Analisi della poesia "Il superstite"
Proponiamo il contributo del professor Dennis Borin, docente di Lettere presso l'istituto Tecnico Commerciale Lorgna-Pindemonte di Verona. Il testo è stato pubblicato per la prima volta, in occasione della Giornata della Memoria 2021, all'interno della rubrica "Liriche per un anno" ospitata sul sito della scuola.
Il superstite
Since then, at an uncertain hour,
Dopo di allora, ad ora incerta,
Quella pena ritorna,
E se non trova chi lo ascolti
Gli brucia in petto il cuore.
Rivede i visi dei suoi compagni
Lividi nella prima luce,
Grigi di polvere di cemento,
Indistinti per nebbia,
Tinti di morte nei sonni inquieti:
A notte menano le mascelle
Sotto la mora greve dei sogni
Masticando una rapa che non c’è.
“Indietro, via di qui, gente sommersa,
Andate. Non ho soppiantato nessuno,
Non ho usurpato il pane di nessuno,
Nessuno è morto in vece mia. Nessuno.
Ritornate alla vostra nebbia.
Non è mia colpa se vivo e respiro
E mangio e bevo e dormo e vesto panni".
4 febbraio 1984
P. Levi, Ad Ora incerta, 1984
Primo Levi, avvicinatosi ai gruppi partigiani, viene arrestato nel dicembre del ‘43 e imprigionato nel campo di Fossoli; identificato come ebreo, viene deportato ad Auschwitz. Da questa esperienza traumatica e crudele nasce la sua attività letteraria. Tornato in Italia, negli intervalli della sua attività di chimico, scrive Se questo è un uomo, un libro dal successo inizialmente lento, ma negli anni inarrestabile, e successivamente altre opere variamente dedicate al tema centrale della prigionia, le più note delle quali sono La tregua e I sommersi e i salvati. La sua attività di poeta è senza dubbio meno nota, tuttavia ebbe una parte non propriamente trascurabile nella vita di Levi, che nonostante le lunghe pause, pubblicò poesie lungo tutto l’arco della sua vita. Il testo che qui si propone s’intitola Il superstite ed è stato pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 1984.
Nel componimento appaiono condensati in forma poetica i principali temi dell’opera leviana: il dolore incancellabile per l’offesa ricevuta, il senso di colpa del sopravvissuto, che immancabilmente porta con sé un’insopprimibile richiesta di indulgenza, e il dovere della testimonianza.
La poesia è divisa in tre parti: nella prima l’autore annuncia una pena, che, come sempre senza preavviso, ad ora incerta, torna da molto tempo a fargli visita; nella seconda viene chiarita la natura di questo dolore: il ricordo dei compagni non sopravvissuti all’inferno del lager; la terza è una disperata richiesta, rivolta ai fantasmi dei compagni morti, che l’autore vorrebbe allontanare, e nei confronti dei quali egli nutre un intimo senso di colpa.
La poesia, dalla sintassi piana, priva di rime, è intessuta di significative citazioni. La prima, Since then, at an uncertain hour, è tratta dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge; è una citazione molto importante, non solo perché riportata letteralmente in incipit, ma anche perché è usata come titolo dell’intera raccolta poetica: la pregnanza di significato è evidente, non solo per l’insopprimibile senso di colpa a cui fa riferimento il testo, ma soprattutto perché rimanda al dolore incancellabile dell’esperienza dell’abuso e della violenza con cui tutti i reduci dell’universo concentrazionario dovettero fare i conti per il resto della loro vita. La seconda citazione, “sotto la mora greve dei sogni”, rimanda a un luogo dantesco, Purgatorio III, v. 129. La terza, “sommersi”, è naturalmente un’autocitazione tratta da un capitolo di Se questo è un uomo, che successivamente servirà da titolo all’omonimo saggio I sommersi e i salvati, pubblicato da Einaudi nel 1986. La quarta, “nebbia”, non può che far pensare a Notte e nebbia, del francese Alain Resnais, primo grande documentario sulla Shoah, che a sua volta deve il titolo ad un ordine di sterminio di Hitler del dicembre 1941, diventato purtroppo tristemente famoso. La quinta citazione, “E mangio e bevo e dormo e vesto panni”, riprende un altro luogo dantesco, il verso 141 di Inferno XXXIII, significativamente il canto dei traditori, le cui anime costrette al gelo hanno la particolarità di essere condannate all’inferno prima della morte del corpo; un destino simile a quello dei deportati nei campi di sterminio, privati dalla folle logica nazista della loro umanità prima della morte.
Tutte le citazioni sono importanti, ma quella che più ci sembra significativa per la comprensione di questo specifico componimento è quella tratta dal III canto del Purgatorio. Come è noto in questo canto Dante incontra Manfredi, morto nel 1266 nel corso della battaglia di Benevento. Nella breve presentazione, l’imperatore racconta di aver commesso molti peccati e di essersene pentito in punto di morte. La giustizia della Chiesa di allora, politicamente in contrasto con il sogno imperiale degli svevi, forte di una sentenza di scomunica, dà ordine al vescovo di Cosenza di disseppellire dal luogo di battaglia i resti dell’imperatore, sepolti “sotto la guardia de la grave mora”, in pratica sotto un cumulo di pietre, e di farli trasportare nottetempo, a ceri spenti e capovolti, con modalità riservate agli scomunicati e agli eretici, al di là dei confini dello Stato Pontificio, per poi disperderli senza sepoltura.
L’allusione di Levi è rapida come una pennellata: scrive “Sotto la mora greve dei sogni”, mentre Dante scrive “Sotto la guardia de la grave mora”, entrambi i versi rimandano ad un significato desueto del termine “mora”, inteso come sinonimo di pietra. Ma questo basta a rileggere il testo leviano alla luce del canto III del Purgatorio: un testo che parla di giustizia, di misericordia e, come l’intera cantica di cui fa parte, di preghiera, che per il non credente Levi coincide con il ricordo.
La giustizia della Chiesa del XIII secolo scomunica, bandisce letteralmente dalla comunità i cosiddetti eretici e addirittura non ha pietà per le loro spoglie, ma Dante ci ricorda che al di sopra di tutto vi è la misericordia di Dio, che accoglie chiunque ad essa si rivolga.
Per Levi la misericordia di Dio corrisponde al proprio giudizio interiore e a quello degli altri uomini che come lui si sentono parte del consorzio civile; è ad essi, e in primo luogo a sé stesso, che l’autore si rivolge quando scrive ripetutamente non ho soppiantato nessuno [...] nessuno è morto in vece mia; e come Manfredi chiede a Dante di raccomandare ai vivi le preghiere per le anime del Purgatorio, ché qui per quei di là molto s’avanza, così ci piace ricordare Primo Levi, raccomandare a noi lettori una preghiera, rigorosamente laica, per ricordare i sommersi dell’universo concentrazionario, i “testimoni integrali”, coloro che, per sfortuna, ingenuità o per la loro intrinseca incapacità di sopravvivere alle regole infernali di Auschwitz, non poterono far ritorno.