Primo Levi nella mischia

di Domenico Scarpa

«E buttare nella mischia un sommo come Primo Levi. Complimenti!» Il rimprovero è comparso su una pagina di «Robinson», il settimanale culturale che esce ogni sabato con «la Repubblica», poco dopo l’inizio del torneo letterario che per due mesi ha messo in gara l’uno contro l’altro, di settimana in settimana, 32 grandi libri del Novecento, e che si è concluso domenica 18 aprile con la vittoria di Se questo è un uomo, che in finale ha battuto Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi.

Come leggerlo questo ennesimo successo di Levi, stavolta in una gara che Giorgio Dell’Arti ha lanciato con passione (slogan: «Il romanzo della nostra giovinezza»), per calcolo (aumentare i lettori e fidelizzarli arruolandone alcuni come giurati), insistendo sulla sua futilità (guardate che è solo un gioco anche se scherziamo con le cose serie, anzi, proprio per questo) ma sottolineandone la provocazione (i 32 ve li abbiamo scelti noi escludendo libri famosi, al loro posto ne troverete alcuni che vi sorprenderanno, e tanto meglio se vi scandalizzeranno addirittura)?

Antefatto: l’anno scorso, 2019, il centenario della nascita di Levi ha dato conferma che la sua figura comunica qualcosa di essenziale a una grande quantità di interlocutori: in tutto il mondo, in ogni fascia di età, a qualsiasi grado d’istruzione. Primo Levi non ha un pubblico solo, ne ha tanti; trova ascolto per motivi che possono essere molto diversi l’uno dall’altro, magari inconciliabili. Tutto questo si deve alla ricchezza del suo profilo intellettuale e umano: alle tante voci che lo scrittore sa articolare, ai linguaggi e ai registri che sa manovrare, alla sua efficacia come testimone (e non soltanto di Auschwitz), ai campi del sapere in cui è un esperto o un dilettante di talento, alla sua concretezza e immaginazione morale, alla statura di uomo di pensiero che in maniera sempre più convinta gli si accredita.

Ora, in questo successo sempre più largo si annida un pericolo: la sua trasformazione non proprio in un monumento, ma piuttosto in un oracolo al quale si chiede – da cui, anzi, ci si aspetta – una risposta che sia illuminante sempre, ovunque e comunque. Il pericolo è che il testimone, lo scrittore, l’uomo di pensiero Primo Levi diventi un «sommo», altissimo e muto.

Quello che per brevità è chiamato «successo» consiste appunto in un’abbreviazione: si risolve in gran parte nell’essere fraintesi. Da anni il concetto di «zona grigia» ha imboccato derive che lo hanno trascinato lontano dall’accezione precisa, prudente e allo stesso tempo severa con cui Levi lo aveva proposto nel suo ultimo libro. Allo stesso modo, poco più di trent’anni fa la «leggerezza» di Calvino, virtù enunciata nella prima delle postume Lezioni americane, si è trasformata in una parola d’ordine dalla risonanza planetaria: una parola in cui Calvino aveva concentrato ogni attenzione veniva adoperata con una disinvoltura che lo avrebbe sbalordito.

«Robinson» ha costruito il suo torneo sul modello del torneo di Wimbledon: tabellone diviso a metà (pagina di sinistra e pagina di destra, maestose e colorate), sedici concorrenti schierati su ciascun lato, quattro turni a eliminazione diretta, match finale tra i vincenti delle due metà. Proprio come nei tornei di tennis si sono elette due teste di serie, collocate ai due lati opposti del tabellone per evitare il prematuro scontro diretto, forse immaginando che sarebbero state loro a giocarsi la finale: erano proprio Levi e Calvino, ma Calvino è stato eliminato al primo turno, come non è raro che capiti a una testa di serie, e lo scrittore che lo ha battuto, Tabucchi, se l’è vista poi nella finalissima contro Levi, che nella sua metà di tabellone eliminava via via Landolfi (Racconto d’autunno), Fruttero & Lucentini (La donna della domenica), Vassalli (La chimera) e Fenoglio (Una questione privata).

Il match conclusivo tra Se questo è un uomo e Sostiene Pereira è finito 4 a 3, e qui si deve ricorrere al replay come per i punti controversi. Finora si è usato il termine «libri», ma il torneo di «Robinson» parla di «romanzi». È un romanzo Se questo è un uomo?

Si è fatto cenno ai giurati, e si è appena detto che in finale ha vinto Levi 4 a 3: i giurati erano 7 persone in tutto, e questo stesso numero ha deciso di ciascuna partita, salvo in alcune occasioni in cui è stato più alto (ma non di tanto) per aggregazione fra giurie. È stato significativo questo torneo?

A entrambe le domande la risposta è sì. Nel primo caso, non certo perché Se questo è un uomo sia un romanzo, ma perché ogni opera destinata a sopravvivere si deve misurare e scontrare con innumerevoli fraintendimenti: perciò, bisogna tollerare di vedere definita l’opera prima di Levi – qualche volta anche da studiosi di professione – come un romanzo.

Al suo torneo «Robinson» ha dato il titolo «Il romanzo della nostra giovinezza»: nessuno degli autori era in vita, i testi più recenti erano appunto Sostiene Pereira (1994) e La concessione del telefono di Camilleri (1998): in qualche scombinato modo questo concorso voleva tramandare l’esperienza di tutto un mezzo secolo di letteratura italiana, sapendo che per la grande maggioranza dei lettori sarebbe stata una scoperta e una sorpresa, una passione o una delusione (o l’una e l’altra). Per la verità, l’intera letteratura italiana del Novecento sarebbe un patrimonio a disposizione di chiunque, ma è un numero relativamente basso di lettori a goderselo: è come un montepremi incassato solo in minima parte, ed è un peccato che rimanga infruttifero; ecco perché bisogna rispondere «sì» anche alla domanda sul senso dei piccoli numeri di queste giurie.

Quando dei lettori si candidano a leggere, quando poi fanno una scelta, quando alla fine scrivono per motivarla dicendo cosa gli piace e cosa non gli piace e perché, anche nella maniera più ingenua, più goffa o più presuntuosa, devono essere ascoltati, perché hanno pensato che valesse la pena parlare di libri (magari solo per vedere il proprio nome sul giornale: e va bene) e soprattutto perché ci suggeriscono cosa stanno cercando, di che cosa avvertono il bisogno. Loro sì che sono dei campioni, un campione magari ridotto e casuale ma pure rappresentativo e fornitore di indizi. Di queste giurie non si sa molto, ma sono composte di persone che hanno voglia di sorprendersi, di essere sorprese e di cambiare parere in corso di lettura.

Su Se questo è un uomo si possono leggere, nel sito del torneo, 50 giudizi. Eccone due, il primo di un uomo, il secondo di una donna:

Penso che il valore di questo libro sia più apotropaico per tutta la società che letterario. Questo libro è necessario e anche l’autore sembra suggerirti in un orecchio: «facciamo un patto, leggilo, non scordartelo mai, ma abbi la forza di chiuderlo e andare avanti». È un patto che ci fa vergognare un po’, ma chi ha la forza di stringerlo uscirà dal Giordano purificato.

Ai miei occhi questo libro sconta l’essere divenuto il memoir simbolo dell’italica visione del dramma dell’Olocausto, il che ha prodotto il singolare effetto di mettere completamente in ombra i difetti del libro stesso, emarginati dalla luce di una testimonianza necessaria, dell’incessante appello al non-oblio, alla non-dimenticanza. Se ci si concedesse lo strappo, astrattamente impensabile, di astrarre la griglia dello stile di scrittura dalla tessitura della trama, ci si accorgerebbe che essa appare assolutamente povera, di un’asciuttezza che non potrà mai divenire pregio, di una finalità doverosa che ha incatenato a sé l’Autore stesso, prima ancora dei lettori. Una cronaca impietosa, per ciò stesso confinata nei limiti ristretti di ciò che non cessa di apparirmi come una lettura obbligata e scolastica.

Il primo giudizio è positivo e sottilmente ambiguo; il secondo, negativo, esprime un’insofferenza meditata e sincera cui non ci si può limitare a rispondere mostrando che quella di Levi è una scrittura fra le più belle e versatili che si possano incontrare. Si tratta, piuttosto, di strappare Levi al ruolo del «sommo», all’immagine unica e statuaria del Testimone: di sottrarlo all’obbligo scolastico, di scrostare dalle sue pagine la patina solenne e punitiva che le ha ricoperte, e che non si deve certo all’autore, ma da cui si sentono soverchiati – lo si avverte nei loro testi di elogio – anche lettori che nelle varie fasi del torneo hanno scelto Se questo è un uomo ritenendolo un libro fondamentale.

È significativa, fra i giurati del torneo, la reazione di chi, nella prima partita Landolfi vs. Levi, ha scelto Landolfi: non solo per un giudizio di valore letterario, ma anche per bisogno di evasione, di ambiguità di significati, di gioia linguistica. Si diceva poco fa che Levi è capace di raggiungere molti pubblici diversi, che è uno scrittore dai molti talenti. Quanti lettori sono al corrente che Levi ha scritto geniali storie di fantascienza, interviste immaginarie con animali, poesie condotte come se fossero racconti, articoli sui giochi e sulle lingue che per chi li legge sono come una granita in una controra estiva? Quanti arrivano a cogliere, in Se questo è un uomo, l’umorismo, l’autoironia, il senso del grottesco e dell’assurdo con cui Levi riesce a descrivere – a far muovere – la macchina terribile del Lager? È possibile che molti lettori si accorgano di tutto questo, ma che poi nei loro giudizi pubblici si censurino: è possibile che si vietino di parlarne perché intimiditi dall’immagine monumentale del Testimone.

A questo punto bisogna tornare al lettore che rimproverava «Robinson» di aver buttato nella mischia perfino Primo Levi: il quale – lo si può affermare con sicurezza – se fosse stato ancora presente si sarebbe divertito, così come si era divertito nel 1985 quando un altro concorso fra romanzi, promosso da «Tuttolibri», lo aveva buttato nella sua mischia. Levi si sarebbe divertito anche qui, perché è uno scrittore agonistico: un uomo di sfide con se stesso, con la materia, con ogni cosa che sia bella e difficile. È uno scrittore al quale piace giocare e sperimentare. Magari nel concorso di «Robinson» non ci sarebbe entrato di sua sponte, ma non gli sarebbe dispiaciuto vedersi coinvolto. Ci avrebbe incontrato molte persone da ascoltare e con cui parlare. Ci avrebbe trovato ancora una volta un pubblico nuovo. Avrebbe chiesto a quei lettori, guardandoli con occhi vispi: «Siete proprio sicuri che Se questo è un uomo è un romanzo?».


Commenti

Silvana Calvo 05/08/2020 - 14:18
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La rilevazione di Tutto Libri del 1985, cercava "Lo scrittore contemporaneo più amato". La scelta non era limitata, ognuno poteva votare per l'autore preferito. Anche allora, con una concorrenza molto grande, Primo Levi ha prevalso tutti. Per me è un bel ricordo perché, nel mio piccolo, vi ho contribuito anch'io. D'altronde P. Levi non è uno scrittore che si ama e basta, è uno scrittore che se lo leggi, entra nella tua vita e tutto non è più come prima.

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