Tre sillabe: Pan Rova

Che c’entrano le tre sillabe «Pan Rova» con la traduzione in tedesco di Se questo è un uomo? E con Cipollino di Gianni Rodari? Questa storia comincia in Germania cento anni fa… o forse in Italia.

di Martina Mengoni

 

Questa è la storia di tre sillabe, Pan Rova. Tre sillabe che a chi legge diranno poco, anzi nulla. Se provate a lanciarle su Google, così, da sole, perdete subito le speranze. Perché Pan Rova (o Rova Pan?) è uno pseudonimo, uno strano nom de plume, di quelli difficili da scovare; e non è di uno scrittore bensì di un traduttore. Per raccontare la sua storia si può cominciare dall’Italia o dalla Germania, a seconda di quanto si vuole andare indietro nel tempo.

Da Ettal, in Baviera, proviene Oskar, il padre del nostro protagonista; quando nasce il suo primo e unico figlio, Oskar è un diplomatico in forza alla neonata Repubblica di Weimar, e in capo a due anni sarà trasferito a Napoli e a Palermo. La moglie Else è discendente di una vecchia famiglia nobile della Lorena. Quando Oskar, Else e il piccolo di due anni arrivano in Italia siamo nel 1921, esattamente cento anni fa.

Il bambino, all’anagrafe Heinz Riedt, cresce perfettamente trilingue: in casa parla tedesco, a scuola e con gli amici parla italiano, il francese è la lingua della famiglia della madre. Trascorre dieci anni tra le due città borboniche, si appassiona alla lettura e al pianoforte.

 

Poi la famiglia torna in Germania. Non sappiamo con esattezza che cosa sia successo: Heinz dirà che il padre, convinto antinazista, era stato congedato ante tempo e degradato, anche se la cronologia non coincide. In ogni caso, la famiglia Riedt rientra in Baviera, dove il figlio adolescente frequenta il ginnasio dai Benedettini e si diploma. Nell’anno del ventesimo compleanno di Heinz, Hitler invade la Polonia. Il giovane si trova costretto ad arruolarsi nella Wehrmacht. Descriverà questo frangente cinquant’anni dopo, in un curriculum accademico, passando bruscamente dalla terza alla prima persona:

«Chiamata alle armi all’inizio della guerra, però mai mandato al fronte. Ma per un certo periodo (data la perfetta conoscenza del francese; la maggior parte dei miei parenti sono francesi) anche presso un campo di ufficiali tedeschi prigionieri di guerra nei pressi di Norimberga (lo stesso campo, dal quale, a suo tempo era fuggito De Gaulle), dove clandestinamente feci il tutto possibile onde aiutare in qualche modo questi prigionieri».

 

 Nel campo di prigionia vicino a Norimberga, Heinz Riedt si cimenta per la prima volta in qualche cosa di simile a una traduzione: insegna, fa l’interprete, forse traduce documenti. Lo fa, come prima esperienza, in un contesto di guerra, tra le fila della Wehrmacht. Nel 1942 gli viene proposto di lavorare per la Deutsche Waffenstillstandskommission (Commissione tedesca per l’armistizio), che rimase in piedi dal 1940 al 1944 a Wiesbaden. «Era qualcosa che non potevo fare. Era come negare ciò che io stesso ero. Lo dissi al mio medico militare, il quale riuscì ad attaccarmi una malattia» dirà ripensando a quegli anni. Con l’aiuto di un ignoto medico connivente, Riedt riesce a farsi congedare per malattia, e torna in Baviera, ma solo per poco, perché a questo punto, nell’autunno del 1942, la nostra storia si sposta di nuovo in Italia.  

 

Ancora prima della guerra, Riedt aveva fatto domanda per una borsa della «Akademischer Austauschdienst», tutt’ora identificata come DAAD: un fondo per i soggiorni di scambio accademico internazionale che esiste in Germania dal 1925. Grazie a questo finanziamento, che ottiene, Riedt riesce a trasferirsi a Padova, e si iscrive alla Facoltà di Scienze politiche: ma in realtà frequenta soprattutto corsi di letteratura e storia dell’arte (Concetto Marchesi, Giuseppe Fiocco, Manara Valgimigli), e soprattutto stringe amicizia con Otello Pighin, che presto lo convince a entrare in Giustizia e Libertà e a prendere parte alla sua brigata partigiana, la «Silvio Trentin». Il giovane studente potrà essere utile alla Resistenza per quello che sa fare meglio: traghettare le parole e le informazioni da una lingua all’altra, da un posto all’altro. Sfruttando la sua nazionalità e i suoi trascorsi con la Wehrmacht, si fa assoldare dal commando SS di Padova come traduttore e interprete, e presso questo commando inizia una vera e propria attività di controspionaggio. Scriverà Francalanza, capo della Brigata dopo la prematura morte di Pighin, che il compagno Riedt «riuscì a svolgervi la sua missione mostrandosi abilissimo e coraggioso nella sua attività di spionaggio e controspionaggio in seno alle S.S.». Riedt in effetti vive quei mesi diviso in due: «mi conoscevano solo col mio nome di partigiano. Nella vita normale apparivo un tranquillo studente. Solo Pighin conosceva la mia doppia identità».

Sappiamo poco dei primi anni del dopoguerra: un indirizzo sul retro della tessera ANPI del 1949 (Heinz Riedt, PATRIOTA) ci porta a Venezia, a Cannaregio. Ma Riedt, decenni dopo, ammesso che la sua ricostruzione sia del tutto attendibile, ci dice che già nel 1950 è tornato in Germania, e si è stabilito, per la precisione, a Berlino est.  

 

Ci stiamo avvicinando alle nostre tre sillabe, ci siamo quasi. Ricapitoliamo: un giovane tedesco cosmopolita e poliglotta, educato con raffinatezza, che ha soggiornato quasi metà della sua vita in Italia, brillante negli studi, appassionato (non l’abbiamo ancora detto) di Goldoni, che ha combattuto prima con la Wehrmacht poi, per scelta, contro l’esercito del suo paese, «patriota» in terra italiana, arriva nella neonata DDR e deve trovare lavoro.

Riedt è una mente vivace e piena di interessi; nei primi anni cinquanta poi si sposa (con una traduttrice dal russo) e ha una bambina. Le sue attività si concentrano su tre filoni: il teatro (è lui a fare da intermediario tra Bertolt Brecht e il Piccolo di Milano a metà degli anni cinquanta), il cinema (traduce in tedesco pellicole del neorealismo italiano) e la traduzione vera e propria, grazie anche al sodalizio con Max Schroeder, capo di produzione alla Aufbau Verlag, l’editore più importante di Berlino est, uno dei riferimenti del programma di politica culturale della neonata Repubblica Democratica. Eppure Riedt fa molta fatica, almeno è questo che si percepisce dai suoi racconti, futuri (e dunque retrospettivi) ma anche da quelli in presa diretta. Lo scrive ad alcuni corrispondenti (Mazzino Montinari e Primo Levi) e lo racconta negli anni novanta a un giornalista de «La Stampa», Alberto Papuzzi. Non si è iscritto al partito («non posso vantare una nonna sovietica», scrive a Montinari), e pare che pesi anche il suo passato: ha pur sempre combattuto contro la patria, quella tedesca.

 

Sono questi gli anni in cui nasce PAN ROVA. Pan Rova è lo pseudonimo con cui Riedt firma tutte le traduzioni dal 1954 al 1959: la più famosa è Pinocchios Abenteuer (1954), con cui vincerà anche alcuni premi, ma anche e ancora Mystifikation (Mystification) di Denis Diderot, 1956; Die Nonne von Monza (La monaca di Monza) di Alessandro Manzoni, 1956. Tutte e tre sono per la Aufbau Verlag. E poi Zwiebelchen. Ein Roman (Il romanzo di Cipollino di Gianni Rodari, 1954, per l’editore di stato per ragazzi Kinderbuchverlag, Berlino Est), che sbarca contemporaneamente in URSS e in DDR; Die Mädchen von Sanfrediano (Le ragazze di San Frediano di Vasco Pratolini), Steinberg (Zürich), 1957; il best-seller di Marina Sereni alias Xenia Silberberg (e moglie di Emilio Sereni)  Tage unseres Lebens (I giorni della nostra vita), Tribüne Verlag (Berlino Est); e infine Feuer in der Ebene (Fuoco in pianura), il racconto resistenziale di Maurizio Milan, alias Isacco Nahoum, ex partigiano e poi dirigente del Partito Comunista, che Riedt – alias Pan Rova – tradusse per le edizioni del Ministero della Difesa della DDR (Verlag des Ministeriums für nationale Verteidigung).

Perché Heinz Riedt abbia deciso di firmare le sue traduzioni con uno pseudonimo è molto difficile a dirsi. Potrebbero entrarci le difficoltà politiche, ma l’ipotesi non è convincente. L’obiettivo era non esporre quel cognome, Riedt: se poi a volerlo fosse il suo proprietario, o fosse un desiderio degli editori (o entrambe) è difficile dirlo.

Pan Rova: è difficile anche provare a decifrare il groviglio di queste tre sillabe. Forse un gioco di parole su colui che “ruba il pane”, con un mix di lingue; o l’allusione, ma poco probabile, al traduttore cinquecentesco Mosè (Moses) Rova; o magari semplicemente PAN-ROVA, come gli estremi alfabetici di un volume di dizionario o di enciclopedia. Sono affezionata a quest’ultima ipotesi: contiene una buona dose di ironia (e autoironia), un tocco di surrealismo, e l’amore per i dizionari che Heinz Riedt condivise con un suo caro amico: Primo Levi.

 

Quando Riedt e Primo Levi si incontrano, nel 1959, seppure per via epistolare, sono entrambi a una svolta: Levi ha appena ripubblicato Se questo è un uomo per Einaudi, e ha saputo che la Fischer di Francoforte ha comprato i diritti per tradurlo in tedesco. È ansioso e teso di sapere chi e come lo riporterà nella lingua in cui i fatti si sono svolti. Riedt, che ha finora lavorato solo in Germania est, ha avuto per la prima volta un contratto con un editore della Bundesrepublik: proprio la Fischer, che lo vuole per tradurre il libro di memorie di un sopravvissuto di Auschwitz, un chimico italiano, che, gli hanno detto, vuole essere informato per filo e per segno su tutte le fasi dell’operazione. Proprio in quei mesi, Riedt sta lavorando a una nuova impresa per la Aufbau, più grande di tutte le precedenti: tradurre sei commedie di Goldoni, il «suo» autore, quello a cui si è più dedicato da studioso. È la prima edizione che firmerà con il suo vero nome. La storia è nota (e raccontata altrove): i due iniziano a scriversi, si scambiano lettere bellissime in cui commentano insieme quasi ogni singola parola di Se questo è un uomo, nell’atto della sua trasformazione in Ist das ein Mensch?. Diventano amici, lo restano per sempre.

 

Pan-Rova; oppure Rova Pan. Chissà se ne sapremo di più. E chissà se Heinz Riedt avrà rivelato all’amico torinese, per lettera o di persona, la storia di queste tre sillabe. A Primo Levi sarebbe piaciuta: lui che a sua volta aveva vestito i panni, magari controvoglia, di un alter ego letterario. Lui che sugli scontri linguistici, sulle traduzioni in contesti impossibili, sugli ibridi verbali aveva ragionato da sempre. Lui che inventava in continuazione giochi di parole, rebus, palindromi, e che con le sillabe scomposte, spezzettate e ricombinate insieme si era sempre molto divertito.

 

*Una versione estesa e analitica di questo saggio sulle vicende di Heinz Riedt partigiano e traduttore uscirà per il volume M. Carrattieri, I. Meloni (a cura di), Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella Resistenza italiana, Piacenza, Le Piccole Pagine, 2021.

 

Nota bibliografica

Dello pseudonimo Pan Rova danno notizia la Deutsche Biographische Enzyklopädie, curata da Walther Killy e Rudolf Vierhaus, München, De Gruyter Saur, 2005, 13 voll., vol. 8, p. 397 e Gina Weinkauff, Tante storie per giocare. Gianni Rodari im deutschen Sprachraum, «Jahrbuch für Internationale Germanistik», 2/2008, pp. 105-138. Nei cataloghi bibliografici germanofoni lo pseudonimo è riconosciuto. Il «curriculum accademico» da cui è presa la dichiarazione di Heinz Riedt si trova nel Fondo archivistico «Ruzante sulla scena del Novecento», Biblioteca Beato Pellegrino dell’Università di Padova, Scatola miscellanea 4, M-1, Fasc. «Heinz Riedt 1947-1983», Curriculum HEINZ RIEDT, 3 ff. num. ds., f. 1. Anche il documento firmato da Sergio Francalanza e la tessera ANPI di Heinz Riedt si trovano in questo stesso fascicolo. Le altre dichiarazioni di Riedt vengono da: Alberto Papuzzi, «Lei è un traditore», in Papuzzi, Il mondo contro, Torino, Editrice La Stampa, 1996, pp. 99-110. Una versione ridotta dell’intervista era uscita un anno prima su «La Stampa», con il titolo Se questo è un tedesco, 14 aprile 1995. La lettera a Mazzino Montinari si trova citata in Giuliano Campioni, Da Lucca a Weimar: Mazzino Montinari e Nietzsche, in Mario Mirri, Renzo Sabbatini, Luigi Imbasciati (a cura di), L’impegno di una generazione. Il gruppo di Lucca dal Liceo Machiavelli alla Normale nel clima del Dopoguerra, Milano, FrancoAngeli, 2014, pp. 151-165, a p. 165. Sui rapporti tra Heinz Riedt e il Teatro Piccolo di Milano ha scritto Massimo Bucciantini, Un Galileo a Milano, Torino, Einaudi, 2017, p. 252. Il carteggio tra Heinz Riedt e Primo Levi è ancora inedito: stralci di lettere si trovano soprattutto in Marco Belpoliti, Note ai testi, in P. Levi, Opere complete (a cura di M. Belpoliti), 2 voll., Torino, Einaudi, 2016: Domenico Scarpa, Ann Goldstein, In un’altra lingua – In Another Language, Torino, Einaudi, Lezioni Primo Levi 6, 2016; Martina Mengoni, Primo Levi e i tedeschi – Primo Levi and the Germans, Torino, Einaudi, Lezioni Primo Levi 8, 2017; Martina Mengoni, I sommersi e i salvati di Primo Levi. Storia di un libro (Francoforte 1959 – Torino 1986), Macerata, Quodlibet, 2021. Primo Levi racconta il suo incontro epistolare con Heinz Riedt nell’ultimo capitolo dei Sommersi e i salvati, intitolato Lettere di tedeschi.


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