Se questo è un uomo - edizione 1947

Copertina di "Se questo è un uomo", edizione 1947
Autore
Primo Levi
Editore
De Silva
Collana
Biblioteca Leone Ginzburg
Anno di pubblicazione
1947

Opera di esordio per Primo Levi, Se questo è un uomo esce per la prima volta nell’autunno 1947 presso l’editore torinese De Silva. La scrittura del libro nella sua prima versione, l’approdo alla pubblicazione e l’accoglienza dei lettori tracciano un percorso accidentato, folto di sorprese. Lo si ricostruisce qui di seguito con il corredo di immagini e testi rari.

1. Il libro «primogenito»

Se questo è un uomo è il primo libro di Primo Levi, che lo scrive dopo essere sopravvissuto a undici mesi di prigionia nel Lager di sterminio di Auschwitz. In alcune conversazioni l’autore lo definisce il suo libro «primogenito»1Mladen Machiedo, Riječ će preživjeti. Razgovor s Primom Levijem [La parola sopravvivrà. Conversazione con Primo Levi], «Republika [Zagabria]», 1, gennaio 1969, pp. 47-48. La conversazione, che ebbe luogo a Torino il 28 ottobre 1968, è ora raccolta in Primo Levi, Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, vol. III, Conversazioni, interviste, dichiarazioni, Einaudi, Torino 2018, pp. 30-34, a p. 32. Si veda inoltre Carlo Paladini, A colloquio con Primo Levi (Pesaro, 5 maggio 1986), Lavoro, alienazione, criminalità mentale. Ricerche sulle Marche tra Otto e Novecento, a cura di Paolo Sorcinelli, il lavoro editoriale, Ancona, novembre 1987 («Quaderni Iders», n. 6), pp. 147-59; ora in Levi, Opere complete cit., vol. III cit., pp. 667-81, a p. 668. .

L’opera viene pubblicata nell’autunno del 1947. In questa versione originaria il racconto comincia nel campo d’internamento per ebrei di Fossoli, presso Carpi (siamo nel febbraio 1944), e termina con la liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico, il 27 gennaio 1945. Auschwitz è in Alta Slesia, nel territorio polacco occupato dall’esercito nazista; Levi trascorre la prigionia in Auschwitz III-Monowitz, uno dei quarantaquattro campi satelliti, denominato Buna, che in tedesco vuol dire gomma sintetica. La Buna, che conta circa diecimila prigionieri, deve il nome appunto a una fabbrica di gomma sintetica alla cui costruzione lavorano in condizione di schiavitù i deportati, ma che non entrerà mai in funzione.

Levi riesce a sopravvivere al Lager grazie al cibo supplementare procuratogli segretamente da un operaio italiano, Lorenzo, e grazie al fatto che, come laureato in chimica, viene “assunto” nel laboratorio della Buna dopo uno sconcertante esame che figura tra i vertici del suo racconto; può così trascorrere gli ultimi mesi di prigionia al riparo dal gelo e dai lavori pesanti. Alla metà del gennaio 1945 ha la fortuna di ammalarsi di scarlattina: il ricovero nell’infermeria del campo gli risparmia la marcia di evacuazione verso l’interno della Germania – imposta dai tedeschi ormai incalzati dall’Armata Rossa –, nella quale muoiono i quattro quinti dei prigionieri coinvolti.

2. Un libro «scritto subito»

«Se questo è un uomo è un libro scritto subito»2Incontro con Primo Levi, Leo Club, Cuneo, settembre 1975, in Levi, Opere complete cit., vol. III cit., pp. 64-77, a p. 68. . Primo Levi pronuncia questa frase a Cuneo nel settembre 1975, durante un incontro con i suoi lettori, ed è un’affermazione che va interpretata. Come s’è detto, la versione originaria della sua opera prima esce nell’autunno 1947: quasi tre anni dopo la liberazione di Auschwitz, e quando in Italia sono già apparse decine di testimonianze sui Lager nazisti; la maggioranza di esse, tuttavia, riguarda prigionieri politici, mentre le opere di ex deportati ebrei sono appena sette3Anna Baldini, La memoria italiana della Shoah (1944-2009), in Atlante della letteratura italiana, diretto da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp. 758-63. . Tra esse, Se questo è un uomo è l’ultima a essere pubblicata, prima che sopravvengano – non solo in Italia – anni di prevalente silenzio sullo sterminio degli ebrei.

Dal capitolo «Die drei Leute vom Labor» sappiamo che Levi aveva scarabocchiato già nel laboratorio della Buna alcuni brevi appunti, così come sappiamo che dovette distruggerli perché se glieli avessero trovati indosso lo avrebbero passato per le armi all’istante. Volle comunque fissarli sulla carta per assicurarsi due beni laggiù rari, la solitudine e il pensiero: rari, e fonte di più acuta sofferenza:

la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di risentirsi uomo, che mi assalta come un cane all’istante in cui la coscienza esce dal buio. Allora prendo la matita e il quaderno, e scrivo quello che non saprei dire a nessuno4Primo Levi, Se questo è un uomo, versione 1947, in Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, vol. I, Einaudi, Torino 2016, p. 108. .

Dunque, Levi provò a scrivere già in Auschwitz; ma, per quanto se ne sappia, non lo fece nei mesi immediatamente successivi alla sua liberazione. La «tregua» che dà il titolo al suo secondo libro è un avventuroso periodo mediano: durante quella peregrinazione attraverso l’Europa, che si protrae per oltre otto mesi, i suoi compagni di viaggio sono combattenti, reduci oppure vittime come lui; fanno parte della stessa storia, della stessa geografia nella quale il Lager è inscritto. Sono persone con cui ci si scambiano racconti lungo il cammino, e farlo è consolante; ma non sono un pubblico. La testimonianza – anzi, «la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo»5Ivi, p. 36. : così, con sacrale solennità suona il finale del capitolo «Ka-Be» – è necessario portarla a tutti gli altri: ai lontani, a chi non è stato lì e a chi ancora non sa, a chi preferirebbe non sapere mai, agli indifferenti, ai renitenti, agli increduli, agli stessi aguzzini e ai loro sostenitori diretti e indiretti. Questo è il pubblico che Levi cercava allora e che cercherà poi sempre.

L’astensione dalla scrittura prima del ritorno in Italia ha una notevole eccezione. A Katowice, nella primavera 1945, una commissione del governo sovietico interpella circa tremila ex-deportati di varie nazionalità, chiedendogli di documentare la loro esperienza nel Lager di Oświęcim (l’originario nome polacco di Auschwitz). È appunto quella precoce inchiesta a delineare, in modo ancora sommario ma con sufficiente attendibilità, il ruolo-chiave di Auschwitz nella “soluzione finale”: ne emergono la struttura e il funzionamento dell’industria di morte e il numero delle sue vittime. Tra gli estensori delle testimonianze, due ebrei torinesi: un medico di 47 anni, Leonardo De Benedetti, e un chimico di 25, Primo Levi. Il loro Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del Campo di concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz - Alta Slesia) è con tutta probabilità, a livello europeo, la prima testimonianza di carattere scientifico su un campo di sterminio.

È verosimile che il Rapporto abbia avuto una prima redazione – più breve, e forse scritta in francese – che un giorno potrà essere ritrovata in un qualche archivio della ex Unione Sovietica. Il testo che oggi conosciamo è invece una versione concepita per un pubblico, quello italiano, che sui Lager non sa quasi nulla; Levi e De Benedetti la pubblicano il 24 novembre 1946 nella prestigiosa rivista «Minerva Medica», stampata a Torino. Recuperato da Alberto Cavaglion dopo decenni di oblio6 Alberto Cavaglion, «Leonardo ed io, in un silenzio gremito di memoria». Sopra una fonte dimenticata di «Se questo è un uomo», intervento al Convegno Primo Levi: memoria e invenzione, San Salvatore Monferrato, 26-27-28 settembre 1991; ora nel volume dallo stesso titolo, a cura di Giovanna Ioli, Edizioni della Biennale «Piemonte e Letteratura», San Salvatore Monferrato 1995, pp. 64-68. , ha avuto in seguito un’edizione filologica7Matteo Fadini, Su un avantesto di «Se questo è un uomo» (con una nuova edizione del «Rapporto» sul Lager di Monowitz del 1946), «Filologia Italiana», 5, 2008 [ma 2009], pp. 222‑35.    e una nuova edizione commentata8 Primo Levi (con Leonardo De Benedetti), Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2015, pp. 3-30 (testo), 145-58 e 205-8 (commento e nota al testo).   , prima di essere incluso nelle Opere complete9Levi, Opere complete cit., vol. I cit., pp. 1177-94. .

Il Rapporto è un testo militante, commissionato e scritto a guerra ancora in corso, o appena conclusa: un testo da leggere e studiare a sé, e non come un primo abbozzo di Se questo è un uomo. Stupisce, nelle sue pagine, la capacità di raccogliere, memorizzare e organizzare informazioni di capillare complessità, antropologica non meno che clinica, politica non meno che scientifica. Gli autori De Benedetti e Levi sono due prigionieri collocati in basso, al livello del suolo: stupisce, in loro, la capacità di sconfiggere l’ignoranza dello spazio e del tempo che in Lager veniva inflitta prima di ogni altra umiliazione.

Il Rapporto, dunque, è stato realmente «scritto subito», ma l’affermazione resta veritiera anche per Se questo è un uomo. Nel 1974, durante una trasmissione televisiva, Levi risponderà così a una domanda sulla nascita del suo primo libro «come struttura»:

Non è nato, è venuto fuori da una serie di racconti. È nato a rovescio, e forse si vede. Ho scritto per primo l’ultimo capitolo perché era il più urgente, il più fresco nella memoria, ma non avevo l’intenzione di scrivere un libro, pensavo di mettere giù degli appunti per raccontare a più gente, non avevo il piano di scrivere un libro. Il piano è nato poco per volta quando mi sono accorto che questi episodi erano un racconto, che si potevano disporre cronologicamente, che erano insomma una cronologia10Il mestiere di raccontare, trasmissione Rai a cura di Anna Amendola e Giovanni Belardelli, 20 maggio 1974; è la prima di tre puntate dedicate a Levi. Si ringrazia l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, Torino. .

 

3. Luoghi, date, generi

Solo nella seconda e definitiva edizione 1958 di Se questo è un uomo il libro si chiude indicando luoghi e date di stesura: «Avigliana-Torino, dicembre 1945 - gennaio 1947». Ad Avigliana sorge lo stabilimento della Montecatini-Duco dove Levi è assunto come chimico il 21 gennaio 1946. È il suo primo impiego fisso dopo il ritorno in Italia; da quel momento in poi lavoro e scrittura si sovrappongono, come si legge in «Cromo», dodicesimo racconto nel Sistema periodico:

Mi era stata benignamente concessa una scrivania zoppa in laboratorio, in un cantuccio pieno di fracasso e di correnti d’aria e di gente che andava e veniva con in mano stracci e bidoni, e non mi era stato assegnato alcun compito definito; io, vacante come chimico ed in stato di piena alienazione (ma allora non si chiamava così), scrivevo disordinatamente pagine su pagine dei ricordi che mi avvelenavano, ed i colleghi mi guardavano di sottecchi come uno squilibrato innocuo. Il libro mi cresceva tra le mani quasi spontaneamente, senza piano né sistema, intricato e gremito come un termitaio11Levi, Opere complete cit., vol. I cit., p. 971. .

Ci furono dunque settimane e settimane di appunti in disordine imposti dall’urgenza del ricordo, prima che una struttura cominciasse a delinearsi. La data «dicembre 1945» allude alla prima fase di questo febbrile inseguimento dei fatti.

I dattiloscritti delle prime stesure del capitolo finale, «Storia di dieci giorni», sono datati febbraio 1946. Il capitolo più antico cui Levi arriva a dare un ordine è quello con la struttura più semplice: un diario. L’architettura dell’opera e la cronologia dei fatti narrati prenderanno forma a partire da quel nucleo. Nella sua versione definitiva (e questo discorso vale per ambedue le edizioni dell’opera, 1947 e 1958) Se questo è un uomo fonde perfettamente la linea cronologica degli episodi raccontati con la progressione tematica nella scoperta del Lager da parte del testimone-narratore. Ogni nuovo argomento affrontato nei singoli capitoli – il viaggio, l’ingresso in Auschwitz, l’infermeria, il sonno e i sogni, il lavoro forzato, le selezioni per la camera a gas – corrisponde a un calcolato passo avanti sul calendario, lungo l’arco dei mesi e delle stagioni. Diario e racconto si amalgamano senza fare grumo; lo stesso vale per la descrizione dei fatti e la riflessione sui fatti stessi.

Oggi si conoscono le date di stesura di alcuni capitoli del libro (o almeno, dei loro primi abbozzi) grazie a un dattiloscritto che Levi spedì a sua cugina Anna Foa sposata Yona, che viveva nel Massachusetts, nella speranza di trovare tramite lei un editore negli Stati Uniti: prima ancora, quindi, che l’opera apparisse in lingua originale. Ecco le informazioni che possediamo: «Il canto di Ulisse»15Samuel-Dreyfus, Il m’appelait Pikolo cit., pp. 95-97.   , 14 febbraio 1946; «Kraus», 25 febbraio; «Esame di chimica», marzo; «Ottobre 1944», 5-8 aprile; «Ka-Be», 15-20 giugno12 Marco Belpoliti, Note ai testi, in Levi, Opere complete cit., vol. I cit., pp. 1455-56.   .

Quando scrive il celebre capitolo «Il canto di Ulisse»15Samuel-Dreyfus, Il m’appelait Pikolo cit., pp. 95-97.   Levi ancora non sa che il suo amico Jean Samuel, in Lager soprannominato «Pikolo» si è salvato dalla marcia di evacuazione che ha coinvolto tutti i prigionieri sani nella notte tra il 17 e il 18 gennaio 1945. Jean è stato rintracciato da un altro compagno di Lager, Charles Conreau, che è riuscito a tornare a casa prima di Levi, e che gli ha spedito una lettera dalla Francia. Al suo rientro a Torino (19 ottobre 1945), Levi trova ad attenderlo la lettera di Charles. Risponde subito, chiedendogli fra le altre cose di cercare Jean Samuel a Strasburgo. Charles ci riuscirà all’inizio del marzo 1946, e comunica a Samuel l’indirizzo torinese di Levi. Jean scrive a Levi il 13 marzo, Primo gli risponde il 23 con una lunga lettera: tra le molte cose che gli racconta ne interessa qui una in particolare: «J’écris: des poésies, des essais, même des contes rapport à la vie du Lager13Jean Samuel avec Jean-Marc Dreyfus, Il m’appelait Pikolo. Un compagnon de Primo Levi raconte, Laffont, Paris 2007, p. 87.   ». Ancora in «Cromo» Levi dirà che in quei primi mesi dopo il ritorno va scrivendo «poesie concise e sanguinose14 Levi, Opere complete cit., vol. I cit., p. 971.   ». Il fatto che in questa lettera – contemporanea alla stesura del suo libro «primogenito» – egli distingua “saggi” da “racconti” (e che mostri di ritenere particolarmente audace il gesto di scrivere dei racconti su Auschwitz) significa che a seconda dei casi egli attribuisce un prevalente carattere narrativo, o viceversa di non-fiction, ai testi che via via elabora; tra i più saggistici rientrano di sicuro «Al di qua del bene e del male» e «I sommersi e i salvati».In quella prima lettera del 23 marzo Primo confida a Jean che in uno dei racconti che ha scritto si parla proprio di lui: «Tu trouveras ça bizarre». Più tardi, il 24 maggio, Levi gli spedirà una stesura non definitiva, in italiano, di «Il canto di Ulisse»15Samuel-Dreyfus, Il m’appelait Pikolo cit., pp. 95-97.   . Ma qui va citata una sua lettera precedente, datata 6 aprile 194616 Ivi, p. 87.   , nella quale offre una definizione strana e straordinaria dei testi che va producendo per Se questo è un uomo: «machins» cioè, in francese, «aggeggi, cosi… Certamente, Levi lo diceva per modestia. Ma forse lo diceva anche per un’altra ragione. Forse lo scrittore intuiva, lucidamente, che i suoi diversi modi di declinare l’esperienza del Lager, coevi e contestuali, sfuggivano alla tipologia dei generi letterari tradizionali: sommandosi, avevano la qualità anfibia e ineffabile delle opere che fanno genere a sé»17Sergio Luzzatto, Lettere a Pikolo («Corriere della Sera», 18 gennaio 2008), in Id., I popoli felici non hanno storia, manifestolibri, Roma 2009, pp. 253-55. .

 

4. Rifiuti e anticipazioni editoriali

Al principio del 1947 Se questo è un uomo è pronto. Levi ha raccontato, senza offrire molti dettagli, di averlo presentato a due o forse tre editori, vedendoselo respingere. Il solo di cui si abbia notizia sicura è il torinese Einaudi. Leggono il manoscritto due editor che sono anche scrittori in proprio, Cesare Pavese e Natalia Ginzburg. Quest’ultima, nata Levi ma solo omonima di Primo, è di origine ebraica; tre anni prima ha perso suo marito Leone Ginzburg, che nel 1933 aveva fondato con Giulio Einaudi la casa editrice omonima. Leone Ginzburg era un celebre slavista, scrittore di storia e cospiratore antifascista; era fra i massimi dirigenti di Giustizia e Libertà, il movimento in cui Levi aveva militato durante la sua breve esperienza partigiana. Ginzburg muore il 5 febbraio 1944 nelle carceri di Roma, in seguito alle torture dei carcerieri nazisti.

Il rifiuto di Se questo è un uomo da parte di Einaudi – un editore che in linea di principio avrebbe dovuto trovarsi in solidale sintonia con Levi, e che aveva i numeri per intuire con prontezza il valore estetico dell’opera – ha suscitato scandalo, non solo in Italia. Dopo la morte di Levi la Ginzburg ammetterà di aver commesso, quarant’anni prima, una sciocchezza18Alle disavventure di Levi con la casa editrice Einaudi si accenna per la prima volta in H. Stuart Hughes, Prigionieri della speranza. Alla ricerca dell’identità ebraica nella letteratura italiana contemporanea (Prisoners of Hope: The Silver Age of Italian Jews 1924-1974, 1983), trad. it. di Valeria Lalli, il Mulino, Bologna 1983, pp. 90-91, e poi in un breve colloquio di Levi con Nico Orengo: Come ho pubblicato il mio primo libro, «Tuttolibri. Settimanale di attualità culturale letteratura arte scienza spettacolo», XI, 456, 1° giugno 1985, p. 1. Benché in queste prime due pubblicazioni i nomi di Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese appaiano in chiaro, la polemica sul rifiuto di Se questo è un uomo scoppierà più tardi, innescata dalla comparsa di una serie di colloqui tra Levi e Ferdinando Camon. Le conversazioni ebbero luogo tra la primavera 1982 e il maggio 1986; il testo integrale fu stampato per la prima volta poche settimane dopo la morte di Levi, con il titolo Autoritratto di Primo Levi («Nord-Est», collana-rivista, n. 2, Padova 1987); fu poi riproposto sotto il nome autoriale di Camon e come Conversazione con Primo Levi, un volume che a partire dal 1991 ha avuto più edizioni presso Guanda, Parma e Milano; ora è incluso in Opere complete cit., vol. III cit., pp. 830-59. In uno dei loro incontri Levi aveva chiesto a Camon di spegnere il registratore prima di nominare la persona responsabile del rifiuto di Se questo è un uomo: si vedano, in particolare, la p. 58 in Autoritratto e la p. 851 in Opere complete, vol. III. Per la polemica che ne seguì si leggano: Riccardo Chiaberge, Chi è l’ebreo che bocciò Primo Levi?, «Corriere della Sera», 11 giugno 1987, p. 5; Nico Orengo, Natalia Ginzburg: nessuno «censurò» Primo Levi, «La Stampa», 12 giugno 1987, p. 3; Ferdinando Camon, Ma la colpa non è di Pavese, «Corriere della Sera», 14 giugno 1987, p. 5; Anonimo, Ammetto, ero un po’ sciocca, «Panorama», XXV, 1106, 28 giugno 1987, p. 133, con brevi testimonianze di Natalia Ginzburg e Giulio Einaudi. . Tuttavia, di là dall’indubbio errore di valutazione, questo episodio andrà ricollocato nell’orizzonte storico-editoriale che gli è proprio: nel 1947 la guerra era finita ormai da due anni, e i libri di memorie che ne rievocavano gli orrori sembravano aver saturato il mercato, benché solo raramente vi si parlasse della deportazione di ebrei. In particolare, casa Einaudi mirava a pubblicare libri che guardassero al futuro di un paese da ricostruire: a prima vista, quello di Levi non appariva tale. Anche la sua impostazione di stile si discostava dal clima letterario di allora. Gli scrittori cosiddetti neorealisti si modellavano su esempi americani, con Hemingway in prima fila.

Il pregiudizio contro le memorie di Lager non colpisce soltanto Levi, sconosciuto e privo di amicizie influenti. Nel 1947 Einaudi boccia anche L’Espèce humaine di Robert Antelme, che racconta l’esperienza della sua prigionia come detenuto politico a Buchenwald e a Bad Gandersheim. Il libro viene respinto malgrado Antelme sia un dirigente della resistenza e del partito comunista francese, nonché marito di Marguerite Duras, e malgrado la pubblicazione sia stata consigliata alla casa editrice da Elio Vittorini, all’epoca il più autorevole dei suoi consulenti19 Per un’indagine storico-filologica sulla vicenda si vedano: Marco Belpoliti, Levi: il falso scandalo, «la Rivista dei Libri», X, 1, gennaio 2000, pp. 25-27; Domenico Scarpa, Storie di libri necessari. Antelme, Duras, Vittorini, in Id., Storie avventurose di libri necessari, Gaffi, Roma 2010, pp. 165-202; 425-34. . Solo molti anni più tardi Einaudi giungerà a recuperare e pubblicare entrambe le opere: Antelme nel 1954, Levi nel 1958.

Nella primavera 1947 Primo Levi affida alcuni episodi di Se questo è un uomo al settimanale comunista di Vercelli «L’amico del popolo». Dirige il giornale il suo amico Silvio Ortona, l’autore (non nominato) dei due versi «... infin che un giorno / senso non avrà più dire: domani» che a Levi «danzano per il capo» nel capitolo «Kraus». Gli episodi pubblicati (con tagli) saranno: «Il viaggio» (29 marzo 1947), «Sul fondo» (5 aprile), «Haeftlinge» (17 maggio, sic il titolo: è un ulteriore brano da «Sul fondo»), «Le nostre notti» (24 maggio) e «Un incidente» (31 maggio, tratto da «Ka-Be»). In quest’ultima puntata «L’amico del popolo» stampa anche la futura poesia-epigrafe di Se questo è un uomo, che nel volume sarà priva di titolo, ma qui è intitolata «Salmo». Il 29 marzo 1947, nel presentare il primo episodio, il giornale spiega che i brani sono tratti da «un libro di prossima pubblicazione: SUL FONDO, riguardante il campo di eliminazione di Auschwitz». L’opera è dunque completa ma non ha trovato il titolo definitivo. L’incertezza, come vedremo, durerà fin quasi all’ultimo istante, ma nel frattempo la vita di Levi prosegue il suo corso: alla fine del giugno 1947 si licenzia dalla Duco e tenta l’avventura di un laboratorio privato di chimica con l’amico Alberto Salmoni: è un fallimento commerciale del quale si racconta in due episodi del Sistema periodico, «Arsenico» e «Stagno». In settembre Levi si sposa e, alla fine di quell’estate, la rivista fiorentina «Il Ponte» ospita – nel fascicolo monografico Sulla Germania, datato agosto-settembre – «Ottobre 1944», il capitolo sulla selezione per la camera a gas.

 

5. Franco Antonicelli e De Silva editore

A questo punto, però, il libro ha finalmente un editore. È stata la sorella di Primo, Anna Maria, attiva nella Resistenza come staffetta partigiana, a trovare la via per pubblicare il dattiloscritto. Lo affida in lettura ad Alessandro Galante Garrone, storico e magistrato, già rappresentante del Partito d’Azione nel Comitato di liberazione nazionale per il Piemonte. Il 28 marzo 1947 Garrone si rivolge a Franco Antonicelli, che ha presieduto il Cln piemontese in rappresentanza del Partito liberale, e che dirige ora la casa editrice Francesco De Silva:

Caro Franco, ti lascio quel manoscritto di Primo Levi di cui ti avevo parlato. Non credo d’essermi ingannato, nel giudicarlo superiore a quanto finora mi è accaduto di leggere in quel genere. Ma preferisco affidarmi al tuo sicuro giudizio. Mi pare che non sia soltanto un documento storico e umano di grande rilievo (per l’inesorabile quadro di quel mondo atroce che ci presenta, e per i problemi morali che involge), ma in molte e molte sue pagine, una cosa bella. Vedi, specialmente, per farti subito un’idea dell’opera, i capitoli Ottobre 1944, Esame di chimica, Kraus, e specialmente la terribile Storia di dieci giorni20La lettera è apparsa per la prima volta integralmente in appendice a Massimo Bucciantini, Esperimento Auschwitz (2011), ora nel volume collettivo Lezioni Primo Levi, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Mondadori, Milano 2019, pp. 89-90. .

Come Primo Levi, Franco Antonicelli (1902-1974) ha studiato al Liceo classico «D’Azeglio», scuola dove ha anche insegnato; raggiunge la fama al principio degli anni Trenta, quando crea, per la casa editrice torinese Frassinelli, una «Biblioteca Europea» il cui primo titolo è L’armata a cavallo di Babel’, e nella quale appaiono poco più tardi il Moby-Dick di Melville tradotto da Cesare Pavese (1932) e Il processo di Kafka tradotto da Alberto Spaini (1933): autori e opere che rappresentano altrettante novità per l’Italia. Sempre a Torino, Antonicelli fonda nel 1942 la De Silva, ma soltanto nel dopoguerra l’impresa entra in piena attività.

Anche dopo il no di Einaudi, la pubblicazione di Se questo è un uomo matura dunque negli ambienti antifascisti di Torino, e ancora ad Antonicelli si deve il titolo che oggi conosciamo. Levi ha forse pensato, in un primo momento, a Storie degli uomini senza nome21 Cfr. Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2017, pp. 70-71. ; sceglie poi Sul fondo e, più tardi, I sommersi e i salvati: è con questo titolo che il manoscritto giunge in casa De Silva, ma Antonicelli avrà il guizzo di eliminare l’imperativo «Considerate» da uno dei versi della poesia-epigrafe, coniando il definitivo Se questo è un uomo.

La data del finito di stampare del libro «primogenito» di Levi nelle edizioni De Silva è 11 ottobre 1947. Il volume, di 198 pagine, esce nella collana «Biblioteca Leone Ginzburg», che ha il sottotitolo «Documenti e studi per la storia contemporanea». Ginzburg era stato, fin dall’ultimo scorcio degli anni Venti, un amico fraterno di Antonicelli.

È assai probabile che sia stato ancora Antonicelli a scegliere Goya per la sovracoperta. Il disegno, realizzato a pennello, acquerello e acquatinta su carta vergatino agarbanzado (color cece), è il numero 49 del cosiddetto Álbum C, custodito pressoché per intero al Museo del Prado. Vi sono raccolti disegni risalenti agli anni 1808-14: visioni notturne e immagini di condannati dell’Inquisizione. Il numero 49 reca un titolo d’autore (La misma) e mostra somiglianze con figure presenti nelle incisioni della serie I disastri della guerra, così come nella tela dedicata alle fucilazioni del 3 maggio 1808. Il disegno di Goya verrà sottoposto a rielaborazione grafica prima di essere collocato a illustrare il libro di Levi.

Editore elegante quanto concreto, Antonicelli fa tutto ciò che può per promuovere Se questo è un uomo sul mercato librario e fra i critici letterari: stampa una brochure dove lo presenta come «il libro di uno scrittore nuovo», insistendo sul valore propriamente letterario – oltre che morale – dell’opera: «Nessun libro al mondo intorno alle stesse tragiche esperienze ha il valore d’arte di questo». Sulla quarta e ultima facciata della brochure è riprodotta, nell’autografo di Levi, la poesia-epigrafe: il verso «Considerate se questo è un uomo» è colorato in rosso. Anche Levi s’impegna personalmente. Sul numero di ottobre 1947 del mensile «L’Italia che scrive» è lui a firmare la rubrica «Presento il mio libro», con il titolo Se questo è un mondo: 

Se non di fatto, come intenzione e come concezione il mio libro è nato già fin dai giorni del campo di concentramento. Il bisogno di raccontare “agli altri”, di fare “gli altri” partecipi, aveva assunto fra noi, prima della liberazione e dopo, il carattere di un impulso immediato e violento, tanto da rivaleggiare con gli altri bisogni elementari: il libro è stato scritto per soddisfare a questo bisogno; in primo luogo quindi a scopo di liberazione interiore.

Di qui il suo carattere frammentario: i capitoli sono stati scritti non in successione logica, ma per ordine di urgenza. Il lavoro di raccordo e di fusione è stato svolto su piano, ed è posteriore.

Ho evitato i particolari crudi e le tentazioni polemiche e retoriche. Chi leggerà potrà avere l’impressione che gli altri, ben più atroci resoconti di prigionia abbiano passato il segno: non è così, tutte le cose che si sono lette sono state vere, ma non era questa la faccia della verità che mi interessava. Neppure mi interessava raccontare delle eccezioni, degli eroi e dei traditori, bensì, per mia tendenza e per elezione, ho cercato di mantenere l’attenzione sui molti, sulla norma, sull’uomo qualsiasi, non infame e non santo, che di grande non ha che la sofferenza ma è incapace di comprenderla e di contenerla. Mi pare superfluo aggiungere che nessuno dei fatti è inventato.

Non sono in grado di giudicare il mio libro: può essere mediocre, cattivo o buono. Mi auguro che venga letto comunque: non solo per ambizione, ma anche nella sottile speranza di essere riuscito a far sì che il lettore si accorga che le cose lo riguardano.

 
In alcuni passaggi, Se questo è un mondo ricalca la Prefazione d’autore che si legge nel volume, ma i punti che toccano il mondo, l’uomo in generale, i molti su cui Levi ferma la sua attenzione, i molti che spera leggano il suo libro, l’avvertimento che i fatti narrati riguardano il lettore, ogni lettore, così come la frase riguardante l’uomo qualsiasi, compaiono solo in questo precoce autocommento. L’opera con cui Levi debutta manifesta dunque in più modi la sua intenzione universale. Ma l’autore di Se questo è un uomo produrrà ancora un altro testo di presentazione, brevissimo: Antonicelli stampa infatti un “quartino” pubblicitario, ossia un foglietto in-16° ripiegato in due, per il quale chiede a Levi una sintesi dell’opera. Per il volantino n. 15 di De Silva editore Levi consegna due frasi appena:
 

Questo libro non è stato scritto per accusare, e neppure per suscitare orrore ed esecrazione. L’insegnamento che ne scaturisce è di pace: chi odia, contravviene ad una legge logica prima che ad un principio morale.

 
Il filo di lama dell’ultima sentenza ha il taglio dei pensieri di Pascal: applicando fino alle estreme conseguenze quella legge del più forte che nasce dall’odio contro chiunque sia diverso, il risultato inevitabile sarà l’annientamento del genere umano: della specie «uomo», cui s’intitola l’opera. In queste parole così come nel suo libro, il nerbo etico di Primo Levi pareggiava la sua esattezza come testimone e la sua potenza come scrittore.
 

6. L’accoglienza critica

De Silva stampa Se questo è un uomo in 2.500 copie: non sono poche, per un esordio non narrativo; se ne venderanno poco più di 1.500. Le recensioni sono poche ma non pochissime: oltre venti, buon risultato per una piccola casa editrice e per un’opera dedicata a un argomento non più di attualità.

Levi è recensito soprattutto da giornali e riviste del Nord Italia, in massima parte orientati politicamente a sinistra: comunisti, socialisti, socialdemocratici o legati all’ex Partito d’Azione ormai disciolto. Ma del libro si parla anche sul «Corriere d’informazione», edizione pomeridiana del più importante quotidiano nazionale, il milanese «Corriere della Sera», e ne giunge l’eco in Svizzera con articoli sulla «Gazette de Lausanne» e sulla «Weltwoche» di Zurigo.

Il parere più tempestivo è quello del maggiore quotidiano di Torino, «La Stampa»: il 26 novembre 1947 Arrigo Cajumi recensisce Se questo è un uomo insieme con un’altra opera prima, Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino.

Apparsa con il titolo Immagini indimenticabili sulla prima pagina della «Stampa», la recensione di Cajumi elogia Se questo è un uomo come opera che «s’impernia, spontaneamente, sul problema capitale: quello dell’uomo che vive ad arbitrio d’uomo, nel mondo moderno». Accanto a Levi, il recensore raccomanda Calvino: «Tanto il primo è misurato ed austero, quanto il secondo è giovanilmente sboccato ed estroso».

Proprio la firma di Calvino compare sotto la recensione più lungimirante – benché pubblicata con mesi di ritardo – di Se questo è un uomo. L’articolo esce infatti il 6 maggio 1948 sull’edizione piemontese dell’organo comunista «l’Unità». Calvino vi definisce l’opera «un magnifico libro che non è solo una testimonianza efficacissima, ma ha delle pagine di autentica potenza narrativa, che rimarranno nella nostra memoria tra le più belle della letteratura sulla seconda guerra mondiale». Nel ricorrere all’aggettivo «bello» per definire lo stile – oltre che il contenuto – del libro, Calvino è tra i primi ad aver suggerito che Levi è uno scrittore oltre che un testimone. Un anno più tardi confermerà il giudizio, quando nel saggio La letteratura italiana della Resistenza ritorna a parlare dei diari di Lager:

Mi limiterò a citare quello che, e credo di non sbagliare, è il più bello di tutti: Se questo è un uomo di Primo Levi: un libro che per sobrietà di linguaggio, potenza d’immagini e acutezza psicologica è davvero insuperabile22Italo Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza («Il movimento di liberazione in Italia», I, 1, luglio 1949), ora in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1492-500, a p. 1499. .

7. Due dialoghi a distanza, due premi letterari

Un catalogo a fisarmonica, di piccolo formato, diffuso dalla De Silva nel bimestre aprile-maggio 1948, dedica a Se questo è un uomo una delle sue facciate, annunciando che «La moglie del celebre scienziato Enrico Fermi tradurrà questa eccezionale cronaca dell’inferno di Aushwitz [sic] per gli americani». Laura Capon, nata a Roma nel 1907, è di origine ebraica. La sua versione resterà incompiuta; tra le sue carte, conservate nello Special Collections Research Center della University of Chicago Library, si trovano una sinossi del volume (nove pagine, preparate a beneficio dell’eventuale editore) e le versioni dei capitoli «A Chemistry Examination» e «History of Ten Days».

Nell’estate del 1948 Se questo è un uomo concorre a due premi letterari, il Viareggio e il Saint-Vincent per la prosa. Al Viareggio rientra soltanto fra le ventuno opere della selezione preliminare, mentre giunge (con il vincitore Angelo Del Boca, con Luigi Bartolini e Alberto Moravia) alla fase finale del Saint-Vincent, della cui giuria fa parte anche Natalia Ginzburg.Malgrado questi parziali successi, nel finale del racconto «Azoto» del Sistema periodico Primo Levi descrive se stesso nel 1948 – ma, è bene rimarcarlo, a posteriori – come «autore sfiduciato di un libro che a me sembrava bello, ma che nessuno leggeva»23 Levi, Opere complete cit., vol. I cit., p. 995. . Sul finire di quell’anno gli giunge però da Trieste una lettera datata 3 novembre:

Caro Signor Primo Levi,

non so se le farà piacere sentirsi dire da me che il suo libro Se questo è un uomo è più che un bel libro, è un libro fatale. Qualcuno doveva ben scriverlo: il destino ha voluto che questo qualcuno fosse lei.

È fatale come lo furono, nel secolo scorso, Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ha avuto successo? Non l’ha avuto? Io non ne so nulla. L’orrore, e, più ancora il disgusto, di quello che sta accadendo, mi isolano sempre di più da tutto quanto oggi si scrive e si dice. Ed anche il suo libro l’ho avuto per caso; difficilmente l’avrei acquistato. Ma, appena ho cominciato a leggerlo, non ho potuto più smettere. Adesso è come se avessi fatto personalmente l’esperienza di Auschwitz. Fosse nelle mie possibilità, lo imporrei come testo scolastico. Ma i responsabili (se gli uomini possono essere responsabili di qualcosa) dei campi di annientamento, se ne guarderanno bene dal farlo. Purtroppo l’immensa crisi di cattiveria e di stupidità che ha avuto inizio nel 1914 ha bisogno, per esaurirsi, di alcuni secoli. Ho l’impressione che il suo libro possa vivere anche al di là della crisi. Perche molti altri hanno descritto quelli [sic] orrori, ma tutti lo hanno fatto dall’esterno; nessuno – almeno che io sappia – li ha risentiti, e resi, dall’interno.

Firma la lettera, «con gratitudine ed affetto» e con il solo cognome, Umberto Saba, che in precedenza aveva chiesto a Giulio Einaudi l’indirizzo dell’autore, rammaricandosi che non fosse stato lui a pubblicare il libro.

Figlio di padre ebreo, Saba definisce Se questo è un uomo con un aggettivo per lui importante: nel suo vocabolario «fatale» indica l’opera scritta per necessità ineludibile. È «fatale», agli occhi di Saba, il suo Canzoniere in versi pubblicato nel 1945, ma lo è ugualmente un breve libro in prosa apparso nel 1946 da Mondadori: Scorciatoie e raccontini, al principio del quale si afferma che quei frammenti sapienziali sono «reduci, in qualche modo, da Maidaneck». Majdanek (questa la grafia esatta) era stato, dopo Auschwitz, il secondo campo di concentramento trasformato in campo di sterminio. L’Armata Rossa lo liberò il 22 luglio 1944, e fu tra i primi di cui giungesse notizia in Italia.

Saba spedisce in dono a Levi una copia di Scorciatoie. Si ignora, a tutt’oggi, in che modo abbia avuto occasione di leggere Se questo è un uomo.

8. Epilogo provvisorio

Nel 1949 la De Silva, in difficoltà finanziarie, cede l’attività e il magazzino a una casa editrice di Firenze, La Nuova Italia. Di Se questo è un uomo restano svariate centinaia di copie invendute. È singolare il verbo con cui Levi indica la calamità naturale che le distruggerà il 4 novembre 1966, un verbo che le accomuna ai «sommersi» del Lager e all’Ulisse di Dante: «sono annegate a Firenze durante l’alluvione perché la Nuova Italia, che aveva preso i diritti, teneva i volumi in uno scantinato»24 Giulio Goria, «Sono diventato ebreo quasi per forza», conversazione con Primo Levi («Paese Sera», 3 maggio 1982), in Opere complete cit., vol. III cit., pp. 252-55, a p. 255; Primo Levi, «Lettere di tedeschi», in I sommersi e i salvati (1986), in Opere complete cit., vol. II, Einaudi, Torino 2016, p. 1253. . Nel 1966, però, la nuova e definitiva versione di Se questo è un uomo è già in circolazione da otto anni.

 


1Mladen Machiedo, Riječ će preživjeti. Razgovor s Primom Levijem [La parola sopravvivrà. Conversazione con Primo Levi], «Republika [Zagabria]», 1, gennaio 1969, pp. 47-48. La conversazione, che ebbe luogo a Torino il 28 ottobre 1968, è ora raccolta in Primo Levi, Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, vol. III, Conversazioni, interviste, dichiarazioni, Einaudi, Torino 2018, pp. 30-34, a p. 32. Si veda inoltre Carlo Paladini, A colloquio con Primo Levi (Pesaro, 5 maggio 1986), Lavoro, alienazione, criminalità mentale. Ricerche sulle Marche tra Otto e Novecento, a cura di Paolo Sorcinelli, il lavoro editoriale, Ancona, novembre 1987 («Quaderni Iders», n. 6), pp. 147-59; ora in Levi, Opere complete cit., vol. III cit., pp. 667-81, a p. 668.
2Incontro con Primo Levi, Leo Club, Cuneo, settembre 1975, in Levi, Opere complete cit., vol. III cit., pp. 64-77, a p. 68.
3Anna Baldini, La memoria italiana della Shoah (1944-2009), in Atlante della letteratura italiana, diretto da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp. 758-63.
4Primo Levi, Se questo è un uomo, versione 1947, in Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, vol. I, Einaudi, Torino 2016, p. 108.
5Ivi, p. 36.
6 Alberto Cavaglion, «Leonardo ed io, in un silenzio gremito di memoria». Sopra una fonte dimenticata di «Se questo è un uomo», intervento al Convegno Primo Levi: memoria e invenzione, San Salvatore Monferrato, 26-27-28 settembre 1991; ora nel volume dallo stesso titolo, a cura di Giovanna Ioli, Edizioni della Biennale «Piemonte e Letteratura», San Salvatore Monferrato 1995, pp. 64-68.
7Matteo Fadini, Su un avantesto di «Se questo è un uomo» (con una nuova edizione del «Rapporto» sul Lager di Monowitz del 1946), «Filologia Italiana», 5, 2008 [ma 2009], pp. 222‑35.  
8 Primo Levi (con Leonardo De Benedetti), Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2015, pp. 3-30 (testo), 145-58 e 205-8 (commento e nota al testo).  
9Levi, Opere complete cit., vol. I cit., pp. 1177-94.
10Il mestiere di raccontare, trasmissione Rai a cura di Anna Amendola e Giovanni Belardelli, 20 maggio 1974; è la prima di tre puntate dedicate a Levi. Si ringrazia l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, Torino.
11Levi, Opere complete cit., vol. I cit., p. 971.
12 Marco Belpoliti, Note ai testi, in Levi, Opere complete cit., vol. I cit., pp. 1455-56.  
13Jean Samuel avec Jean-Marc Dreyfus, Il m’appelait Pikolo. Un compagnon de Primo Levi raconte, Laffont, Paris 2007, p. 87.  
14 Levi, Opere complete cit., vol. I cit., p. 971.  
15Samuel-Dreyfus, Il m’appelait Pikolo cit., pp. 95-97.  
16 Ivi, p. 87.  
17Sergio Luzzatto, Lettere a Pikolo («Corriere della Sera», 18 gennaio 2008), in Id., I popoli felici non hanno storia, manifestolibri, Roma 2009, pp. 253-55.
18Alle disavventure di Levi con la casa editrice Einaudi si accenna per la prima volta in H. Stuart Hughes, Prigionieri della speranza. Alla ricerca dell’identità ebraica nella letteratura italiana contemporanea (Prisoners of Hope: The Silver Age of Italian Jews 1924-1974, 1983), trad. it. di Valeria Lalli, il Mulino, Bologna 1983, pp. 90-91, e poi in un breve colloquio di Levi con Nico Orengo: Come ho pubblicato il mio primo libro, «Tuttolibri. Settimanale di attualità culturale letteratura arte scienza spettacolo», XI, 456, 1° giugno 1985, p. 1. Benché in queste prime due pubblicazioni i nomi di Natalia Ginzburg e di Cesare Pavese appaiano in chiaro, la polemica sul rifiuto di Se questo è un uomo scoppierà più tardi, innescata dalla comparsa di una serie di colloqui tra Levi e Ferdinando Camon. Le conversazioni ebbero luogo tra la primavera 1982 e il maggio 1986; il testo integrale fu stampato per la prima volta poche settimane dopo la morte di Levi, con il titolo Autoritratto di Primo Levi («Nord-Est», collana-rivista, n. 2, Padova 1987); fu poi riproposto sotto il nome autoriale di Camon e come Conversazione con Primo Levi, un volume che a partire dal 1991 ha avuto più edizioni presso Guanda, Parma e Milano; ora è incluso in Opere complete cit., vol. III cit., pp. 830-59. In uno dei loro incontri Levi aveva chiesto a Camon di spegnere il registratore prima di nominare la persona responsabile del rifiuto di Se questo è un uomo: si vedano, in particolare, la p. 58 in Autoritratto e la p. 851 in Opere complete, vol. III. Per la polemica che ne seguì si leggano: Riccardo Chiaberge, Chi è l’ebreo che bocciò Primo Levi?, «Corriere della Sera», 11 giugno 1987, p. 5; Nico Orengo, Natalia Ginzburg: nessuno «censurò» Primo Levi, «La Stampa», 12 giugno 1987, p. 3; Ferdinando Camon, Ma la colpa non è di Pavese, «Corriere della Sera», 14 giugno 1987, p. 5; Anonimo, Ammetto, ero un po’ sciocca, «Panorama», XXV, 1106, 28 giugno 1987, p. 133, con brevi testimonianze di Natalia Ginzburg e Giulio Einaudi.
19 Per un’indagine storico-filologica sulla vicenda si vedano: Marco Belpoliti, Levi: il falso scandalo, «la Rivista dei Libri», X, 1, gennaio 2000, pp. 25-27; Domenico Scarpa, Storie di libri necessari. Antelme, Duras, Vittorini, in Id., Storie avventurose di libri necessari, Gaffi, Roma 2010, pp. 165-202; 425-34.
20La lettera è apparsa per la prima volta integralmente in appendice a Massimo Bucciantini, Esperimento Auschwitz (2011), ora nel volume collettivo Lezioni Primo Levi, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Mondadori, Milano 2019, pp. 89-90.
21 Cfr. Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2017, pp. 70-71.
22Italo Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza («Il movimento di liberazione in Italia», I, 1, luglio 1949), ora in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995, pp. 1492-500, a p. 1499.
23 Levi, Opere complete cit., vol. I cit., p. 995.
24 Giulio Goria, «Sono diventato ebreo quasi per forza», conversazione con Primo Levi («Paese Sera», 3 maggio 1982), in Opere complete cit., vol. III cit., pp. 252-55, a p. 255; Primo Levi, «Lettere di tedeschi», in I sommersi e i salvati (1986), in Opere complete cit., vol. II, Einaudi, Torino 2016, p. 1253.