaps (according to one of our hypotheses) it meant “eat,” or “bread”; or perhaps “meat” in Bohemian, as one of us, who knew that language, maintained, with solid arguments.
Hurbinek, who was three years old and had perhaps been born in Auschwitz and had never seen a tree; Hurbinek, who had fought like a man, to his last breath, to gain entrance into the world of men, from which a bestial power had banned him; Hurbinek, nameless, whose tiny forearm had been marked with the tattoo of Auschwitz–  Hurbinek died in early March 1945, free but not redeemed. Nothing remains of him: he bears witness through these words of mine».

Fabio Levi
Grazie. Io direi che abbiamo ancora un po’ di tempo, se qualcuno ha qualche domanda da fare, qualche opinione da manifestare, possiamo farlo.

Ascoltatore
Qualcosa ancora su Primo Levi traduttore.

Domenico Scarpa
Levi ha tradotto cose piuttosto diverse l’una dall’altra. Una traduzione che mi fa piacere ricordare in questa sede perché è precoce e lo ha accompagnato per tutta la vita è la traduzione delle poesie di Heine. Poesie di Heine significa poesie scritte in tedesco, da un ebreo tedesco nell’Ottocento. Poesie ironiche, poesie familiari, poesie speziate: quella 'speziatura' del linguaggio, quella solennità che si burla di se stessa, che Levi è riuscito a portare in lingua italiana. Molti scrittori italiani ci avevano provato con Heine senza riuscirci, a cominciare da Carducci. Carducci era troppo retorico, gonfio, solenne per riuscirci. Ci era riuscito meglio probabilmente un dialettale come Giacomo Noventa, veneto, che le aveva tradotte in dialetto veneto. Levi ha questa fratellanza con la lingua tedesca che lo ha accompagnato per tutto la vita. É straordinario perché c’è un altro aspetto: Levi ha dato una testimonianza acustica di Auschwitz acutissima, essendo un qualcuno che parlava una lingua diversa dalle lingue più diffuse nei lager di sterminio. Le lingue più diffuse nei lager di sterminio erano il tedesco, il polacco, lo yiddish e l’ungherese, almeno ad Auschwitz. Levi ha dovuto fare questo sforzo acustico di aderenza alla fisicità auditiva di quello che gli veniva detto, ossia i comandi che erano minacce – i comandi che erano minacce di morte, che erano pericoli e in qualche rarissimo caso erano opportunità – senza diventare né  un nemico a priori dei tedeschi, quindi uno che ragiona con razzismo rovesciato, con stereotipi, e neanche un nemico della lingua tedesca. Quanto ha tradotto Levi dal tedesco, anche come traduttore scientifico, come consulente delle case editrici Einaudi e Boringhieri, negli anni Quaranta, Cinquanta – un’attività di lui che è quasi completamente sommersa – fino ad arrivare a tradurre nel 1983 Il Processo di Kafka, e specchiarsi nella morte di Joseph K, che era una morte vergognosa così come era vergognosa la morte di chi scompariva in Auschwitz. Ma mi piace finire con la traduzione di un suo quasi gemello. Levi ha tradotto dal francese, ha tradotto per Einaudi, due libri di Claude Lévi-Strauss: La voie de masquesLa via delle maschere, e Le regard eloignéLo sguardo da lontano, che è una straordinaria raccolta compendiaria della ricerca, dei saggi di Lévi-Strauss uscita da Einaudi nell’84. Si stabilì fra loro una corrispondenza che grazie alla cortesia dei figli di Primo Levi sta per essere pubblicata, a cura di Martina Mengoni, nella rivista «Italianistica». E sarà una novità per il clima di calore intellettuale, di scambio, di rispetto reciproco, tra questi due grandi antropologi: un antropologo a pieno titolo, Lévi-Strauss, e un Levi senza trattino e senza accento, ma con il trattino e con il rimorchio dietro della sua opera completa, dei Complete Works. Levi senza accento, trattino Complete Works, grande traduttore e grande tradotto, è stato tradotto e continua a viaggiare. Forse con questo possiamo salutarci stamattina. Grazie per essere stati con noi.


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