Approfondimenti linguistici
I mondi di Primo Levi
Una strenua chiarezza
Il titolo
Primo Levi, conosciuto in tutto il mondo come testimone della Shoah, è stato uno scrittore multiforme capace di cimentarsi con i generi letterari più diversi, dalla scrittura saggistica al teatro, dal romanzo alla poesia. Ha regalato ai suoi lettori storie straordinarie fra realtà e fantascienza e ha narrato ne Il sistema periodico la sua esperienza di chimico montatore di molecole. Attento osservatore della società contemporanea, ha raccontato nelle pagine de La chiave a stellale avventure di lavoro dell’operaio specializzato Tino Faussone.
Il titolo scelto dal Centro Studi - I mondi di Primo Levi - vuole alludere alle sfaccettature di una personalità dai molteplici interessi, mentre il sottotitolo Una strenua chiarezza pone l’accento sulla sua ricerca costante della forma più efficace di comunicazione, al livello linguistico e al livello intellettuale; la ricerca di questa chiarezza è l'elemento unificante di tutti gli ambiti di attività di Primo Levi. L'espressione «una strenua chiarezza» si trova nel racconto Potassio in Il sistema periodico, laddove si afferma che «alle origini della fisica stava la strenua chiarezza dell’occidente, Archimede ed Euclide».
Così un frammento di scrittura di Primo Levi definisce meglio di ogni altra espressione una qualità dell’autore stesso: la ricerca di precisione linguistica, di oggettività narrativa, di esattezza documentaria, che sono presenti in ogni suo scritto e in ogni sua intervista.
Carbonio
Primo Levi sognava di scrivere Carbonio, il racconto con cui si chiude Il sistema periodico, fin dai tempi in cui lavorava come chimico nei laboratori della fabbrica Wander a Crescenzago. Era il 1943, e il futuro scrittore fantasticava di «scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far conoscere ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana» (Oro). In Lager avrebbe poi raccontato questo suo desiderio a quello stesso compagno, il Pikolo, per cui tradusse in francese il canto di Ulisse della Divina Commedia.
Carbonio può essere considerato idealmente il testamento letterario di Primo Levi, non solo perché in esso è possibile ritrovare la cifra stilistica originale dell’autore e un inventario completo dei temi a lui più cari, ma anche perché ogni singola parola può essere letta come una parola-chiave che consente di penetrare in una zona precisa degli universi letterari cui Levi ha dato vita. Per questa ragione il Centro Studi ha scelto proprio questo racconto come momento iniziale della mostra. Le tavole illustrate da Yosuke Taki propongono in limine un ritratto di Primo Levi diverso da quello che ci si aspetterebbe: e, oltre la sorpresa iniziale, invitano il visitatore a esplorare i vari mondi dello scrittore.
In Carbonio il lettore incontra una serie di parole che possono funzionare come altrettanti “lemmi” di un dizionario: esse danno luogo a una rete di rimandi interna all’opera di Primo Levi. Le parole in questione sono qui messe in collegamento con le varie sezioni tematiche della mostra. Alcuni lemmi possono rimandare a più di una sezione, perché lo scrittore li usa in molte accezioni diverse sfruttando tutta l’ampiezza del loro spettro semantico; altri lemmi, invece, ricoprono un’area semantica meno estesa e sono specifici delle singole sezioni.
Le schede qui raggruppate sono state pensate come uno strumento al servizio degli insegnanti di lettere che vogliano compiere percorsi di approfondimento con le loro classi. Le schede consentono di svolgere ricerche personalizzate sul linguaggio in generale e in particolare sull’uso della lingua da parte di Primo Levi; ogni scheda contiene un'introduzione in cui sono riportati i significati principali di una singola parola e le sue occorrenze nelle opere dell’autore. Come edizione di riferimento sono state usate le Opere di Primo Levi in due volumi a cura di Marco Belpoliti (Einaudi, Torino 1997).
Antenato
Il termine indica in primis gli antenati descritti in Argon, racconto che può essere considerato, nel complesso, un omaggio alla cultura ebraico-piemontese all’interno della quale lo scrittore era nato. I personaggi tratteggiati in Argon formano una genealogia ideale in cui realtà e invenzione si mescolano fino a confondersi; sono riferiti aneddoti e storie riguardanti uomini e donne remoti nel tempo, dei quali si è sempre sentito parlare ma che da sempre sono avvolti in «uno spesso sudario di leggenda e d’incredibilità» (p.753). Il “lessico famigliare” impiegato da questi personaggi riproduce il gergo parlato dalla comunità ebraica piemontese, al quale Primo Levi attribuisce un grande interesse umano e una «mirabile forza comica», che scaturisce dal contrasto fra il sobrio dialetto piemontese e «l’incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei padri» (p. 746). Ma le figure che compaiono in Argon costituiscono anche un ricco repertorio di tipi umani anomali e stravaganti, che lo scrittore segue con sguardo divertito e bonario. C’è poi una seconda accezione della parola, che riguarda l’ambito scientifico, per cui antenati sono i nostri progenitori che ci hanno preceduti nel lungo cammino dell’evoluzione umana.
Il sistema periodico
Ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti.[…] Il poco che so dei miei antenati li avvicina a questi gas. Non tutti erano materialmente inerti, perché ciò non era loro concesso: erano anzi, o dovevano essere, abbastanza attivi, per guadagnarsi da vivere e per una certa moralità dominante per cui «chi non lavora non mangia»; ma inerti erano senza dubbio nel loro intimo, portati alla speculazione disinteressata, al discorso arguto, alla discussione elegante, sofistica e gratuita. (p. 741)
Così avviene, dunque, che ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza: si deve forse fare un’eccezione per il carbonio, perché dice tutto a tutti, e cioè non è specifico, allo stesso modo che Adamo non è specifico come antenato; a meno che non si ritrovi oggi (perchè no?) il chimico-stilita che ha dedicato la sua vita alla grafite o al diamante. (pp. 934-5)
Vizio di forma
Quale dei vostri antenati in linea maschile non sarà più uomo ma quasi-uomo? Metteteli in fila e guardateli: quale non è più uomo ma altro? Quale non più mammifero? E qual era il suo aspetto? (p. 703)
Perché, è vero che mi sono fatto da me, però ho cambiato diversi modelli, ho fatto vari esperimenti, e a volte mi succede che dimentico di cancellare certi dettagli, soprattutto quando non mi danno noia; o magari li conservo deliberatamente, come si fa coi ritratti degli antenati: per esempio, ho un ossicino nel padiglione dell’orecchio, che non mi serve più a niente, perché è un pezzo che le orecchie non ho più bisogno di orientarle; ma ci tengo moltissimo, e non lo lascerei atrofizzare per tutto l’oro del mondo. (p. 708)
Se non ora, quando?
Ci doveva essere altro, in corpo a Leonid, una cicatrice interna, una lividura, forse un alone dolente intorno a un viso umano, a un ritratto: a Mendel venivano in mente le grandi fotografie ovali del secolo scorso, con le solenni immagini degli antenati al centro di un’aureola grigia e indistinta. (p. 235)
L'altrui mestiere
A Carnevale, per eccezione, veniva sul balcone del negozio anche la nonna: era una donnina fragile, che però portava in viso l’aria regale delle madri di molti figli, e già in vita aveva l’espressione assorta e fuori del tempo che esala dai ritratti degli antenati nelle loro grandi cornici. (p. 830)
Racconti e saggi
Da non so quante generazioni ogni mio antenato ha insegnato le regole al figlio, lo ha vinto per qualche anno, poi ne ha tacitamente ammesso la superiorità. Non intendo dire che il livello migliori di generazione in generazione: è il talento scacchistico che tocca il suo massimo sui vent’anni e poi decresce con l’eta, fatto triste ma naturale. (pp. 970-1
Atomo
Dal latino: atomus; dal greco: átomos "indivisibile", derivato del tema di témnō "tagliare", col prefisso a- privativo.
Per compilare questa voce ci si è basati anche su alcuni racconti provenienti da diverse raccolte. Ne Il sistema periodico gli atomi delle varie sostanze chimiche vengono messi – è il caso di dirlo – sotto la lente di ingrandimento. Ma è in Carbonio che essi diventano protagonisti di una narrazione in senso proprio. Non ci si riferisce qui soltanto alla storia del carbonio che si fa foglia, vino, tarlo, farfalla fino a giungere nel cervello del narratore, bensì alle “storie a non finire” che vengono prospettate, ma non narrate nei particolari: se il numero di atomi è infinito, infinite sono le storie in cui essi possono essere coinvolti. Si potrebbe adattare a Primo Levi quanto egli afferma ne L’altrui mestiere, cioè che chi è poeta riesce a far poesia anche parlando di atomi, di stelle o di allevamento del bestiame. La sua “poesia degli atomi” conosce toni e contenuti diversi, ma lascia trasparire sempre l’abilità narrativa e la passione che vi sono alla base. Degli atomi lo scrittore si occupa anche in termini più specialistici, spingendosi e spingendoci a osservare quanto avviene dentro l’atomo, tra le particelle subatomiche. Persino in questo caso però Levi riesce a creare il cortocircuito tra il mondo subatomico infinitamente piccolo e il nostro mondo, stabilendo un parallelismo tra la velocità di avanzamento degli elettroni e il progredire di una coda allo sportello di un ufficio postale. La raffigurazione degli eventi scientifici, soprattutto quando questi interessano dimensioni molto lontane da quella in cui vive l’uomo, impone sempre uno sforzo immaginativo e descrittivo indispensabile ai fini della comprensione e della divulgazione. Lo scrittore ha ben presente che la teoria atomica affonda le radici nell’antichità, quando la scienza e la filosofia non si erano ancora separate e collaboravano insieme nel tentativo di fornire una spiegazione dell’esistente. Dunque in certa misura la storia degli atomi è la storia della scienza e può assurgere a simbolo della ricerca umana tesa a penetrare l’essenza della materia, tra fallimenti e successi. Il racconto Il passa-muri da Racconti e saggi può essere letto come un capitolo di questa storia e un omaggio alla coraggiosa scienza dei pensatori antichi.
Il sistema periodico
Io, dopo il matrimonio di Giulia, ero rimasto solo coi miei conigli, mi sentivo vedovo ed orfano, e fantasticavo di scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far capire ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana: ed in fatto l'ho poi scritta, ma molti anni più tardi, ed è la storia con cui questo libro si conclude. (p. 849)
È lecito parlare di «un certo » atomo di carbonio? Per il chimico esiste qualche dubbio, perché non si conoscono fino ad oggi (1970) tecniche che consentano di vedere, o comunque isolare, un singolo atomo; nessun dubbio esiste per il narratore, il quale pertanto si dispone a narrare. (p.935)
Ma, appunto per la fortuna di chi racconta, che in caso diverso avrebbe finito di raccontare, il banco calcareo di cui l'atomo fa parte giace in superficie. (ibidem)
Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d'ossigeno e ad uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle, ma la ignoreremo. (ibidem)
L'atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell'anno 1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di esservi inchiodato da un raggio di sole. (p. 936)
Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. (p. 938)
L'atomo di cui ci occupiamo è ora intrappolato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tronco venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene, come il grano di un rosario, ad una lunga catena di cellulosa. (p. 939)
È sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una «cosa», ma la morte degli atomi, a differenza dalla nostra, non è mai irrevocabile. (p.940)
Ogni duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta della fotosintesi. (ibidem)
Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. (p.941)
Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che, da alghe minute a piccoli Crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato. (ibidem)
Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l'atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. (ibidem)
L'altrui mestiere
Chi ha sangue di poeta sa trovare ed esprimere poesia anche parlando di stelle, di atomi, dell'allevamento del bestiame e dell'apicultura. (p. 660)
Siamo altrettanto incapaci di concepire l'enormità degli astri quanto la piccolezza delle particelle: perciò ci è d'aiuto sapere che un cucchiaino d'acqua di mare contiene tante molecole quanti cucchiaini d'acqua sono contenuti nell'Oceano Atlantico. Gli elettroni ruotano intorno ai nuclei atomici con velocità dieci volte più alta di quella dei missili lanciati dall'uomo, ma quando un conduttore della sezione di un millimetro quadrato è percorso da una corrente di un ampere, la velocità di avanzamento degli elettroni è risibile: 25 centimetri all'ora, assai inferiore al progredire di una coda davanti allo sportello di un ufficio postale. (p. 721)
Anche la fisica classica ha le nostre dimensioni; per discendere nel cuore degli atomi, o per salire negli spazi intergalattici, occorre un'altra fisica, in cui l'intuizione non soccorre più, anzi impedisce. Per i profani come noi, l'unico strumento che ci consenta di gettare un'occhiata al di là dei nostri confini sono i «dati strani». Non sono scienza, ma stimolo ad acquistarla. (p. 724)
Gli altri idrocarburi saturi, pentano, esano, eptano e cosi via, sono stati battezzati con meno fantasia ricorrendo ai numerali greci che corrispondono al numero dei rispettivi atomi di carbonio. (p. 744)
Il linguaggio delle formule di struttura, per il fatto stesso di essere un vero linguaggio, è rimasto parzialmente simbolico. In primo luogo, perché i suoi ritratti non sono in grandezza naturale, bensì nella «scala» (cioè nell'enorme ingrandimento) di circa uno a cento milioni. Poi, perché in luogo della forma degli atomi essi contengono il loro simbolo grafico, cioè l'abbreviazione del loro nome, e perché fra gli atomi stessi si dimostra utile introdurre, e rappresentare con trattini simbolici, le forze che tengono insieme gli atomi stessi. (p. 745)
Con la parola «stelle» Dante aveva terminato le tre cantiche del suo poema. Le stelle d'oggi, visibili ed invisibili, hanno mutato natura. Sono fornaci atomiche. Non ci trasmettono messaggi di pace né di poesia, bensì altri messaggi, ponderosi ed inquietanti, decifrabili da pochi iniziati, controversi, alieni. (p. 788 )
Storie naturali
Il modello da riprodurre si mette in questo scompartimento, e in quest'altro, che è di uguale forma e volume, si introduce il pabulum, a velocità controllata. Durante il processo di duplicazione, nella esatta posizione di ogni singolo atomo del modello viene fissato un atomo analogo estratto dalla miscela di alimentazione: carbonio dov'era carbonio, azoto dov'era azoto, e così via. (p. 449)
Forse che la legge punisce «i fabbricatori e gli spacciatori di diamanti falsi» ? Forse che esistono diamanti falsi ? Chi può vietarmi di infilare nel Mimete qualche grammo di atomi di carbonio, di riordinarli in onesto assetto tetraedrico, e di vendere il risultato? Nessuno: non la legge, e neppure la coscienza. (pp. 450-1)
Sembrava lecito dedurre che, nella cella A, un qualche dispositivo analizzatore «esplorasse», per linee o per piani, il corpo da riprodurre, e trasmettesse alla cella B le istruzioni per la fissazione delle singole particelle, forse degli stessi atomi, ricavati dal pabulum. (p. 452)
Lilìt
Entro un quarto d'ora sarebbe stato costretto a cercare un inutile riparo contro il calore intollerabile: e questo lo possiamo affermare indipendentemente da qualsiasi ipotesi circa la misura e la forma di questo osservatore, purché fosse costruito, come noi, di molecole e d'atomi; ed entro mezz'ora la sua testimonianza, e quella di tutti i suoi congeneri, sarebbe terminata. (pp. 79-80)
C'era ancora da aspettare due ore prima di cominciare coi controlli, e ti confesso che io pensavo a tutt'altro. Pensavo... beh si, pensavo a quella confusione di atomi e di molecole che c'erano dentro a quel reattore, ogni molecola come se stesse con le mani tese, pronta ad acchiappare la mano della molecola che passava vicino per fare una catena. Mi venivano in mente quei bravi uomini che avevano indovinato gli atomi a buon senso, ragionando sul pieno e sul vuoto, duemila anni prima che venissimo noi col nostro armamentario a dargli ragione. (p.164)
Racconti e saggi
Era stata proprio la sua arte a condurlo al carcere. La corporazione era forte, rigida nella sua ortodossia, riconosciuta dall'Imperatore, e il suo dettato era chiaro: la materia era infinitamente divisibile. La sua immagine era l'acqua, non la sabbia; sostenere che ci fossero quei granelli ultimi, gli atomi, era eresia. (p. 898)
Avventura
AVVENTURA, AVVENTUROSO
Dal francese aventure, che è il latino adventura, «ciò che accadrà», neutro plurale del participio futuro di advenire «giungere».
Per Levi «avventura» è sempre sinonimo di vicenda inaspettata, e ciò implica che essa possa avere una coloritura positiva o negativa a seconda dei casi. Avventura conserva il valore originario del latino adventura, «le cose che accadranno», che potranno avere un esito vario e imprevedibile. «Avventure» terribili sono il viaggio verso Auschwitz e l’esperienza della prigionia, ma il repertorio è molto più vasto e non si esaurisce con questi due eventi: avventure sono anche le sfide che il chimico lancia alla materia, avventura è la libera professione, con le sue incognite, e infine un’avventura inedita è rappresentata dalla scrittura. Una buona dose di spirito di avventura è necessaria infine nel rapporto con le nuove generazioni perché instaurare un dialogo significa addossarsi il rischio di incomprensioni e fraintendimenti.
Se questo è un uomo
L'avventura è finita, e mi sento pieno di una tristezza serena che è quasi gioia. (p.25)
Oggi ancora, quando la memoria ci restituisce qualcuna di quelle innocenti canzoni,il sangue ci si ferma nelle vene, e siamo consci che essere ritornati da Auschwitz non è stata piccola ventura. (p.45)
A parte queste prestazioni, sovrintendeva insolente e violento al nostro piatto faticare quotidiano, eclissandosi di frequente per misteriose visite e avventure in chissà quali recessi del cantiere, di dove ritornava con grossi rigonfi nelle tasche e spesso con lo stomaco visibilmente ripieno. (p.93)
Ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l'avventura di Auschwitz e l'aveva raccontata. (p.174)
La tregua
Il Signor Unverdorben, che non rispondeva a chi non lo chiamava « signore », e pretendeva di essere trattato con il «lei», aveva trascorso una lunga duplice esistenza avventurosa, e come il Moro e Tramonto era prigioniero di un sogno, anzi di due. (p.292)
Attraverso Cesare, che si prestava volentieri a presentarlo come un fenomeno da fiera, e a raccontarne le leggendarie avventure precedenti, invitava tutti quanti a omerici festini di carni abbrustolite, e se qualcuno ricusava diventava cattivo e tirava fuori il coltello. (p.338)
Accendemmo fuochi nel bosco, e nessuno dormì: passammo il resto della notte cantando e ballando, raccontandoci a vicenda le avventure passate, e ricordando i compagni perduti: poiché non è dato all'uomo di godere gioie incontaminate. (p.366)
Nella salita verso il confine italiano il treno, più stanco di noi, si strappò in due come una fune troppo tesa: vi furono diversi feriti, e questa fu l'ultima avventura. (p.394)
Il sistema periodico
L'avventura degli antociani finì presto. Era incominciata con una pittoresca invasione di fiordalisi, sacchi e sacchi di delicati petali celesti, secchi e fragili come minuscole patate fritte. (p.842)
Lo stesso mio scrivere diventò un'avventura diversa, non più l'itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un'opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché. (pp.872-3)
Era un'avventura inedita e allegra, e inoltre nobile, perché nobilitava, restaurava e ristabiliva. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco,e il pascolo dal letame. (p.896)
Non mi sarei mai allontanato dalla fabbrica in riva al lago, e sarei rimasto in eterno a raddrizzare le deformità delle vernici, se Emilio non avesse insistito, vantandomi l'avventura e la gloria della libera professione. (p.902)
Il laboratorio è luogo da giovani, ed a ritornarci ci si sente ritornare giovani: con la stessa smania di avventura, di scoperta, d'imprevisto, che si ha a diciassette anni. (p.910)
Ci saremmo tenuti a contatto, e ognuno di noi avrebbe raccolto per l'altro altre storie come questa, in cui la materia stolida manifesta un'astuzia tesa al male, all'ostruzione, come se si ribellasse all'ordine caro all'uomo: come i fuoricasta temerari, assetati più della rovina altrui che del trionfo proprio, che nei romanzi arrivano dai confini della terra per stroncare l'avventura degli eroi positivi. (p.920-1)
Viaggiò col vento per otto anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell'avventura organica. (p.936)
I sommersi e i salvati
Ricordo con un sorriso l'avventura che mi è accaduta parecchi anni fa in una quinta elementare, in cui ero stato invitato a commentare i miei libri ed a rispondere alle domande degli allievi. Un ragazzino dall'aria sveglia, apparentemente il leader della classe, mi rivolse la domanda di rito: «Ma lei perché non è scappato?». (p.1115)
Era la prima volta che incappavo nell'avventura sempre scottante, mai gratuita, dell'essere tradotti, del vedere il proprio pensiero manomesso, rifratto, la propria parola passata al vaglio, trasformata, o mal intesa, o magari potenziata da qualche insperata risorsa della lingua d'arrivo. (p.1128)
Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il Lager, e l'avere scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita. (p.1129)
Camino
Il camino del forno entro cui viene arrostito l’atomo di carbonio non può non ricordare un altro ben più terribile camino, quello del Lager. L’identità non si ferma al sostantivo ma si estende al verbo (“uscire per il camino” vale tanto per i deportati quanto per il carbonio). Oltre al forno crematorio il termine designa anche il luogo in cui ci si scalda e si cucinano i cibi e in questa accezione compare ne La tregua, dove le camerate dotate di camino sono quelle più ambite. Nell’iconografia tradizionale il camino che fuma in un’abitazione evoca tranquillità domestica e prosperità. In Se questo è un uomo c’è anche il camino delle cucine su cui si prepara la zuppa. Il doppio senso amplifica l’orrore, il senso di sovvertimento dell’ordine umano.
Se questo è un uomo
Lui non ha riso, ma col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: - Vous n'ètes pas à la maison -. Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete più a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (cosa vorrà dire? lo impareremo bene più tardi). (p. 23)
A Birkenau il camino del Crematorio fuma da dieci giorni. Deve essere fatto posto per un enorme trasporto in arrivo dal ghetto di Posen. (p.122)
Sembra che tutto vada come ogni giorno, il camino delle cucine fuma come di consueto, già si comincia la distribuzione della zuppa. Ma poi si è udita la campana, e allora si è capito che ci siamo. (ibidem)
La tregua
Quando faceva freddo, piantava tranquillamente il suo posto di guardia, si infilava in una delle camerate su cui vedeva fumare bene un camino, buttava il mitra su una branda, accendeva la pipa, e offriva vodka se ne aveva, o se non ne aveva la chiedeva in giro, e bestemmiava sconsolato se non gliene davano. (pp. 248-9)
C'erano anche altri abitatori del bosco: me ne accorsi un giorno, seguendo a caso un sentiero che si addentrava verso ponente, rettilineo e ben segnato, e che non avevo notato fino allora. Portava in una regione del bosco particolarmente fitta, si infilava in una vecchia trincea e finiva alla porta di una casamatta di tronchi, quasi totalmente interrata: sporgevano dal suolo solo il tetto e un camino. Spinsi la porta, che cedette: dentro non c'era nessuno, ma il luogo era evidentemente abitato. (p. 336)
Il sistema periodico
Hendrik si è costruita una capanna robusta, senza finestre, ci ha portato il baule, e ci passava intere giornate, qualche volta con Maggie: si vedeva uscire fumo dal camino.(p. 825)
Lui, tuttora fermamente abbarbicato a due dei tre suoi compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell'aria. La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa. (p. 936)
Cattura
CATTURA, CATTURARE
Dal latino captura, derivato di capĕre "prendere, far prigioniero".
Il termine ha quasi esclusivamente un significato concreto: la cattura è l’evento funesto che precede la deportazione o l’uccisione per mano fascista. In questo senso per molti personaggi che compaiono ne Il sistema periodico (Sandro, Primo, Aldo, Guido) essa è insieme uno snodo cruciale dell’esistenza e una terribile esperienza generazionale, una tappa obbligata che condiziona pesantemente il destino di moltissimi giovani nati intorno agli anni Venti.
Esiste anche un’accezione figurata (per esempio nella frase «leggevo avidamente i pochi libri […] che riuscivo a catturare» cfr. La tregua p. 287) ma non sembra essere molto significativa o utile ai nostri fini. In Carbonio invece la “cattura” consente al carbonio di entrare a far parte di una foglia e segna l’inizio di una bellissima avventura.Questa cattura fa sì che il carbonio partecipi alla fotosintesi, processo attraverso cui la natura esplica la propria libertà creatrice e la propria potenza.Sebbene in apparenza l’atomo protagonista perda la propria smisurata libertà di movimento (proprio per questo si parla di “cattura”), entra a far parte di organismi più complessi e in un certo senso si nobilita accedendo a gradi più elevati di esistenza. Si può scorgere in questo apologo un messaggio costruttivo: se il destino degli atomi è la trasformazione dalla loro particolarissima prospettiva, è meglio il fare che il non fare, è meglio l’azione orientata a uno scopo che la pura casualità senza mèta.
Se questo è un uomo
Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. (p.7)
Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell'armistizio in Italia, dell'inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell'uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. (p. 167)
La tregua
Poco oltre, non mi riuscì di evitare un tale in borghese, che stava cercando uomini per sgomberare la neve; mi catturò, sordo alle mie proteste, mi consegnò una pala e mi aggregò a una squadra di spalatori. (p.225)
Il sistema periodico
Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d'Azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell'aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. (p.781)
I militi catturarono noi tre, Aldo, Guido e me, ancora tutti insonnoliti. (p.852)
Questo divieto era doloroso, perché fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di esistere, anzi di vivere. (p.853)
Viaggiò col vento per otto anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell'avventura organica. (p.936)
I sommersi e i salvati
Ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati sull'orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo diverso dagli ebrei. (p.1030)
Perché non siete fuggiti? Perché non vi siete ribellati? Perché non vi siete sottratti alla cattura «prima»? Proprio per la loro immancabilità, e per il loro crescere nel tempo, queste domande meritano attenzione. (p.1110)
L'altrui mestiere
Cacciare è anche catturare, intrappolare: perciò, prima di chiudere una cassa o un baule, devi accertarti che non contenga mosche o tignole; se tu le rinchiudessi, avresti cacciato, anche senza averne volontà né coscienza, e avresti infranto il Sabato. (p. 796)
Cervello
La riflessione sul cervello umano e sui suoi meccanismi compare già in Se questo è un uomo. Gli incubi che turbano le notti dei prigionieri sono descritti come un’attività autonoma del cervello che indipendentemente dalla loro volontà fabbrica fantasmi e sogni terribili. Sede sia dell’intelligenza razionale che dell’emotività, il cervello filtra la realtà ricavandone impressioni e formando le opinioni, diverse da persona a persona. Spiegando a posteriori i procedimenti mnemonici paradossali che si attivavano nel Lager, Primo Levi parla di un bisogno di nutrimento proprio del cervello sottoalimentato, che nel suo caso particolare gli ha permesso di tenere a mente dettagli importanti dell’anno di prigionia.
Nel mestiere di chimico invece il lavoro del cervello, la sua capacità di intuizione e di penetrazione si rivela fondamentale perché consente di decifrare la materia e di collegare i dati disponibili.
Primo Levi, in quanto scienziato e scrittore, prova una profonda fascinazione per il funzionamento del cervello umano, che egli definisce «l’oggetto più complesso che esista nell’universo», molto più difficile da descriversi che una stella o un pianeta. Un gigantesco minuscolo gioco di particelle e di impulsi regola ogni azione umana, compresa la capacità di giocare a scacchi e di scrivere. Il cervello umano, unicum nell’universo, è il modello dei cervelli tecnologici, macchinari raffinati creati dall’uomo.
Se questo è un uomo
Non appena gli occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in nebbia grigia sullo schermo dei sogni. (p.57)
Kohlenwasserstoffe, Massenwirkungsgesetz. Mi affiorano i nomi tedeschi dei composti e delle leggi: provo gratitudine verso il mio cervello, non mi sono più occupato molto di lui eppure mi serve ancora così bene. (p.100)
Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». (p.102)
Il sistema periodico
Mi misi al lavoro, pochissimo persuaso, persuaso invece che il Commendatore, e magari il Kerrn medesimo, avessero soggiaciuto al fascino da buon patto dei nomi e dei luoghi comuni: infatti il fosforo ha un nome molto bello (vuol dire «portatore di luce»), è fosforescente, c'è nel cervello, c'è anche nei pesci, e perciò mangiare pesci rende intelligenti. (pp.842-3)
A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d'uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia. (p. 915)
Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l'atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. (p. 941)
I sommersi e i salvati
Mi misi al lavoro, pochissimo persuaso, persuaso invece che il Commendatore, e magari il Kerrn medesimo, avessero soggiaciuto al fascino da buon patto dei nomi e dei luoghi comuni: infatti il fosforo ha un nome molto bello (vuol dire «portatore di luce»), è fosforescente, c'è nel cervello, c'è anche nei pesci, e perciò mangiare pesci rende intelligenti. (pp.842-3)
A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d'uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia. (p. 915)
Questa cellula appartiene ad un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l'atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. (p. 941)
L'altrui mestiere
Al comando del cervello elettronico che sovraintende all'operazione, i colossali argani si mettono simultaneamente in movimento, ritirando il cavo quelli di poppa, rilasciandolo quelli di prua, e le quarantamila tonnellate del Castoro sei si spostano ponderosamente verso la costa siciliana di dodici metri esatti, cioè della lunghezza di uno spezzone di tubo: ma il movimento è cosi dolce e privo di strappi che chi sta a bordo non lo percepisce. (L’altrui mestiere, p. 707)
Il nostro cervello è l'oggetto più complesso che esista nell'universo, ma per il suo funzionamento non occorre più energia che per una lampadina da 100 watt. A questa affermazione possiamo aggiungere che, proprio come per la lampadina, la maggior parte di questa energia va dissipata in calore; la quota che viene effettivamente utilizzata per le operazioni mentali è minima, e non mi risulta che sia stata finora misurata. (p. 723)
Chimica
Dal latino medievale chimicus, aggettivo derivato di chìmia «chimica», a sua volta da alchimia, dall'arabo (san'a) kīmiyyā' "(arte della) pietra filosofale".
Le accezioni del termine sono, come è prevedibile, moltissime. La chimica è in primo luogo la scelta della giovinezza, accarezzata fin dagli anni del liceo e poi consapevolmente realizzata al momento dell’iscrizione all’università. È una storia d’amore lunga e complessa, che conosce momenti di crisi e difficoltà (si pensi all’interesse per la fisica narrato in Potassio) e attraversa fasi diverse (la libera professione, il lavoro nel ramo delle vernici, l’attività “parachimiche” della maturità come il Servizio Assistenza Clienti). Al giovane Primo la chimica appare «una nuvola indefinita di potenze future», che con il tempo acquisterà contorni definiti e contenuti solidi. La chimica è un «mestiere di cose che si vedono e si toccano». Il contatto serrato e quotidiano con la materia implica un esercizio costante dei cinque sensi, che in questo modo vengono educati e potenziati. La dimensione corporea e materiale della chimica da un lato riconduce alla scienza alchemica dei fondatori, dall’altro consente un pieno dispiegamento delle facoltà umane: il chimico ragiona con le mani e con il cervello, i suoi sensi non sono atrofizzati ma collaborano attivamente con l’intelletto, fornendo a quest’ultimo informazioni che rimarrebbero inaccessibili qualora ci si basasse su un approccio esclusivamente teorico.
Per queste ragioni il chimico dispone di un repertorio di gesti e di abitudini mentali che gli derivano direttamente dalla sua scienza.
Per ammissione dello scrittore (cfr. I sommersi e i salvati, pp. 1101-2) le abitudini mentali ricavate dalla chimica hanno trovato un’applicazione pratica in Lager. Non si può non tenere conto del fatto che anche nel mondo rovesciato del Lager la chimica ha accompagnato Primo Levi, sia pure per un breve periodo.
Nel Lager Primo Levi deve sostenere un esame di chimica per poter esercitare la sua professione. In quel passo di Se questo è un uomo riemerge con un moto inatteso l’identità di un giovane laureato che rievoca «la febbre degli esami» e che nonostante la situazione riesce a ricordare le materie studiate e gli argomenti affrontati nella tesi di laurea.
In un punto del racconto Potassio in Il sistema periodico si dice, a proposito della purezza raggiunta per mezzo della distillazione, che essa è una condizione «che parte dalla chimica ed arriva molto lontano». Questo stesso percorso, dalla chimica ad altro, è il medesimo compiuto dallo scrittore nel corso di tutta la vita. Ma questo altro a cui approda mantiene, si badi bene, un solido legame interno con la chimica stessa. Primo Levi non ama i voli pindarici, sviluppa coerentemente alcune premesse e le segue con rigore in tutte le loro diramazioni. La chimica può essere intesa come un un tirocinio morale, perché insegna a diffidare «del quasi-uguale […], del praticamente identico, del pressappoco». Questo insegnamento, che vale nella vita così come in laboratorio, assume un significato particolare per una generazione che ha vissuto la propria giovinezza sotto il fascismo; in Ferro la materia che Primo e Sandro hanno deciso di studiare all’università si configura pian piano ai loro occhi come «l’antidoto al fascismo» perché è chiara, verificabile, onesta, mentre il fascismo e i mezzi di comunicazione da esso controllati sono «tessuti di menzogne e vanità».
La chimica di Primo Levi è una chimica militante, «solitaria, inerme e appiedata», che niente ha a che vedere con la chimica dei grandi impianti industriali. Ne L’altrui mestiere guardando alla propria carriera di chimico, lo scrittore la definisce una «militanza». I due termini sono complementari: per esercitare la chimica militante bisogna addossarsi con pazienza ed entusiasmo una militanza chimica. Nella parola militanza è implicita l’idea dell’impegno totale e totalizzante e il senso di un destino.
L’impegno richiesto dalla lotta continua con la materia mobilita le risorse euristiche del soggetto, il quale spesso si trova di fronte ad autentici rompicapi ed è chiamato a risolverli; egli procede per tentativi, e per questa via acquista grande dimestichezza con le due esperienze fondamentali della vita umana, la vittoria e la sconfitta. Il mestiere di chimico è dunque riassorbito all’interno di un discorso più ampio, di tipo etico, e può essere sentito come una versione più strenua del mestiere di vivere. La scelta della professione si precisa meglio come scelta consapevole e libera, che avrà degli esiti diversi a seconda delle persone e delle congiunture dell’esistenza. Gli studenti che leggono un trattato di chimica non sanno ancora in quale pagina è scritto il loro avvenire, che dipenderà in concreto da un’infinità di accidenti, ma sanno già di avere davanti un destino professionale che ha tra le sue prerogative la vittoria e la sconfitta, il successo e il fallimento.
Fin qui si è parlato solo della chimica nella vita dell’individuo, ma non si può dimenticare l’attenzione che Primo Levi dedica alla chimica della natura e ai suoi processi.
Va ricordato infine lo stretto legame che Primo Levi stabilisce tra chimica e letteratura, tanto a livello di procedimenti (“pesare”, “misurare”, “dividere”, “connettere ad incastro”, “penetrare la materia”) quanto a livello di linguaggio. Egli scrive ne L’altrui mestiere alcuni pezzi divulgativi sul linguaggio specifico della chimica, e negli anni della piena maturità si interroga sui limiti oltre i quali si dovrebbero arrestare le ricerche scientifiche, giungendo a ipotizzare una sorta di “giuramento di Ippocrate” che dovrebbe essere sottoscritto da ogni studioso di discipline scientifiche.
Se questo è un uomo
Con queste nostre facce vuote, con questi crani tosati, con questi abiti di vergogna, fare un esame di chimica. E sarà in tedesco, evidentemente; e dovremo comparire davanti a un qualche biondo Ario Doktor sperando che non dovremo soffiarci il naso, perché forse lui non saprà che noi non possediamo fazzoletto, e non si potrà certo spiegarglielo. (pp.98-9)
Io so che non sono della stoffa di quelli che resistono, sono troppo civile, penso ancora troppo, mi consumo al lavoro. Ed ora so anche che mi salverò se diventerò Specialista, e diventerò Specialista se supererò un esame di chimica. (p. 99)
E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato...» (p. 102)
Eppure sono proprio io, il laureato di Torino, anzi, particolarmente in questo momento è impossibile dubitare della mia identità con lui, infatti il serbatoio dei ricordi di chimica organica, pur dopo la lunga inerzia, risponde alla richiesta con inaspettata docilità; e ancora, questa ebrietà lucida, questa esaltazione che mi sento calda per le vene come la riconosco, è la febbre degli esami, la mia febbre dei miei esami, quella spontanea mobilitazione di tutte le facoltà logiche e di tutte le nozioni che i miei compagni di scuola tanto mi invidiavano. (ibidem)
Finora, i vantaggi di essere nel Kommando Chimico si sono limitati a questi: gli altri hanno ricevuto i cappotti e noi no; gli altri portano sacchi di cinquanta chili di cemento, e noi sacchi di sessanta chili di fenilbeta. Come pensare ancora all'esame di chimica e alle illusioni di allora? (p. 133)
L'odore mi fa trasalire come una frustata: il debole odore aromatico dei laboratori di chimica organica. Per un attimo, evocata con violenza brutale e subito svanita, la grande sala semibuia dell'università, il quarto anno, l'aria mite del maggio in Italia. (pp. 135-6)
Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. (p. 200)
Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. (p. 201)
Il sistema periodico
Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici, ma le nostre aspettazioni e speranze erano diverse. Enrico chiedeva alla chimica, ragionevolmente, gli strumenti per il guadagno e per una vita sicura. Io chiedevo tutt'altro: per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. (p. 758)
Saremmo stati chimici, Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre forze, col nostro ingegno: avremmo stretto Proteo alla gola, avremmo troncato le sue metamorfosi inconcludenti, da Platone ad Agostino, da Agostino a Tommaso, da Tommaso a Hegel, da Hegel a Croce. Lo avremmo costretto a parlare. (p. 759)
D'altronde, lavorare il vetro non è chimica: noi eravamo in laboratorio con un altro scopo. Il nostro scopo era quello di vedere coi nostri occhi, di provocare con le nostre mani, almeno uno dei fenomeni che si trovavano descritti con tanta disinvoltura sul nostro testo di chimica. (p. 761)
Avevamo assistito per cinque mesi, pigiati come sardine e reverenti, alle lezioni di Chimica Generale ed Inorganica del Professor P., riportandone sensazioni varie, ma tutte eccitanti e nuove. No, la chimica di P. non era il motore dell'Universo né la chiave del Vero: P. era un vecchio scettico ed ironico, nemico di tutte le retoriche (per questo, e solo per questo, era anche antifascista), intelligente, ostinato, ed arguto di una sua arguzia trista. (p. 764)
Di lui si narrava inoltre che avesse speso l'intera sua carriera accademica per demolire una certa teoria di stereochimica, non con esperimenti, ma con pubblicazioni. Gli esperimenti li faceva un altro, il suo grande rivale, in non si sa quale parte del mondo: li pubblicava via via sugli Helvetica Chimica Acta, e lui li faceva a pezzi uno per uno. (pp. 764-5)
Aveva scelto Chimica perché gli era sembrata meglio che un altro studio: era un mestiere di cose che si vedono e si toccano, un guadagnapane meno faticoso che fare il falegname o il contadino. (p.774)
La nobiltà dell'Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e [che] io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. (ibidem)
Non provava ribrezzo per tutti i dogmi, per tutte le affermazioni non dimostrate, per tutti gli imperativi? Lo provava: ed allora, come poteva non sentire nel nostro studio una dignità e una maestà nuove, come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l'antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali? (p. 775)
Vedere Sandro in montagna riconciliava col mondo, e faceva dimenticare l'incubo che gravava sull'Europa. […] Suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano il mio bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi avevano spinto alla chimica. (p. 778)
Un chiodo entra o non entra: la corda tiene o non tiene; anche queste erano fonti di certezza. La chimica, per me, aveva cessato di esserlo. Conduceva al cuore della Materia, e la Materia ci era alleata appunto perché lo Spirito, caro al fascismo, ci era nemico; ma, giunto al IV anno di Chimica Pura, non potevo più ignorare che la chimica stessa, o almeno quella che ci veniva somministrata, non rispondeva alle mie domande. (p. 784)
Esistevano teoremi di chimica? No: perciò bisognava andare oltre, non accontentarsi del «quia», risalire alle origini, alla matematica ed alla fisica. (ibidem)
Le origini della chimica erano ignobili, o almeno equivoche: gli antri degli alchimisti, la loro abominevole confusione di idee e di linguaggio, il loro confessato interesse all'oro, i loro imbrogli levantini da ciarlatani o da maghi; alle origini della fisica stava invece la strenua chiarezza dell'occidente, Archimede ed Euclide. (ibidem)
Distillare è bello. Prima di tutto, perché è un mestiere lento, filosofico e silenzioso, che ti occupa ma ti lascia tempo di pensare ad altro, un po' come l'andare in bicicletta. Poi, perché comporta una metamorfosi: da liquido a vapore (invisibile), e da questo nuovamente a liquido; ma in questo doppio cammino, all'in su ed all'in giù, si raggiunge la purezza, condizione ambigua ed affascinante, che parte dalla chimica ed arriva molto lontano. (p. 789)
L'Assistente mi guardava con occhio divertito e vagamente ironico: meglio non fare che fare, meglio meditare che agire, meglio la sua astrofisica, soglia dell'Inconoscibile, che la mia chimica impastata di puzze, scoppi e piccoli misteri futili. (p. 791)
Io pensavo ad un'altra morale, più terrena e concreta, e credo che ogni chimico militante la potrà confermare: che occorre diffidare del quasi-uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla), del praticamente identico, del pressapoco, dell'oppure, di tutti i surrogati e di tutti i rappezzi.Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse, come gli aghi degli scambi; il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico. (ibidem)
Avevo in un cassetto una pergamena miniata, con su scritto in eleganti caratteri che a Primo Levi, di razza ebraica, veniva conferita la laurea in Chimica con 110 e lode: era dunque un documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno, mezzo assoluzione e mezzo condanna. (p. 792)
Che cos'era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient'altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no, anche lì il grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata. (p. 802)
Per quella roccia senza pace provavo un affetto fragile e precario: con essa avevo contratto un duplice legame, prima nelle imprese con Sandro, poi qui, tentandola come chimico per strapparle il tesoro. (p. 803)
Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono «le due esperienze della vita adulta» di cui parlava Pavese, il successo e l'insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. (p. 804)
Ora, il serpentino è il padre dell'amianto: se l'amianto si decompone a 8oo°C, anche il serpentino dovrebbe farlo; e, poiché un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli, mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole sulla carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato fra le loro maglie, e poi le stesse dopo lo sconquasso, ridotte a corti mozziconi, col nichel scovato dalla sua tana ed esposto all'attacco; e non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l'antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell'indomani fosse fortunata. (p. 805)
Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c'è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. (p. 807)
Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante. (ivi, p. 809)
Io, dopo il matrimonio di Giulia, ero rimasto solo coi miei conigli, mi sentivo vedovo ed orfano, e fantasticavo di scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far capire ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana: ed in fatto l'ho poi scritta, ma molti anni più tardi, ed è la storia con cui questo libro si conclude. (ibidem)
Uscirono dall'ombra uomini che il fascismo non aveva piegati, avvocati, professori ed operai, e riconoscemmo in loro i nostri maestri, quelli di cui avevamo inutilmente cercato fino allora la dottrina nella Bibbia, nella chimica, in montagna. (p.851)
Certo, che avrei cercato l'oro: non per arricchire, ma per sperimentare un'arte nuova, per rivisitare la terra l'aria e l'acqua, da cui mi separava una voragine ogni giorno più larga; e per ritrovare il mio mestiere di chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la «Scheidekunst», appunto, l'arte di separare il metallo dalla ganga. (p. 858)
Che io chimico, intento a scrivere qui le mie cose di chimico, abbia vissuto una stagione diversa, è stato raccontato altrove. (p. 860)
Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico (anche questo è già stato raccontato), e rubavo per mangiare. (pp. 860-1)
È il grande problema dell'imballaggio, che ogni chimico esperto conosce: e lo conosceva bene il Padre Eterno, che lo ha risolto brillantemente, da par suo, con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia multipla degli aranci, e la nostra pelle, perché liquidi infine siamo anche noi. (p. 861)
Io, vacante come chimico ed in stato di piena alienazione (ma allora non si chiamava così), scrivevo disordinatamente pagine su pagine dei ricordi che mi avvelenavano, ed i colleghi mi guardavano di sottecchi come uno squilibrato innocuo. (p. 871)
Così impostato, mezzo chimico e mezzo poliziesco, il problema mi attirava: lo andavo riconsiderando quella sera (era un sabato sera), mentre uno dei fuligginosi e gelidi treni merci di allora mi trascinava verso Torino. (p. 872)
Lo stesso mio scrivere diventò un'avventura diversa, non più l'itinerario doloroso di un convalescente, non più un mendicare compassione e visi amici, ma un costruire lucido, ormai non più solitario: un'opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché. (ivi, pp.872-3)
La diagnosi era confermata e la patogenesi scoperta: si trattava adesso di definire la terapia. Questa fu trovata abbastanza presto, attingendo alla buona chimica inorganica, lontana isola cartesiana, paradiso perduto per noi pasticcioni organisti e macromolecolisti: occorreva neutralizzare in qualche modo, entro il corpo malato di quella vernice, l'eccesso di basicità dovuto all'ossido di piombo libero. (p. 876)
Si levò nell'aria polluta del laboratorio l'odore domestico ed infantile dello zucchero bruciato, ma subito dopo la fiamma si fece livida e si percepì un odore ben diverso, metallico, agliaceo, inorganico, anzi, controorganico: guai se un chimico non avesse naso. (p. 886)
Collega che leggi, non ti stupire troppo di questa chimica precolombiana e rigattiera: in quegli anni non eravamo i soli, né i soli chimici, a vivere così, ed in tutto il mondo sei anni di guerra e di distruzioni avevano fatto regredire molte abitudini civili ed attenuato molti bisogni, primo fra tutti il bisogno del decoro. (p. 887)
Infatti, accade anche in chimica, come in architettura, che gli edifici «belli», e cioè simmetrici e semplici, siano anche i più saldi: avviene insomma per le molecole come per le cupole delle cattedrali o per le arcate dei ponti. (p. 893)
Riconosciuta ed apprezzata la virtù strutturale dell'allossana, è urgente che tu chimico interlocutorio, così amante delle digressioni, te ne torni alla tua carreggiata, che è quella di fornicare con la materia allo scopo di provvedere al tuo sostentamento: ed oggi, non più solo al tuo. (p. 894)
Giù il cappello davanti al Chemisches Zentralblatt: è la Rivista delle Riviste, quella che, da quando esiste la Chimica, riporta sotto forma di riassunto rabbiosamente conciso tutte le pubblicazioni d'argomento chimico che appaiono su tutte le riviste del mondo. (p. 894)
Non era quella la via per uscire dalla palude: per quale via ne sarei dunque uscito, io autore sfiduciato di un libro che a me sembrava bello, ma che nessuno leggeva? Meglio ritornare fra gli schemi scoloriti ma sicuri della chimica inorganica. (ibidem)
Vola, adesso: volevi essere libero e sei libero, volevi fare il chimico e fai il chimico. Orsù, grufola tra veleni, rossetti e sterco pollino; granula lo stagno, versa acido cloridrico, concentra, travasa e cristallizza, se non vuoi patire la fame, e la fame la conosci. Compera stagno e vendi cloruro stannoso. (pp. 898-9)
Il mattino dopo si raccoglie il cloruro e lo si mette a scolare: e devi fare bene attenzione a non toccarlo con le mani, se no ti attacca addosso un odore disgustoso. Questo sale, di per sé, è inodore, ma reagisce in qualche modo con la pelle, forse riducendo i ponti di solfuro della cheratina, e ne libera un tanfo metallico persistente che ti denuncia come chimico per diversi giorni. (p. 901)
[Il SAC] è forse la più igienica delle specialità che costituiscono il Decathlon del chimico di fabbrica: quella che meglio lo allena nell'eloquenza e nell'improvvisazione, nella prontezza dei riflessi e nella capacità di capire e di farsi capire; inoltre, ti fa girare l'Italia e il mondo, e ti mette a confronto con gente varia. (p. 905)
Guai, ad esempio, a fare discorsi chimici con un non chimico: questo è l'abc del mestiere. (ibidem)
Appena mi fu decentemente possibile, mi cacciai in laboratorio, il che, per un chimico del SAC, è un'iniziativa inusitata e vagamente sconveniente. (p. 910)
Naturalmente, diciassette anni non li hai più da un pezzo, ed inoltre la lunga carriera di attività parachimiche ti ha mortificato, ti ha reso atrofico, impedito, ignaro della collocazione dei reagenti e delle apparecchiature, immemore di tutto salvo che delle reazioni fondamentali. (ibidem)
Ma gli anni di non-uso non ti fanno dimenticare alcuni tic professionali, alcuni comportamenti stereotipi che ti fanno riconoscere come chimico in qualsiasi circostanza: tentare la materia incognita con l'unghia, col temperino, annusarla, sentire con le labbra se è «fredda» o «calda», provare se incide o no il vetro della finestra, osservarla in luce riflessa, soppesarla nel cavo della mano. (ibidem)
Con involontaria comicità, il testo concludeva dicendo: «... in un'atmosfera di rinnovato cameratismo, celebreremo le nostre nozze d'argento con la Chimica narrandoci a vicenda gli eventi chimici della nostra vita quotidiana». Quali eventi chimici? La precipitazione degli steroli entro le nostre arterie cinquantenni? L'equilibrio di membrana delle nostre membrane? (p. 912)
La sua carriera era stata ricca di eventi, anche se per lo più, appunto, non erano stati che in bianco e nero: anche la mia? Certo, gli confermai: chimici e non chimici, ma negli ultimi anni gli eventi chimici avevano prevalso, per frequenza e intensità. (p. 914)
Gli dissi che […] in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d'uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia. (pp. 914-5)
Forse ancora meno: forse si era soltanto risentito per il fatto che quello strano ibrido di collega e di strumento, che pure insomma era un chimico, frequentasse un laboratorio senza l'Anstand, il decoro, che il laboratorio richiede; ma gli altri intorno a lui non avevano sentito neppure questo. (pp.925-6)
Nel maggio del '44 aveva potuto (come me!) far valere la sua qualità di chimico, ed era stato assegnato alla fabbrica di Schkopau della IG-Farben, di cui la fabbrica di Auschwitz era una copia ingrandita: a Schkopau aveva provveduto ad addestrare nei lavori di laboratorio un gruppo di ragazze ucraine, che infatti io avevo ritrovate ad Auschwitz, e di cui non mi spiegavo la strana familiarità col dottor Müller. (p. 929)
Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica: la mia presunzione non giunge a tanto, «ma voix est foible, et mème un peu profane». (p. 934)
Giunto a questo punto della vita, quale chimico, davanti alla tabella del Sistema Periodico, o agli indici monumentali del Beilstein o del Landolt, non vi ravvisa sparsi i tristi brandelli, o i trofei, del proprio passato professionale? (ibidem)
Ogni studente in chimica, davanti ad un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga o formula o parola, sta scritto il suo avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari «poi»: dopo il successo o l'errore o la colpa, la vittoria o la disfatta. Ogni chimico non più giovane, riaprendo alla pagina «verhängnisvoll» quel medesimo trattato, è percosso da amore o disgusto, si rallegra o dispera. (ibidem)
È lecito parlare di «un certo » atomo di carbonio? Per il chimico esiste qualche dubbio, perché non si conoscono fino ad oggi (1970) tecniche che consentano di vedere, o comunque isolare, un singolo atomo; nessun dubbio esiste per il narratore, il quale pertanto si dispone a narrare. (ibidem)
Questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, dell'anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato finora descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto esso è diverso da quell'altra chimica «organica» che è opera ingombrante, lenta e ponderosa dell'uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata «inventata» due o tre miliardi d'anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell'ambiente in cui vivono. (pp. 936-7)
I sommersi e i salvati
Così mi accorsi che il tedesco del Lager, scheletrico, urlato, costellato di oscenità e di imprecazioni, aveva soltanto una vaga parentela col linguaggio preciso e austero dei miei testi di chimica, e col tedesco melodioso e raffinato delle poesie di Heine che mi recitava Clara, una mia compagna di studi. (p. 1066)
Insieme col bagaglio di nozioni pratiche, avevo ricavato dagli studi, e mi ero portato dietro in Lager, un mal definito patrimonio di abitudini mentali che derivano dalla chimica e dai suoi dintorni, ma che trovano applicazioni più vaste. Se io agisco in un certo modo, come reagirà la sostanza che ho tra le mani, o il mio interlocutore umano? Perché essa, o lui, o lei, manifesta o interrompe o cambia un determinato comportamento? Posso anticipare cosa avverrà intorno a me fra un minuto, o domani, o fra un mese? Se sì, quali sono i segni che contano, quali quelli da trascurarsi? Posso prevedere il colpo, sapere da che parte verrà,pararlo, sfuggirlo? (pp. 1101-2 )
Mi sono spesso posto una domanda futile: che cosa sarebbe successo se il libro avesse avuto subito una buona diffusione? Forse niente di particolare: è probabile che avrei continuato la mia faticosa vita di chimico che diventava scrittore alla domenica (e neanche tutte le domeniche); o forse invece mi sarei lasciato abbagliare ed avrei, chissà con quale fortuna, issato le bandiere dello scrittore in grandezza naturale. (p. 1124)
L'altrui mestiere
Il mio destino, aiutato dalle mie scelte, mi ha tenuto lontano dagli assembramenti: troppo chimico, e chimico per troppo tempo, per sentirmi un autentico uomo di lettere; troppo distratto dal paesaggio, variopinto, tragico o strano, per sentirmi chimico in ogni fibra. (p. 631)
Qualche volta mi sento chiedere, con curiosità o anche con burbanza, come mai io scrivo pur essendo un chimico. Mi auguro che questi miei scritti, entro i loro modesti limiti d'impegno e di mole, facciano vedere che fra le «due culture» non c'è incompatibilità: c'è invece, a volte, quando esiste la volontà buona, un mutuo trascinamento. (p. 632)
Credo che ogni mio collega chimico lo potrà confermare: si impara più dai propri errori che dai propri successi. (p. 642)
Ci sono altri benefici, altri doni che il chimico porge allo scrittore. L'abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. (ibidem)
La chimica è l'arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C'è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. (ibidem)
Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: «nero come...»; «amaro come...»; vischioso, tenace, greve, fetido, fluido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene, e per ognuna di esse sa scegliere una sostanza che la possiede in misura preminente ed esemplare. (ibidem)
Io ex chimico, ormai atrofico e sprovveduto se dovessi rientrare in un laboratorio, provo quasi vergogna quando nel mio scrivere traggo profitto di questo repertorio: mi pare di fruire di un vantaggio illecito nei confronti dei miei neo-colleghi scrittori che non hanno alle spalle una militanza come la mia. (ibidem)
Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo. (p. 643)
Ritornando alla chimica, in bacalite è evidente l'accostamento fra la veterana delle materie plastiche, rigida giallastra e puzzolente, e il pesce di poco prezzo, talmente irrigidito dal sale di cui è imbevuto da meritarsi il nome di «pesce bastone» (Stockfisch in tedesco, da cui, ancora per etimologia popolare, ed insistendo sulla rigidità, è venuto l'italiano stoccafisso) (p. 666)
I centomila minuscoli parassiti pompano linfa e ingrossano in silenzio, ma anche le creature meglio garantite devono pure avere o sviluppare un'arte per coprirsi le spalle. La loro arte è un'arte chimica di tutto rispetto: trasformano il succo vegetale in una resina dalle proprietà non banali e non vili, la gommalacca, appunto. (p. 695)
Ogni anno che passa conferma che i meccanismi della vita non sono eccezioni alle leggi della chimica e della fisica, ma in pari tempo si allarga sempre più il solco che ci separa dalla comprensione ultima dei fenomeni vitali. (p. 711)
Benché il loro mestiere sia più recente che quello dei teologi, dei vignaioli o dei pescatori, anche i chimici, fin dalle loro origini, hanno sentito la necessità di dotarsi di un loro linguaggio specializzato.(p. 741)
Ora, la chimica non è nata intera come Minerva, bensì faticosamente, attraverso le prove e gli errori pazienti ma ciechi di tre generazioni di chimici che parlavano lingue diverse e che spesso comunicavano fra loro solo per lettera; perciò, la chimica del secolo scorso si è andata consolidando attraverso una terribile confusione di linguaggi, i cui resti persistono nella chimica di oggi. Lasciamo da parte per ora la chimica inorganica, che ha problemi relativamente più semplici e che merita un discorso a parte. Nella chimica organica, cioè nella chimica dei composti del carbonio, confluiscono almeno tre diversi modi di esprimersi (ibidem)
Quando ero chimico in servizio effettivo soffrivo caldi, geli e paure, e non avrei mai pensato che, dopo il distacco dal mio vecchio mestiere, avrei potuto provarne la nostalgia. (p. 746)
Ho davanti a me la tabella degli elementi chimici, il «sistema periodico», e provo nostalgia, come davanti alle fotografie scolastiche, i compagni di scuola col cravattino e le compagne con la vereconda tunica nera: «ad uno ad uno tutti vi ravviso...» (ibidem)
Non potremmo, ad esempio, portare sul tavolo dei «vertici» internazionali una vecchia proposta, che si ispira al giuramento che Ippocrate aveva formulato per i medici? Che ogni giovane che intenda dedicarsi alla fisica, alla chimica, alla biologia, giuri di non intraprendere ricerche e studi palesemente nocivi al genere umano? (pp.784-785)
Proporrei che i chimici (o gli ex chimici, come me) della mia generazione, quando vengono fra loro presentati, si mostrino a vicenda il palmo della mano destra… (p. 810)
Questo, nel palmo della mano operante, era il nostro segno: di chimici ancora un poco alchimisti, ancora un poco costituiti in setta segreta. (ibidem)
Nonostante gli inconvenienti sopra detti, credo che ogni chimico conservi del laboratorio universitario un ricordo dolce e pieno di nostalgia. (p. 814)
Sono diventato un chimico non (o non solo) per il bisogno di comprendere il mondo intorno a me; non come reazione alle verità dogmatiche e fumose della Dottrina del Fascismo; non nella speranza della gloria scientifica o dei quattrini, ma per trovare o costruirmi un'occasione di esercitare il mio naso. (p. 837)
Compagno
Dal latino medievale companio–onis, composto di cum "insieme con" e panis "pane", propriamente "colui che mangia il pane con un altro", calco di una voce germanica.
Nelle occorrenze esaminate il termine conserva il valore etimologico originario per cui “compagno” è colui che condivide lo stesso destino di un altro. Compagni sono, in Se questo è un uomo, gli altri prigionieri, per i quali si prova un naturale sentimento di solidarietà, che spesso le condizioni di vita durissime possono oscurare. Ma compagni sono anche i colleghi cristiani dell’università, compagna di studi è Giulia di Fosforo, «i compagni di viaggio» sono presenti nelle poesie e uno strano compagno è anche il contrabbandiere di Oro. C’è anche un’accezione astratta del termine, che si riferisce ai sentimenti e alle sensazioni che si insediano nell’individuo e non lo abbandonano, come un insistente leit-motiv.
Se questo è un uomo
Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l'acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude. (p.16)
Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua a suonare altre marce, una dopo l'altra, ed ecco apparire i drappelli dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro. (p.24)
No, in verità, in questo mio compagno di oggi, aggiogato oggi con me sotto lo stesso carico, non sento un nemico né un rivale. (p.36)
Chajim è il mio compagno di letto, ed io ho in lui una fiducia cieca. Èun polacco, ebreo pio, studioso della Legge. (p.41)
Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. (p.45)
Occorre procurarsi daccapo cucchiaio e coltello; infine, e questa è la circostanza più grave, ci si trova intrusi in un ambiente sconosciuto, fra compagni mai visti e ostili, con capi di cui non si conosce il carattere e da cui quindi è difficile guardarsi. (p.50)
Si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi accetterà. (p.87)
E avremo addosso la nostra vecchia compagna fame, e stenteremo a stare immobili sulle ginocchia, e lui sentirà certamente questo nostro odore, a cui ora siamo avvezzi, ma che ci perseguitava i primi giorni: l'odore delle rape e dei cavoli crudi cotti e digeriti.(p.99)
Ma non appena, al mattino, io mi sottraggo alla rabbia del vento e varco la soglia del laboratorio, ecco al mio fianco la compagna di tutti i momenti di tregua, del Ka-Be e delle domeniche di riposo: la pena del ricordarsi, il vecchio feroce struggimento di sentirsi uomo, che mi assalta come un cane all'istante in cui la coscienza esce dal buio. (pp.137-8)
- Kameraden, ich bin der Letzte! - (Compagni, io sono l'ultimo!). (p. 145)
E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale. (p. 201)
La tregua
Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà. (p.208)
Mi rispose in yiddish, con una frase breve che non compresi: allora tradusse in tedesco: «Sein Kamerad ruft ihn», il suo compagno lo chiama. (p.223)
Erano allegri, tristi e stanchi, e si compiacevano del cibo e del vino, come i compagni di Ulisse dopo tirate in secco le navi. (p.250)
D'Agata non aveva tempo di sognare, perché era ossessionato dal terrore delle cimici. Queste incomode compagne non piacevano a nessuno, naturalmente; ma tutti avevamo finito col farci l'abitudine. (p.294)
Il sistema periodico
I compagni cristiani erano gente civile, nessuno fra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico, ma li sentivo allontanarsi, e, seguendo un comportamento antico, anch'io me ne allontanavo. (p.773)
Già lavorava nel suo laboratorio, e sullo stesso argomento, una persona che io conoscevo bene, una mia compagna di studi, una mia amica, che anzi gli aveva parlato di me: Giulia Vineis. (p. 834)
Mi sentivo attanagliato da un'invidia dolorosa per il mio ambiguo compagno, che presto sarebbe ritornato alla sua vita precaria ma mostruosamente libera, al suo inesauribile rigagnolo d'oro, ad una fila di giorni senza fine. (p. 859)
Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni. (p. 861)
Lui, tuttora fermamente abbarbicato a due dei tre suoi compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell'aria. (p. 936)
Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. (p. 938)
I sommersi e i salvati
Il compagno che oggi aveva lavorato al suo fianco, domani non c'era più: poteva essere nella baracca accanto, o cancellato dal mondo; non c'era modo di saperlo. (p. 1002)
Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. (p. 1018)
Sotto questo aspetto, la mia visione del mondo è stata diversa da, e complementare con, quella del mio compagno ed antagonista Améry. (p. 1102)
L'altrui mestiere
Di recente ho rivisto un vecchio compagno di prigionia e abbiamo fatto i discorsi dei reduci; le nostre mogli si sono accorte, e ci hanno fatto notare, che in due ore di colloquio non avevamo rievocato un solo ricordo doloroso, ma soltanto i rari momenti di remissione, o gli episodi bizzarri. (p.746)
«Arcano è tutto | fuor che il nostro dolor»; le certezze del laico sono poche, ma la prima è questa: è ammissibile soffrire (e far soffrire) solo a compenso di una maggior sofferenza evitata a sé o ad altri.
È una norma semplice, ma le sue conseguenze sono complesse, ed ognuno lo sa. Come commisurare i dolori degli altri coi propri? Ma il solipsismo è una fantasia puerile: gli «altri» esistono, e fra questi anche gli animali nostri compagni di viaggio. (p. 674)
Ad ora incerta
12 luglio 1980
Abbi pazienza, mia donna affaticata,
Abbi pazienza per le cose del mondo,
Per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,
Dal momento che ti sono toccato in sorte.
Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici
Per questo tuo compleanno rotondo.
Abbi pazienza, mia donna impaziente,
Tu macinata, macerata, scorticata,
Che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno
Perché la carne nuda ti faccia più male.
Non è più tempo di vivere soli.
Accetta, per favore, questi 14 versi,
Sono il mio modo ispido di dirti cara,
E che non starei al mondo senza te.
12 luglio 1980
(p. 556)
Comprendere
COMPRENDERE, COMPRENSIONE, (IN)COMPRENSIBILE
Dal latino comprehendere, “afferrare, contenere, racchiudere, abbracciare con la mente”. Il termine e i suoi derivati (comprensione, incomprensibile) si presentano con almeno quattro accezioni fondamentali. La prima accezione di “incomprensibile” appare in Se questo è un uomo e può essere considerata un equivalente sinonimico di “imperscrutabile”: incomprensibili sono gli eventi che sfuggono, oltre che alle facoltà umane, anche alla capacità predittiva dell’individuo e sembrano essere determinati in una sfera inaccessibile all’uomo. Ovviamente con ciò non si allude a nulla di trascendente, bensì a una nozione presente nell’opera di Levi e nella sua stessa esperienza: l’idea di destino, di casualità fortuita ma determinante, fatale. A riprova di ciò si possono portare due esempi significativi. Le storie che i deportati narrano gli uni agli altri la sera sono tutte «piene di una tragica sorprendente necessità», «incomprensibili come le storie della Bibbia»; dopo l’esame di chimica in Lager Levi rimane a osservare attonito «la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca». Nell’ultima citazione il destino dello scrittore è scritto da un nazista in caratteri doppiamente incomprensibili, incomprensibili letteralmente perché appartenenti a una lingua straniera e incomprensibili nel loro contenuto perché soggetti solo alla volontà impenetrabile dell’esaminatore, che in quel momento e in quel contesto si sostituisce al destino.
Incomprensibile perché irrazionale e dipendente da regole assurde delle quali in un primo momento i prigionieri non riescono a capacitarsi è l’universo del Lager. Sul fondo di una gamella per il rancio un deportato ha scritto, in francese, “Ne pas chercher à comprendre”. Lo sforzo per comprendere quanto accade in Lager si rivela del tutto vano: non c’è tempo per capire, non è possibile trovare un appiglio per ricostruire un senso, la stessa morte a volte sopraggiunge senza che il singolo riesca a comprenderla. L’ingranaggio del Lager è concepito in modo tale che i prigionieri non si rendano conto fino in fondo della struttura del campo e del numero reale di persone che lo abitano; la loro capacità di comprensione è attutita e quasi smorzata dal sistema in cui sono loro malgrado inseriti.
Nella vita umana in generale invece la comprensione di sé stessi e del mondo circostante è indispensabile per molte ragioni. È propria dell’uomo la tensione non solo verso la conoscenza, ma anche verso la comprensione, l’appropriazione intellettuale dei fenomeni. La chimica permette di comprendere profondamente la materia, di scomporla e ricomporla nei suoi elementi semplici. In questo esiste un’analogia tra il mestiere del chimico e il mestiere del testimone perché anche quest’ultimo deve necessariamente svolgere un processo di semplificazione della propria esperienza affinché essa possa essere trasmessa agli altri e risultare comprensibile. Ne I sommersi e i salvati lo scrittore interrogandosi sul lavoro di divulgazione compiuto dai reduci afferma che «ciò che comunemente intendiamo per comprendere coincide con semplificare»: affinché la parola del testimone sia credibile ed efficace è necessaria, a monte, un’operazione di sobrietà che bandisca ogni forma di retorica in favore di una narrazione obiettiva di fatti e circostanze.
Comprendere un concetto significa semplificarlo per costruirsi uno schema mentale, un modello di riferimento che serva a decifrarlo e a possederlo stabilmente, ed infatti in Carbonio viene detto che «comprendere vale farsi un’immagine».
Nell’Appendice a Se questo è un uomo Levi riflette sull’etimologia del verbo “comprendere”. Nell’accezione su cui si sofferma Levi “comprendere” un’azione significa poterla “contenere”, potersi immedesimare con il suo autore. Per quanto riguarda i crimini nazisti occorre distinguere tra la necessità di “conoscere” la storia dello sterminio e l’impossibilità per un uomo normale di “comprendere” i fatti accaduti e mettersi nei panni dei criminali. Ma se teniamo presente la seconda accezione del termine (quella riguardante l’universo concentrazionario) il cerchio sembra chiudersi: se la capacità di comprensione dei prigionieri risultava menomata da fattori quali il trauma subito, l’assurdità delle leggi concentrazionarie e le loro condizioni di vita, è auspicabile che nell’uomo contemporaneo la possibilità di comprendere lo sterminio si estingua per un processo naturale. L’evoluzione antropologica che immagina Primo Levi va conseguita sul piano civile e pedagogico attraverso l’educazione alla verità storica e alla pace; per le generazioni allevate nel rispetto dei valori di libertà e tolleranza quanto è accaduto nel cuore dell’Europa nel Novecento sembrerà quasi irreale, una storia di altri uomini e di altre ère geologiche.
Se questo è un uomo
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati così. (p. 15)
Qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all'aperto, sulla neve azzurra e gelida dell'alba, e, scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un'altra baracca, a un centinaio di metri. (p. 20)
Mi ha raccontato la sua storia, e oggi l'ho dimenticata, ma era certo una storia dolorosa, crudele e commovente; chè tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch'esse storie di una nuova Bibbia? (59-60)
Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla. (p.86)
Clausner mi mostra il fondo della sua gamella. Là dove gli altri incidono il loro numero, e Alberto ed io abbiamo inciso il nostro nome, Clausner ha scritto: «Ne pas chercher à comprendre». (p. 99)
Adesso è finito: l'eccitazione che mi ha sostenuto lungo tutta la prova cede d'un tratto ed io contemplo istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca. (p.103)
Nella Buna imperversavano i civili tedeschi, nel furore dell'uomo sicuro che si desta da un lungo sogno di dominio, e vede la sua rovina e non la sa comprendere. (p.114)
La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota. (p.115)
Ci odono parlare in molte lingue diverse, che essi non comprendono, e che suonano loro grottesche come voci animali; ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. (p.117)
Ma lo Häftling 174 517 è stato promosso specialista, e ha diritto a camicia e mutande nuove e deve essere raso ogni mercoledì. Nessuno può vantarsi di comprendere i tedeschi. (p.135)
L'uomo che morrà oggi davanti a noi ha preso parte in qualche modo alla rivolta […]. Morrà oggi sotto i nostri occhi: e forse i tedeschi non comprenderanno che la morte solitaria, la morte di uomo che gli è stata riservata, gli frutterà gloria e non infamia. (p.145)
Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l'autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili.(Appendice, p. 197)
La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la «comprendiamo». Ma nell'odio nazista non c'è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell'uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. (Appendice, pp. 197-8)
La tregua
Il barbiere era un gigante bruno, dagli occhi selvaggi e spiritati: esercitava la sua arte con inconsulta violenza, e per ragioni a me ignote portava un mitragliatore a tracolla. «Italiano Mussolini», mi disse bieco, e ai due francesi: «Fransè Laval»; dove si vede quanto poco soccorrano le idee generali alla comprensione dei casi singoli. (p. 214)
Il sistema periodico
Ecco: tutti i filosofi e tutti gli esercizi del mondo sarebbero stati capaci di costruire questo moscerino? No, e neppure di comprenderlo: questa era una vergogna e un abominio, bisognava trovare un'altra strada. (pp. 758-9)
Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell'Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l'universo e noi stessi. (pp. 774-5)
Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono «le due esperienze della vita adulta » di cui parlava Pavese, il successo e l'insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. (p. 804)
Nella maggior parte dei casi, al primo contatto occorre acquistare o conquistare un rango superiore a quello del tuo interlocutore: ma conquistarlo in sordina, con le buone, senza spaventarlo né surclassarlo. Ti deve sentire superiore, ma di poco: raggiungibile, comprensibile.(p. 904)
I sommersi e i salvati
Non conoscevano l'esistenza di altri Lager, magari a pochi chilometri di distanza. Non sapevano per chi lavoravano. Non comprendevano il significato di certi improvvisi mutamenti di condizione e dei trasferimenti in massa. Circondato dalla morte, spesso il deportato non era in grado di valutare la misura della strage che si svolgeva sotto i suoi occhi. (pp. 1001-2)
A distanza di anni, si può oggi bene affermare che la storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall'incomprensione. (p. 1002)
Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per «comprendere» coincide con «semplificare»: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. (p. 1017)
La comprensione della parola, pronunciata o scritta, è necessaria; comporta rapporti umani indispensabili con i vicini di casa, i bottegai, i colleghi, i superiori: sul lavoro, in strada, al bar, con gente straniera, di costumi diversi, spesso ostile. (p. 1060)
L'altrui mestiere
Ogni anno che passa conferma che i meccanismi della vita non sono eccezioni alle leggi della chimica e della fisica, ma in pari tempo si allarga sempre più il solco che ci separa dalla comprensione ultima dei fenomeni vitali. (p. 711)
Elemento
ELEMENTO/I
Dal latino elementum (di origine incerta), con cui i Latini rendevano il greco stoikhêion "principio, rudimento, lettera dell'alfabeto".
Nell’opera leviana si ritrova una fitta casistica di elementi. Sebbene prevalga l’accezione chimica del termine, non mancano altri usi, più inaspettati, che comprovano come la lingua dello scrittore sia profondamente condizionata dalla professione svolta per tutta la vita, che riaffiora come forma di memoria involontaria. All’interno dell’ambito scientifico e chimico il modo in cui Levi parla di elementi è tutt’altro che scontato e presenta diverse particolarità. In primo luogo si riconosce subito nella parola “elemento” una dimensione arcana, che riporta alle sostanze primigenie evocate nelle cosmogonie degli antichi. La fascinazione per questo significato del termine risale agli anni di università, quando la parola tedesca Urstoff incanta Primo Levi perché racchiude in sé l’idea della lontananza nello spazio e nel tempo. Quando si presenta l’occasione esso viene sfruttato in ambito letterario, si pensi ad esempio alla pagine de La tregua in cui il brulicare di individui «scaleni, difettivi e abnormi» per gli spazi dell’Europa dell’Est subito dopo il secondo conflitto mondiale è paragonato al moto dei quattro elementi che si spostano alla ricerca della loro sede nelle cosmogonie antiche. Gli elementi della tavola periodica, a cui il chimico è legato da una lunga consuetudine che con il tempo assume i contorni della confidenza, sono trattati ne Il sistema periodico come altrettanti compagni di viaggio e sottoposti frequentemente a un processo di antropomorfizzazione. Degli elementi lo scrittore conosce vizi e virtù, le qualità positive come quelle negative, ed interagisce con loro nel corso delle mille avventure in cui rimane coinvolto in quanto chimico. Ricostruendo le tappe dei vari incontri-scontri con gli elementi chimici è possibile ripercorrere le sconfitte e le vittorie di un’intera carriera lavorativa. Per questa ragione dalla prospettiva della pensione la tavola periodica suscita le stesse emozioni di una vecchia foto dei compagni di classe nella quale si riconoscono con un po' di malinconia i volti un tempo familiari.
Gli elementi chimici però non sono soltanto presenti nei laboratori e sulla tavola periodica: essi si trovano in natura e in questa forma sono impegnati in un dialogo perenne con l’uomo. In sintesi si può dire che il dialogo tra l’uomo e gli elementi procede per due vie, una più recente indicata dagli sperimenti umani nei laboratori, e un’altra praticata da migliaia di anni dall’uomo-fabbro attraverso il lavoro quotidiano per modificare l’ambiente.
Levi mutua dalla chimica anche l’accezione, impiegata in diversi contesti, degli elementi come costituenti semplici di un insieme. L’attitudine analitica porta Levi a considerare di un oggetto o di un’esperienza tutte le diverse componenti e i fattori che entrano in gioco, come quando in Se questo è un uomo descrive i sogni dei prigionieri, presentando al lettore, uno dopo l’altro, i diversi momenti o elementi dei sogni stessi.
Dal punto di vista dei nazisti ciascun prigioniero è paragonabile a un “qualcosa” che può contenere qualche elemento utilizzabile e perciò deve essere sfruttato quanto possibile. Questo tipo di procedimento è però designato più frequentemente come “sfruttamento della materia prima” e se ne parlerà più diffusamente alla scheda “materia”.
Se questo è un uomo
Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l'odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa sì che l'atto non vada a compimento. Allora il sogno si disfa e si scinde nei suoi elementi, ma si ricompone subito dopo, e ricomincia simile e mutato: e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno. (Se questo è un uomo, p. 55)
Cerchiamo invano, quando l'incubo stesso o il disagio ci svegliano, di districarne gli elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal campo dell'attenzione attuale, in modo da difendere il sonno dalla loro intrusione: non appena gli occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in nebbia grigia sullo schermo dei sogni. (pp. 56-7)
Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile» (p. 102)
La tregua
Il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi. (La tregua, p. 226)
Rosso di pelo e di pelle, aveva grossi occhi scialbi ed acquosi e un gran naso ricurvo; il che conferiva all'intera sua persona un aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla luce, o di pesce da preda fuori del suo naturale elemento. (p. 228)
Il sistema periodico
Sono, appunto, talmente inerti, talmente paghi della loro condizione, che non interferiscono in alcuna reazione chimica, non si combinano con alcun altro elemento, e proprio per questo motivo sono passati inosservati per secoli. (Il sistema periodico, p. 741)
C'erano elementi facili e franchi, incapaci di nascondersi, come il ferro ed il rame; altri insidiosi e fuggitivi, come il bismuto e il cadmio. (p. 772)
Incominciavo allora a compitare il tedesco, e mi incantava il termine Urstoff (che vale Elemento: letteralmente, Sostanza primigenia) ed il prefisso Ur che vi compariva, e che esprime appunto origine antica, lontananza remota nello spazio e nel tempo. (ibidem)
Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia. Quale commercio, quale confidenza avevo io avuto, fino allora, coi quattro elementi di Empedocle? Sapevo accendere una stufa? Guadare un torrente? Conoscevo la tormenta in quota? Il germogliare dei semi? No, e dunque anche lui aveva qualcosa di vitale da insegnarmi. (p. 776)
Gli ho anche detto che, secondo me, il piombo è una materia diversa da tutte le altre materie, un metallo che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più: la cenere dì chissà quali altri elementi pieni di vita, che mille e mille anni fa si sono bruciati al loro stesso fuoco. (p. 815)
No, non è un elemento emotivamente neutro: era comprensibile che un professor Kerrn, mezzo biochimico e mezzo stregone, nell'ambiente impregnato di magia nera della Corte nazista, lo avesse designato come medicamentum. (p. 843)
In Largo Cairoli sapevo già tutto: o meglio, possedevo tutti gli elementi di fatto, ma talmente confusi e dislocati nella loro sequenza temporale che non mi era facile cavarne un costrutto. (p. 846)
Durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz, lui «non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all'uccisione degli ebrei». (p. 931)
Così avviene, dunque, che ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza: si deve forse fare un'eccezione per il carbonio, perché dice tutto a tutti, e cioè non è specifico, allo stesso modo che Adamo non è specifico come antenato. (pp. 934-5)
Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un'ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio. (p. 935)
Onore al piccone ed ai suoi più moderni equivalenti: essi sono tuttora i più importanti intermediari nel millenario dialogo fra gli elementi e l'uomo. (ibidem)
Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. (p. 936)
Perciò il carbonio è l'elemento chiave della sostanza vivente: ma la sua promozione, il suo ingresso nel mondo vivo, non è agevole, e deve seguire un cammino obbligato, intricato, chiarito (e non ancora definitivamente) solo in questi ultimi anni. (ibidem)
I sommersi e i salvati
A mio avviso, il senso di vergogna o di colpa che coincideva con la riacquistata libertà era fortemente composito: conteneva in sé elementi diversi, ed in proporzioni diverse per ogni singolo individuo. (I sommersi e i salvati, p. 1048)
Ai giovani nazisti era stato martellato in testa che esisteva al mondo una sola civiltà, quella tedesca; tutte le altre, presenti o passate, erano accettabili solo in quanto contenessero in sé qualche elemento germanico. (p. 1062)
L'altrui mestiere
Ho superato le barriere della timidezza e della pigrizia, ed a sessant'anni compiuti mi sono iscritto ai corsi di un istituto molto serio dove si insegna una lingua straniera che conosco male. Volevo conoscerla meglio, per pura curiosità intellettuale: ne avevo imparato gli elementi ad orecchio, in condizioni disagiate, e l'avevo poi usata per anni per ragioni di lavoro, badando al sodo, cioè a capire e a farmi capire, e trascurandone le singolarità, la grammatica e la sintassi. (L’altrui mestiere, p. 655)
Accanto ad altri elementi più ovvi e triviali, sono questi i segni che si ravvisano sul lastricato quando l'anima vi aderisce come la gomma da masticare, per motivo di accidia, pigrizia o stanchezza. (p. 688)
Si direbbe insomma che la fantasia umana, anche quando non si trova davanti a problemi di verosimiglianza e di stabilità biologica, esiti ad intraprendere vie nuove e preferisca ricombinare elementi costruttivi già noti. (p. 712)
Ho davanti a me la tabella degli elementi chimici, il « sistema periodico», e provo nostalgia, come davanti alle fotografie scolastiche, i compagni di scuola col cravattino e le compagne con la vereconda tunica nera: «ad uno ad uno tutti vi ravviso...» (p. 746)
Delle lotte, sconfitte e vittorie che mi hanno legato ad alcuni elementi, ho già raccontato altrove; così pure, del loro carattere, virtù, vizi e stranezze. Ma adesso il mio mestiere è un altro, è un mestiere di parole, scelte, pesate, commesse a incastro con pazienza e cautela; così, per me anche gli elementi tendono a diventare parole, invece della cosa mi interessa acutamente il suo nome e il perché del suo nome. (ibidem)
Ognuno sa che gli elementi «per bene», quelli esistenti in natura, sia sulla Terra, sia negli astri, sono novantadue, dall'idrogeno all'uranio (veramente, quest'ultimo ha perso negli ultimi decenni un po' della sua buona fama). (ibidem)
I chimici sono stati sempre più discreti; nella mia rassegna ho trovato solo due nomi di elementi che gli scopritori hanno voluto dedicare a se stessi, e sono il Gadolinio (scoperto dal finlandese Gadolin) e il Gallio. (p. 748)
Oltre a questi due, hanno ricevuto nomi personali solo alcuni dei nuovissimi e instabili elementi più pesanti dell'Uranio, ottenuti dall'uomo in quantità minime nei reattori nucleari e negli enormi acceleratori di particelle, e dedicati rispettivamente a Mendeleev, a Einstein, alla signora Curie, ad Alfred Nobel e a Enrico Fermi. (ibidem)
Più di un terzo degli elementi hanno ricevuto nomi che ricordano le loro proprietà più vistose, attraverso itinerari linguistici più o meno arzigogolati. (ibidem)
Solo tre fra gli elementi che hanno ricevuto nomi « descrittivi» attestano uno scatto della fantasia: il Disprosio («l'impervio»), il Lantanio («il nascosto») e il Tantalio. (p. 749)
Oltre al già nominato Germanio, una ventina di elementi hanno ricevuto nomi che ricordano più o meno chiaramente il paese o la città in cui furono scoperti: il Lutezio dal vecchio nome di Parigi, lo Scandio dalla Scandinavia, l'Olmio da Stoccolma, il Renio dal Reno. (ibidem)
Deliberatamente ho lasciato da parte la storia dei nomi degli elementi veterani, noti a tutti, caratterizzati e sfruttati dalle civiltà più antiche mille e mille anni prima che nascesse il primo chimico: il Ferro, l'Oro, l'Argento, il Rame, lo Zolfo, e diversi altri. È una storia complicata ed affascinante, che varrà forse la pena di raccontare a parte. (p. 750)
Chi aveva «perso» un elemento in analisi qualitativa non se ne vantava mai; tanto meno si vantava quello che invece ne aveva «inventato» uno, aveva cioè, nel misterioso grammo di polverina che ci veniva sottoposto, trovato qualcosa che non c'era. Il primo poteva essere un distratto o un miope; il secondo, solo uno sciocco: un conto è non vedere quello c'è, un altro vedere quello che non c'è. (p. 812)
Il pedagogo, professore o assistente, consegnava ad ogni studente una fiala che conteneva, in soluzione, una quantità sconosciuta di un elemento. Bisognava «precipitarlo», cioè renderlo insolubile,mediante un certo reattivo e sotto rigide modalità; raccoglierlo tutto (spesso era un lavoro di ore) su un filtro; lavarlo; essiccarlo; calcinarlo; lasciarlo raffreddare e pesarlo alla bilancia di precisione. (ibidem)
Impurezza
IMPUREZZA, IMPURO
La storia del concetto di “impurezza” nei testi di Levi (soprattutto ne Il sistema periodico) parte dalla chimica per arrivare molto lontano, rivestendosi di implicazioni etiche. Impurezza e purezza sono attributi che riguardano in primisla materia: descrivendo in Potassio il processo di distillazione, lo scrittore afferma che la purezza è «una condizione ambigua e affascinante, che parte dalla chimica ed arriva molto lontano». L’ambiguità di questa condizione deriva dal fatto che tra gli uomini generalmente chi si ritiene puro e senza macchia si sente in diritto di scagliare la prima pietra.
Invece una sostanza impura, diversificata e non omogenea, frammista di altre materie, è in grado di innescare reazioni chimiche, dà adito ai mutamenti e quindi anche alla vita. Secondo la propaganda fascista gli ebrei, “di sangue diverso”, attentavano alla purezza dell’inesistente razza italica ed erano dunque essi stessi impuri. Primo Levi finge di prendere per buono il pregiudizio, lo assume e lo capovolge giungendo a esiti opposti. L’impurezza dà luogo alla vita e per ciò stesso ha una connotazione positiva; anche l’impurezza che viene attribuita agli ebrei ha una connotazione positiva perché significa che essi sono diversi dai fascisti, e per questo Levi inizia a sentirsi fiero di essere “impuro”. L’impurezza di cui Levi va fiero significa rifiuto del conformismo e dell’omologazione, elogio della differenza perché fonte di ricchezza, scarto rispetto alla norma e all’insieme di prescrizioni imposte dal regime. Nel momento in cui si trova a scrivere Carbonio Levi sottolinea che l’anidride carbonica presente nell’aria è, quantitativamente, un «rimasuglio ridicolo, un’impurezza […]», ma per una sorta di scherzo della natura è proprio un’impurezza insignificante a rendere possibile la vita sulla Terra.
In ambito scientifico e in ambito umano non esiste un ordine granitico, predefinito, immobile, bensì esistono un’infinità di casi particolari, di differenze, di eccezioni che fanno sì che il mondo sia come lo conosciamo. La riflessione di Levi sembra dunque una versione approfondita, completa e circostanziata della vecchia massima della saggezza popolare che lo scrittore avrebbe certamente apprezzato: il mondo è bello perché è vario e mai identico a sé stesso.
Il sistema periodico
Come sta scritto in Ezechiele 44.25, un sacerdote che tocchi un morto, o anche solo entri nella camera dove giace un morto, è contaminato e impuro per sette giorni. (p. 745)
Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l'elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l'elogio dell'impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. (p. 768)
Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. (Ibidem)
Non importa: anzi, c'è un terreno di dibattito. Potrebbe addirittura diventare una discussione essenziale e fondamentale, perché ebreo sono anch'io, e lei no: sono io l'impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape. L'impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di « La Difesa della Razza», e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. (pp.769-70)
La storia di quanto era avvenuto incominciava a delinearsi: per qualche motivo, un qualche analista era stato tradito da un metodo difettoso, o da un reattivo impuro, o da un'abitudine scorretta. (p. 874)
L'anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vita, la scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell'aria, bensì un rimasuglio ridicolo, un'«impurezza», trenta volte meno abbondante dell'argon di cui nessuno si accorge. (p. 937)
I sommersi e i salvati
Agli ebrei, nemici per antonomasia, impuri, seminatori di impurezza, distruttori del mondo, era vietata la comunicazione più preziosa, quella col paese d'origine e con la famiglia: chi ha provato l'esilio, in una qualsiasi delle sue tante forme, sa quanto si soffra quando questo nervo viene reciso. (p. 1071)
Si laurea a Vienna in Lettere e Filosofia, non senza qualche scontro con il nascente partito nazionalsocialista: a lui, di essere ebreo non importa, ma per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno alcun peso; la sola cosa che conti è il sangue, ed il suo è impuro quanto basta per farne un nemico del Germanesimo. (p. 1091)
Mano
MANO/MANI
Le mani e gli occhi sono le parti del corpo su cui si concentra maggiormente l’attenzione di Primo Levi narratore. Le mani infatti danno delle informazioni o permettono di fare delle congetture sul lavoro di qualcuno. Alcuni personaggi de Il sistema periodico (Sandro, il contrabbandiere di Oro, il filosofo contadino di Arsenico) ricevono una caratterizzazione anche attraverso le loro mani. Durante l’adolescenza lo scrittore e i suoi amici soffrivano del fatto che le loro mani non fossero educate a compiere lavori pratici, come invece lo erano quelle delle loro madri. La mano è un organo di fondamentale importanza nello sviluppo dell’essere umano perché direttamente collegata al cervello, tanto è vero che l’uso capace delle mani è uno dei tratti distintivi dell’uomo. Il mestiere di chimico consente di valorizzare questa abilità e insegna a conoscere la materia attraverso il tatto; il chimico possiede dunque una mano operante e dotata di una propria intelligenza. Le mani inoltre sono appigli indispensabili durante le arrampicate in montagna e consentono di stabilire un contatto fisico con le rocce e le pietre, la materia prima di cui è fatta la natura. La scrittura, come la chimica, è un’attività in cui sono presenti un aspetto pratico e uno teorico. L’aver ideato una storia o averla tratta dai propri ricordi di per sé non produce nessun effetto sulla pagina: una sinergia tra mano e cervello è indispensabile affinché esista la pagina scritta e dunque la letteratura.
Anche il montatore free lance Tino Faussone, protagonista de La chiave a stella, lavora prevalentemente con le mani montando tralicci e strutture complesse. La sua professione, espressione di una società moderna e “globalizzata”, mantiene un legame con gli antichi mestieri artigiani praticati da secoli in Piemonte; l’amore per il lavoro ben fatto che caratterizza il personaggio gli è stato trasmesso dal padre, battilastra originario delle valli del Canavese.
Se questo è un uomo
Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». (p. 102)
Adesso è finito: l'eccitazione che mi ha sostenuto lungo tutta la prova cede d'un tratto ed io contemplo istupidito e atono la mano di pelle bionda che, in segni incomprensibili, scrive il mio destino sulla pagina bianca. (p. 103)
Lavorare è spingere vagoni, portare travi, spaccare pietre, spalare terra, stringere con le mani nude il ribrezzo del ferro gelato. (p. 137)
La tregua
La sentinella era un mongolo gigantesco sulla cinquantina, armato di mitra e baionetta, dalle enormi mani nodose, dai grigi baffi spioventi alla Stalin e dagli occhi di fuoco: ma il suo aspetto feroce e barbarico era assolutamente incongruente con le sue innocue mansioni. (p. 248)
Il sistema periodico
Guardavo gonfiare le gemme in primavera, luccicare la mica nel granito, le mie stesse mani, e dicevo dentro di me: «Capirò anche questo, capirò tutto, ma non come loro vogliono […]» (p. 758)
Cosa sapevamo fare con le nostre mani? Niente, o quasi. Le donne sì: le nostre madri e nonne avevano mani vive ed agili, sapevano cucire e cucinare, alcune anche suonare il piano, dipingere con gli acquerelli, ricamare, intrecciarsi i capelli. Ma noi, e i nostri padri? (p. 759)
Le nostre mani erano rozze e deboli ad un tempo, regredite, insensibili: la parte meno educata dei nostri corpi. Compiute le prime fondamentali esperienze del gioco, avevano imparato a scrivere e null'altro. (ibidem)
Il nostro scopo era quello di vedere coi nostri occhi, di provocare con le nostre mani, almeno uno dei fenomeni che si trovavano descritti con tanta disinvoltura sul nostro testo di chimica. (p. 761)
Aveva grandi mani callose, un profilo ossuto e scabro, il viso cotto dal sole, la fronte bassa sotto la linea dei capelli, che portava cortissimi e tagliati a spazzola: camminava col passo lungo e lento del contadino. (p. 773)
Sandro andava su roccia più d'istinto che con tecnica, fidando nella forza delle mani, e salutando ironico, nell'appiglio a cui si afferrava, il silicio, il calcio e il magnesio che aveva imparati a riconoscere al corso di mineralogia. (p. 777)
Le sue mani erano sproporzionatamente grosse, nodose, come cotte dal sole e dal vento, e non le teneva mai ferme: ora si grattava, ora le strofinava una sull'altra come se le lavasse, ora tamburellava sulla panca o su una coscia; notai che gli tremavano leggermente. (p. 856)
Ne tengo un po' da parte e lo fondo, due volte all'anno, e lo lavoro: non sono un artista ma mi piace averlo in mano, batterlo col martello, inciderlo, graffiarlo. (p. 858)
Avrebbe potuto essere un filosofo contadino: era un vecchiotto robusto e rubicondo, dalle mani pesanti, deformate dal lavoro e dall'artrite; gli occhi apparivano chiari, mobili e giovanili, nonostante le grosse borse delicate che pendevano vuote sotto le orbite. (p. 885)
Ma gli anni di non-uso non ti fanno dimenticare alcuni tic professionali, alcuni comportamenti stereotipi che ti fanno riconoscere come chimico in qualsiasi circostanza: tentare la materia incognita con l'unghia, col temperino, annusarla, sentire con le labbra se è «fredda» o «calda», provare se incide o no il vetro della finestra, osservarla in luce riflessa, soppesarla nel cavo della mano. (p. 910)
A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d'uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia. (p. 915)
È quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su ed in giù, fra due livelli d'energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo. (p. 942)
La chiave a stella
Non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato e è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come, le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina. (p. 986)
Lui lo diceva, che aveva da morire col martello in mano, e è ben morto cosi, pover’uomo: ma non è poi detto che sia quella la maniera più brutta di morire, perche ce n’è tanti che quando gli tocca smettere di lavorare gli viene l’ulcera o si mettono a bere o cominciano a parlare da per loro, e io credo che lui sarebbe stato uno di questi, ma appunto, è morto prima. (p. 1012)
...Ma mi dica di Tino; sta bene, no? Non prende freddo, su per le impalcature? E per il mangiare? Già lei lo avrà visto, il tipo che è lui. Ha proprio le mani d’oro: è sempre stato così, sa, anche da ragazzo, quando c’era un rubinetto che perdeva, o un guasto alla Singer, o la radio che faceva le scariche, lui metteva tutto a posto in un momento. Pero c’era anche il rovescio della medaglia, nel senso che quando lui studiava, aveva sempre bisogno di avere in mano qualche affarino da smontare e rimontare, e sa bene, smontare è facile e rimontare mica tanto. Ma poi ha imparato, e di malanni non ne ha fatti più. (p. 1089)
Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso. Avevano illustrato e chiarito i suoi racconti imitando volta a volta la pala, la chiave inglese, il martello; avevano disegnato nell’aria stantia della mensa aziendale le catenarie eleganti del ponte sospeso e le guglie dei derrick, venendo a soccorso della parola quando questa andava in stallo. Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida stimola e tira come fa il cane col padrone cieco. (ibidem)
I sommersi e i salvati
Insieme col bagaglio di nozioni pratiche, avevo ricavato dagli studi, e mi ero portato dietro in Lager, un mal definito patrimonio di abitudini mentali che derivano dalla chimica e dai suoi dintorni, ma che trovano applicazioni più vaste. Se io agisco in un certo modo, come reagirà la sostanza che ho tra le mani, o il mio interlocutore umano? (p. 1102)
L'altrui mestiere
La tua libertà di autore è solo apparente. Se, una volta concepito il tuo homunculus, tu lo contrasti, se gli vuoi imporre un gesto avverso alla sua natura, o vietargli un atto che gli sarebbe congeniale, incontri una resistenza, sorda ma indubbia: come se tu volessi comandare alla tua mano di toccare un ferro rovente, o un oggetto che ti (che le) ripugna. Lui, il non-esistente, è li, c'è, pesa, spinge contro la tua mano: vuole e disvuole, silenzioso e testardo. (p. 776)
Si racconta che i massoni si riconoscessero tra loro grattandosi reciprocamente il palmo nell'atto in cui si stringevano la mano. Proporrei che i chimici (o gli ex chimici, come me) della mia generazione, quando vengono fra loro presentati, si mostrino a vicenda il palmo della mano destra: la maggior parte di loro, verso il centro, là dove il tendine flessore del dito medio incrocia quella che i chiromanti chiamano la linea della testa, conserva una piccola cicatrice professionale altamente specifica di cui spiegherò l'origine. (p. 810)
Questo, nel palmo della mano operante, era il nostro segno: di chimici ancora un poco alchimisti, ancora un poco costituiti in setta segreta. (ibidem)
Ora, le cose non stanno cosi: la strage nucleare è possibile, e più o meno probabile a seconda di un gran numero di fattori, ivi compresi i nostri singoli comportamenti, individuali e collettivi. Non è facile dire che cosa dobbiamo fare, ma certamente, in tutte le nostre scelte private e politiche, il fatto che il futuro è anche nelle nostre mani, è plastico e non rigido, non deve essere mai dimenticato. (p. 855)
Materia
Dal latino materia, ciò che costituisce tutti i corpi e ne determina la massa e l'estensione.
L’uso che Primo Levi fa di questo termine serba traccia di due diverse concezioni della materia stessa che possono essere ricondotte per grandi linee a due scuole di pensiero, una filosofica e l’altra scientifica.
Da un lato c’è la materia passiva, antica e “ricca d’inganni”, grande antagonista dello Spirito e dell’intelletto umano che cerca di afferrarla; dall’altro si trova un’idea moderna e scientifica della materia stessa, fatta di atomi e di molecole con i quali il chimico ha a che fare quotidianamente e di cui conosce i segreti.
C’è un sottinteso ironico nelle definizioni che Levi dà della materia ne Il sistema periodico: “non-io”, “Gran Curvo”, “materia stupida” sono tutte formule che fanno il verso alla filosofia idealista e gentiliana in auge nei licei fascisti. In realtà di quella materia, denigrata e trascurata a scuola persino dalle discipline scientifiche, lo scrittore decide di fare il suo mestiere anche per opporsi all’omologazione culturale voluta dal regime fascista.
La materia tende una sfida perpetua all’uomo e i chimici la raccolgono con passione e si gettano nella mischia usando non solo il cervello ma anche le mani, l’olfatto, la vista. Il rapporto con la materia diventa allora confidenziale e non più astratto e coinvolge intensamente la dimensione corporea, al punto che Levi per descrivere il lavoro del chimico usa l’espressione «fornicare con la materia». La materia è trasformazione infinita e il chimico ha imparato a ignorare il ribrezzo che può derivare dal conoscere l’origine prossima delle sostanze che manipola, aiutato in ciò dall’esempio dei “fondatori” della scienza che lavoravano da soli e con scarsi mezzi.
Ma materia è tutto quanto circonda l’uomo e non soltanto gli elementi chimici presenti nei laboratori: in particolare il termine designa le rocce, le pietre e il ghiaccio delle montagne che lo scrittore frequentava da ragazzo. È questa «l’Urstoff senza tempo», la materia primigenia e incontaminata alla quale l’uomo può accedere con uno sforzo di volontà e di muscoli. Salire in montagna, arrampicarsi su sentieri impervi e strade poco battute rappresenta un altro modo di misurarsi con la materia, e le motivazioni che sono alla base delle gite in montagna non sono diverse da quelle che hanno indotto lo scrittore a iscriversi alla facoltà di Chimica. Del termine si danno anche degli usi per così dire “estensivi”. Per descrivere le persone ammassate nel vagone piombato che va verso Auschwitz, Primo Levi parla all’inizio di Se questo è un uomo di «materia umana confusa e continua, torpida e dolorosa». Apparentemente l’accento sembrerebbe posto sulla reificazione degli individui voluta dal nazismo, ma l’aggettivo “umana” è lì per smentire questa interpretazione. L’indistinzione dei corpi ammassati che nel buio si confondono gli uni con gli altri sembra rinviare alla sorte comune che, senza eccezioni, attende tutti; gli uomini e le donne della tradotta sono passivi in senso etimologico, ridotti alla passività e alla sofferenza da altri esseri umani. Sono i due connotati dell’indistinzione e della passività a far scattare il paragone implicito con la materia nella mente del giovane chimico che si trova nel vagone insieme agli altri.
Un altro impiego estensivo della parola “materia”, chiaramente mutuato dalla chimica, pertiene all’ambito letterario. Per Primo Levi le cose viste e fatte, in una parola l’esperienza, devono sostanziare l’attività dello scrittore fornendogli una serie di indispensabili “materie prime”. Nel suo caso specifico la materia prima dello scrivere deriva direttamente dalle sue avventure con la materia vera e propria: quello che di primo acchito suona come un curioso gioco di parole descrive molto bene il doppio legame che unisce i due mestieri dello scrittore.
Infine c’è un uso distorto del termine “materia”, impiegato per spiegare il trattamento che i nazisti riservavano alle spoglie mortali dei prigionieri. Così come i deportati vengono definiti “pezzi”, i loro cadaveri sono considerati “materia bruta” e indifferente, che può trovare qualche impiego industriale. Dal punto di vista dei nazisti gli esseri umani dei campi di concentramento sono delle cose, degli oggetti che devono essere sfruttati finché possono lavorare per il Terzo Reich. Quando non sono più in grado di lavorare vanno senz’altro eliminati, e se i loro cadaveri dopo la cremazione possono in qualche modo servire devono essere utilizzati.
Se questo è un uomo
Allora qualcuno accendeva la lugubre fiammella di una candela, e rivelava, prono sul pavimento, un brulichio fosco, una materia umana confusa e continua, torpida e dolorosa, sollevata qua e là da convulsioni improvvise subito spente dalla stanchezza. (p. 12)
Si ricordi […] l'empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l'oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. (pp.195-6)
Il sistema periodico
Il vetro, per noi, era ciò che non si deve toccare perché si rompe, e invece, ad un contatto più intimo, si rivelava una materia diversa da tutte, di suo genere, piena di mistero e di capriccio. (p. 760)
Era scoccata l'ora dell'appuntamento con la Materia, la grande antagonista dello Spirito: la Hyle, che curiosamente si ritrova imbalsamata nelle desinenze dei radicali alchilici: metile, butile eccetera. (p. 766)
Ognuno si recava allo «spaccio», dove l'irsuto Caselli consegnava la materia prima, esotica o domestica: un pezzetto di marmo a questo, dieci grammi di bromo a quello, un po' d'acido borico a quell'altro, una manciata d'argilla a quell'altro ancora. (p. 766)
Qui la faccenda si faceva seria, il confronto con la Materia-Mater, con la madre nemica, era più duro e più prossimo. (p. 771)
In un modo o nell'altro, qui il rapporto con la Materia cambiava, diventava dialettico: era una scherma, una partita a due. Due avversari disuguali: da una parte, ad interrogare, il chimico implume, inerme, con a fianco il testo dell'Autenrieth come solo alleato […]; dall'altra, a rispondere per enigmi, la Materia con la sua passività sorniona, vecchia come il Tutto e portentosamente ricca d'inganni, solenne e sottile come la Sfinge. (p. 772)
La nobiltà dell'Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e […] io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. […] Vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l'universo e noi stessi. (pp. 774-5)
Potevo anche aver ragione: poteva essere la Materia la nostra maestra, e magari anche, in mancanza di meglio, la nostra scuola politica; ma lui aveva un'altra materia a cui condurmi, un'altra educatrice: non le polverine di Qualitativa, ma quella vera, l'autentica Urstoff senza tempo, la pietra e il ghiaccio delle montagne vicine. (p. 775-6)
Un chiodo entra o non entra: la corda tiene o non tiene; anche queste erano fonti di certezza. La chimica, per me, aveva cessato di esserlo. Conduceva al cuore della Materia, e la Materia ci era alleata appunto perché lo Spirito, caro al fascismo, ci era nemico; ma, giunto al IV anno di Chimica Pura, non potevo più ignorare che la chimica stessa, o almeno quella che ci veniva somministrata, non rispondeva alle mie domande. (p. 784)
Quando ti accingi a distillare, acquisti la consapevolezza di ripetere un rito ormai consacrato dai secoli, quasi un atto religioso, in cui da una materia imperfetta ottieni l'essenza, l'«usìa», lo spirito, ed in primo luogo l'alcool, che rallegra l'animo e riscalda il cuore. (p.789)
Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono «le due esperienze della vita adulta» di cui parlava Pavese, il successo e l'insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. (p.804)
Gli ho anche detto che, secondo me, il piombo è una materia diversa da tutte le altre materie, un metallo che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più: la cenere di chissà quali altri elementi pieni di vita, che mille e mille anni fa si sono bruciati al loro stesso fuoco. (p. 815)
Un po’ più in basso si era formata una pozza, e allora abbiamo capito che quello era mercurio: Hendrik l'ha toccata, e poi anch'io; era una materia fredda e viva, che si muoveva in piccole onde come irritate e frenetiche. (p. 827)
Quella, infatti, era una mensa di verniciai, ed è noto che l'olio di lino cotto (ölidlinköit) ha costituito per molti secoli la materia prima fondamentale della nostra arte. (p. 866)
È lo spirito che doma la materia, non è vero? Non era questo che mi avevano pestato in testa nel liceo fascista e gentiliano?Mi buttai nel lavoro con lo stesso animo con cui, in un tempo non lontano, attaccavamo una parete di roccia; e l'avversario era sempre ancora quello, il non-io, il Gran Curvo, la Hyle: la materia stupida, neghittosamente nemica come è nemica la stupidità umana, e come quella forte della sua ottusità passiva. (p. 873)
Riconosciuta ed apprezzata la virtù strutturale dell'allossana, è urgente che tu chimico interlocutorio, così amante delle digressioni, te ne torni alla tua carreggiata, che è quella di fornicare con la materia allo scopo di provvedere al tuo sostentamento: ed oggi, non più solo al tuo. (p. 894)
L'unica preparazione accessibile era anche la più antica: non sembrava tanto difficile da eseguire, e consisteva in una demolizione ossidativa dell'acido urico. Proprio così: dell'acido urico, quello dei gottosi, degli intemperanti e del mal della pietra. Era una materia prima decisamente insolita, ma forse non così proibitiva come le altre. (pp.894-5)
Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall'esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima. (p. 895)
Ma gli anni di non-uso non ti fanno dimenticare alcuni tic professionali, alcuni comportamenti stereotipi che ti fanno riconoscere come chimico in qualsiasi circostanza: tentare la materia incognita con l'unghia, col temperino, annusarla, sentire con le labbra se è «fredda» o «calda», provare se incide o no il vetro della finestra, osservarla in luce riflessa, soppesarla nel cavo della mano. (p. 910)
Gli dissi che non mi pareva giusto che il mondo sapesse tutto di come vive il medico, la prostituta, il marinaio, l'assassino, la contessa, l'antico romano, il congiurato e il polinesiano, e nulla di come viviamo noi trasmutatori di materia. (p. 914)
La chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all'indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia. (p. 915)
Ci saremmo tenuti a contatto, e ognuno di noi avrebbe raccolto per l'altro altre storie come questa, in cui la materia stolida manifesta un'astuzia tesa al male, all'ostruzione, come se si ribellasse all'ordine caro all'uomo: come i fuoricasta temerari, assetati più della rovina altrui che del trionfo proprio, che nei romanzi arrivano dai confini della terra per stroncare l'avventura degli eroi positivi. (pp. 920-1)
L'anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vita, la scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell'aria, bensì un rimasuglio ridicolo, un'«impurezza», trenta volte meno abbondante dell'argon di cui nessuno si accorge. (p. 937)
I sommersi e i salvati
È invece facilissimo alterare le motivazioni che ci hanno condotto ad un'azione, e le passioni che in noi hanno accompagnato l'azione stessa. Questa è materia estremamente fluida, soggetta a deformarsi sotto forze anche molto deboli. (p. 1011)
Il trattamento a cui venivano sottoposte [le spoglie umane] nei Lager voleva esprimere che non si trattava di resti umani, ma di materia bruta, indifferente, buona nel migliore dei casi per qualche impiego industriale. (p. 1089)
Il campionario che Auschwitz mi aveva squadernato davanti era abbondante, vario e strano; fatto di amici, di neutri e di nemici, comunque cibo per la mia curiosità, che alcuni, allora e dopo, hanno giudicato distaccata. Un cibo che certamente ha contribuito a mantenere viva una parte di me, e che in seguito mi ha fornito materia per pensare e per costruire libri. (p. 1102)
L'altrui mestiere
Ora, le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo, di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia (che è un giudice imparziale, impassibile ma durissimo: se sbagli ti punisce senza pietà), il vincere, il rimanere sconfitti. (pp. 641-2)
L'abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. (p. 642)
Anche questo è da meditare: come le grandi idee ed i grandi problemi della filosofia (se la materia sia infinitamente divisibile - se l'universo sia finito od infinito, eterno e perituro; se la nostra volontà sia libera o serva), così anche le grandi invenzioni della tecnica si trasformano ma non muoiono. (p. 705)
Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, se si confrontano questi schemi convenzionali con i ritratti «veri», quasi fotografici, che da qualche decennio si riesce a fare con tecniche sottili, si rimane colpiti dalla loro somiglianza: le molecole-parole, i disegnini ricavati dal ragionamento e dall'esperimento, sono proprio assai simili alle particelle ultime della materia che gli antichi atomisti avevano intuito vedendo i granelli di polvere che danzavano in un raggio di sole. (p. 745)
Il legno è stato per millenni il materiale per costruzione, la «materia», per eccellenza, tanto che in alcune lingue materia e legno erano espressi dalla stessa parola. Non c'è dubbio che i nostri progenitori, diecimila, centomila anni fa, assai prima d'imparare a fondere il bronzo, avevano imparato a lavorare il legno. (p. 778)
Mestiere
“Mestiere” deriva dal francese antico mestier, a sua volta derivante dal latino ministerium che significa funzione, impiego, servizio.
Il mestiere è un habitus, un’attività quotidiana che informa di sé l’individuo. Nelle opere di Levi l’uso del termine serba memoria dei mestieri tradizionali, artigianali, che richiedevano spirito pratico e abilità manuali. In linea con questa concezione umile della fatica quotidiana parlando del suo lavoro Levi afferma di aver appreso «i rudimenti del mestiere verniciario» (che diventerà poi la sua specializzazione) nell’immediato dopoguerra, in una fabbrica in riva a un lago.
Un mestiere è un’attività tipicamente civile, poiché sancisce l’appartenenza a un contesto sociale e assegna un posto e uno scopo nel mondo nel momento in cui avviene il passaggio all’età adulta. Quando lo scrittore è prigioniero ad Auschwitz ha già assimilato la forma mentis del chimico, dal momento che ha già avuto modo di esercitare tale mestiere, e molti anni dopo affermerà che proprio queste abitudini mentali gli avevano permesso di conservare un certo livello di attenzione per le persone che lo circondavano.
Chi non ha un mestiere, chi non sa fare qualcosa (il che è diverso dal sapere tout court) è maggiormente esposto ai rovesci dell’esistenza. L’esperienza dello scrittore sembra confermare questa massima dal sapore antico, ed infatti la sua opera ci restituisce molti personaggi che fanno del loro mestiere un punto di forza in circostanze che possono essere di volta in volta comiche, disperate, surreali.Il mestiere è inteso in senso generale e in senso personale, in senso proprio e in senso traslato. In senso stretto il mestiere di Primo Levi è triplice perché comprende la "libera professione” esercitata in gioventù (si pensi al racconto Stagno), il «mestiere verniciario» di tutta la vita, e il mestiere “non mestiere” di scrittore. Non deve stupire che quest’ultima occupazione non venga considerata alla stregua di un mestiere: nella visione concreta dello scrittore vi è una netta distinzione tra la professione, che è un dovere quotidiano, e l’attività creativa, che deve essere intrapresa in piena libertà e solo se si ha qualcosa da dire. Chi scrive ha il dovere di farsi comprendere dal suo pubblico, per mantenere vivo un dialogo e non scivolare nel solipsismo: oltre che un’attività creativa, il mestiere di scrittore è un servizio pubblico.
Di questa come di altre parole si dà un senso distorto e dolorosamente caustico nell’universo del Lager, dove esiste il “mestiere” di kapò e di blockältester o, semplicemente, il mestiere di dare la morte ad altri. Con il termine “mestiere” Levi pone l’enfasi sul carattere burocratico dello sterminio, sul fatto che la morte e la vessazione fossero per i nazisti nient’altro che una piatta routine, un’incombenza quotidiana per sbrigare la quale erano previste delle mansioni ad hoc.
Nell’opera di Primo Levi sono moltissimi i personaggi che svolgono un certo mestiere e di esso hanno piena consapevolezza. Da Cesare venditore al mercato di Porta Portese a Lorenzo che fa il muratore, fino al contrabbandiere cercatore d’oro e al ciabattino di San Secondo, l’autore non si stanca di descrivere i tic, i vizi e le virtù di ciascuna professione, con una curiosità che abbraccia tutte le specializzazioni e tutte le classi sociali.
Se questo è un uomo
Ora, le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo, di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia (che è un giudice imparziale, impassibile ma durissimo: se sbagli ti punisce senza pietà), il vincere, il rimanere sconfitti. (pp. 641-2)
L'abitudine a penetrare la materia, a volerne sapere la composizione e la struttura, a prevederne le proprietà ed il comportamento, conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. (p. 642)
Anche questo è da meditare: come le grandi idee ed i grandi problemi della filosofia (se la materia sia infinitamente divisibile - se l'universo sia finito od infinito, eterno e perituro; se la nostra volontà sia libera o serva), così anche le grandi invenzioni della tecnica si trasformano ma non muoiono. (p. 705)
Eppure, nonostante tutte queste limitazioni, se si confrontano questi schemi convenzionali con i ritratti «veri», quasi fotografici, che da qualche decennio si riesce a fare con tecniche sottili, si rimane colpiti dalla loro somiglianza: le molecole-parole, i disegnini ricavati dal ragionamento e dall'esperimento, sono proprio assai simili alle particelle ultime della materia che gli antichi atomisti avevano intuito vedendo i granelli di polvere che danzavano in un raggio di sole. (p. 745)
Il legno è stato per millenni il materiale per costruzione, la «materia», per eccellenza, tanto che in alcune lingue materia e legno erano espressi dalla stessa parola. Non c'è dubbio che i nostri progenitori, diecimila, centomila anni fa, assai prima d'imparare a fondere il bronzo, avevano imparato a lavorare il legno. (p. 778)
La tregua
Il nostro Blockältester conosce il suo mestiere. Si è accertato che tutti siano rientrati, ha fatto chiudere la porta a chiave, ha distribuito a ciascuno la scheda che porta la matricola, il nome, la professione, l'età e la nazionalità, e ha dato ordine che ognuno si spogli completamente, conservando solo le scarpe. (p. 123)
Avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l'esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un'ora al mio mestiere quotidiano. (p. 200)
Il sistema periodico
Mi spiegò il suo sentimento: con me era amico, e non mi chiedeva niente, se volevo potevo andare sul mercato con lui, magari dargli anche una mano e imparare il mestiere, ma era indispensabile che lui si trovasse un vero socio, che disponesse di un piccolo capitale iniziale e di una certa esperienza. (p. 269)
Flora era una prostituta di provincia, finita in Germania con l'Organizzazione Todt. Non sapeva il tedesco e non conosceva alcun mestiere, così era stata messa a spazzare i pavimenti della fabbrica di Buna. (p. 351)
I sommersi e i salvati
Chi vale vince, chi ha occhi o braccia o fiuto deboli ritorna e cambia mestiere: degli ottanta che ho detto, trenta cambiarono mestiere al second'anno, e altri venti più tardi. (p. 766)
Aveva scelto Chimica perché gli era sembrata meglio che un altro studio: era un mestiere di cose che si vedono e si toccano, un guadagnapane meno faticoso che fare il falegname o il contadino. (p. 774)
Se cercava il ponte, l'anello mancante, fra il mondo delle carte e il mondo delle cose, non lo doveva cercare lontano: era lì, nell'Autenrieth, in quei nostri laboratori fumosi, e nel nostro futuro mestiere. (p. 775)
Distillare è bello. Prima di tutto, perché è un mestiere lento, filosofico e silenzioso, che ti occupa ma ti lascia tempo di pensare ad altro, un po' come l'andare in bicicletta. (p. 789)
Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse, come gli aghi degli scambi; il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico. (p. 791)
Mio padre, e tutti noi Rodmund in linea patema, facciamo da sempre questo mestiere, che consiste nel conoscere una certa pietra pesante, trovarla in paesi lontani, affocarla in un certo modo che noi conosciamo, e cavarne il piombo nero.(p. 809)
Ma io ho un mestiere speciale. Faccio anche il contrabbando, ma solo d'inverno, quando la Dora gela; insomma, faccio diversi lavori, ma nessuno sotto padrone (pp. 856-7)
Certo, che avrei cercato l'oro: […]per ritrovare il mio mestiere chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la «Scheidekunst», appunto, l'arte di separare il metallo dalla ganga. (p. 858)
Date dunque le sue origini plurimillenarie, non è tanto strano che il mestiere di fare vernici trattenga nelle sue pieghe (a dispetto delle innumerevoli sollecitazioni che modernamente riceve da altre tecniche affini) rudimenti di consuetudini e procedimenti ormai da tempo abbandonati.(p. 868)
Devo premettere che Bruni ha lavorato dal 1955 al 1965 in una grande fabbrica in riva a un lago, la stessa dove io ho imparato i rudimenti del mestiere verniciario negli anni 1946-47. (p. 869)
Il nostro mestiere è condurre e vincere questa interminabile battaglia: è molto più ribelle, più refrattaria al tuo volere, una vernice impolmonita che un leone nel suo impeto insano; però, via, è anche meno pericolosa. (p. 873)
Me lo raffiguravo, il tapino, […] certamente frustrato, perché l'analista è mestiere di giovani […]. A giudicare dalla scrittura anonima e forbita, il suo mestiere lo doveva avere logorato ed insieme condotto ad una rozza perfezione, come un ciottolo di torrente voltolato fino alla foce. (pp. 874-5)
Chi per mestiere compra o vende si riconosce facilmente: ha l'occhio vigile e il volto teso, teme la frode o la medita, e sta in guardia come un gatto all'imbrunire. È un mestiere che tende a distruggere l'anima immortale; ci sono stati filosofi cortigiani, filosofi pulitori di lenti, perfino filosofi ingegneri e strateghi, ma nessun filosofo, che io sappia, era grossista o bottegaio. (p. 885)
Il mio mestiere è di fare il ciabattino. Se si incammina da giovani, non è un brutto mestiere: si sta seduti, non si fatica tanto, e si incontra gente per cambiar parola.(p. 888)
- Bel mestiere, anche il vostro: ci va occhio e pazienza. Chi non ne ha, è meglio che se ne cerchi un altro.- (p.889)
Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall'esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima. (p. 895)
Gli dissi che andavo in cerca di eventi, miei e d'altri, che volevo schierare in mostra in un libro, per vedere se mi riusciva di convogliare ai profani il sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere. (p. 914)
L'altrui mestiere
L'orrore intrinseco di questa condizione umana ha imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è difficile costruirsi un'immagine di «cosa volesse dire» essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere. (p. 1030)
La morte è il loro mestiere di ogni ora, la morte è una consuetudine, poiché, appunto, «si impazzisce il primo giorno oppure ci si abitua», ma quella donna è viva. (p. 1033)
Proporrei di estendere il termine [intellettuale] alla persona colta al di là del suo mestiere quotidiano; la cui cultura è viva, in quanto si sforza di rinnovarsi, accrescersi ed aggiornarsi; e che non prova indifferenza o fastidio davanti ad alcun ramo del sapere, anche se, evidentemente, non li può coltivare tutti. (p. 1095)
Né devo trascurare l'aiuto che ho tratto dal mio mestiere di chimico.[…]. Insieme col bagaglio di nozioni pratiche, avevo ricavato dagli studi, e mi ero portato dietro in Lager, un mal definito patrimonio di abitudini mentali che derivano dalla chimica e dai suoi dintorni, ma che trovano applicazioni più vaste. […] Ma soprattutto, e più specificamente: ho contratto dal mio mestiere un'abitudine che può essere variamente giudicata, e definita a piacere umana o disumana, quella di non rimanere mai indifferente ai personaggi che il caso mi porta davanti. Sono esseri umani, ma anche «campioni», esemplari in busta chiusa, da riconoscere, analizzare e pesare. (pp. 1101-2)
Occhi
OCCHI/VISIONE
Gli occhi rappresentano per lo scrittore il punto di intersezione e di comunicazione tra l’interiorità dell’uomo e il mondo esterno e perciò esprimono il carattere autentico di un individuo e lo stato d’animo momentaneo. Ne Il sistema periodico Levi, in una delle sue “massime” di vita pratica, afferma che si nasce degni di fiducia, «col viso aperto e gli occhi fermi» e tali si resta per la vita. L’indole dunque si forma molto presto e trapela dal volto e dal modo di fare. Ricordando le persone incontrate in Lager e durante il viaggio di ritorno lo scrittore ci parla spesso dell’espressione dei loro occhi in cui si può leggere a seconda dei casi emozione o assenza di emozioni, sofferenza, smarrimento, paura. Si tratta di una casistica molto interessante, che vale la pena di passare in rassegna. La poesia Shemà, posta in epigrafe a Se questo è un uomo, annovera fra le caratteristiche dei deportati gli occhi vuoti, senza espressione, svuotati dalle sofferenze patite. Questo elemento torna ne La tregua, laddove è nominato un ufficiale dell’esercito jugoslavo che non riusciva a riprendersi dal trauma subito e guardava i suoi compagni con occhi vuoti.
In Se questo è un uomo lo sguardo che mira direttamente agli occhi dell’altro permette al prigioniero di estraniarsi per un attimo dalla condizione presente, recuperando il valore dell’umanità del prossimo in una silenziosa ribellione all’ordine voluto dai nazisti. È quanto avviene nel capitolo intitolato Kraus quando Primo Levi, mentre ascolta il discorso stentato che l’ungherese Kraus cerca di fargli in tedesco, lo osserva e scorge, dietro gli occhiali bagnati dalla pioggia, gli occhi dell’uomo Kraus. Non solo gli occhi di Kraus, ma gli occhi dell’uomo Kraus, il suo modo di essere uomo, la sua inalienabile identità, quella che i nazisti cercano di annullare in ogni modo.
Di due ragazzi ungheresi che al momento dello sgombero del campo deliberano di partire con gli altri malgrado il loro stato di salute precario, si dice che «avevano gli occhi come le bestie impaurite»: la paura istintiva, simile a quella provata dagli animali, traspare dallo sguardo, come lo scrittore ricorda ne I sommersi e i salvati quando descrive lo smarrimento dei deportati che non conoscevano il tedesco appena entrati in Lager.
Nella famosa scena dell’esame di chimica in lager lo sguardo del dottor Pannwitz dà a Levi la misura della lucida crudeltà dell’ideologia nazista, mentre ne La tregua l’astuzia navigata di Mordo Nahum si legge nei suoi «freddi occhi di savio serpente». Gli occhi forniscono informazioni immediate sul tipo di uomini con cui si ha a che fare, e se prevedibilmente gli occhi delle SS che assistono all’impiccagione dell’Ultimo sono semplicemente indifferenti , quelli dei russi liberatori che osservano lo svuotamento del campo di Bogucice ne La tregua sono definiti olimpici, a rimarcare un misto di noncuranza e imperturbabilità.
Ma il ritratto che rimane più impresso è senz’altro quello di Hurbinek. Nello sguardo di questo bambino nato ad Auschwitz e al quale nessuno ha insegnato a parlare si concentra un intero universo di sentimenti e di bisogni umani negati; i suoi occhi sono «pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo».
Esiste un linguaggio specifico degli occhi che può considerarsi una forma di comunicazione in assenza delle parole e forse più eloquente delle parole stesse. Levi rileva in più occasioni che il Lager invece è il luogo in cui vige una sistematica negazione dello sguardo. Non guardare una persona negli occhi significa non volerle conferire dignità di essere umano e al tempo stesso sottrarsi al dialogo e al confronto con essa. Questo atteggiamento, che implica disprezzo ma anche paura e un tipo particolare di viltà, si ritrova fuori dal Lager in quei civili che non hanno il gracile coraggio di guardare negli occhi i prigionieri che incontrano; ne La tregua quando gli ex deportati girano per le vie di Monaco vengono ignorati e nessuno si arrischia a guardarli negli occhi.
Aldilà della complessa fenomenologia dello sguardo di cui si è detto finora, gli occhi sono per lo scrittore un organo importante perché depositario della vista, un senso che il chimico impara ad affinare. Il desiderio di vedere con i propri occhi i fenomeni descritti nel testo di chimica spinge Primo Levi e il suo amico Enrico a condurre strampalati esperimenti in un laboratorio casalingo di cui si sono procurati le chiavi. La chimica come scienza induce alla diffidenza verso tutto ciò che non si può vedere e dimostrare. Inoltre gli occhi sono il canale attraverso il quale il cervello umano si appropria della realtà e del mondo circostante; essi mandano informazioni al cervello e dialogano costantemente con esso.
All’interno della voce “occhi” si può inserire una breve trattazione del termine “visione”, che compare molto più raramente. Esso è presente tanto nell’accezione di “visione del mondo” quanto in quella di “quadro o porzione di realtà visibile a cui lo sguardo (e dunque la mente) ha accesso”. Occorre dire che parlando del lager le due accezioni tendono a sovrapporsi: difficilmente i deportati riescono ad avere una visione d’insieme dell’universo concentrazionario dal momento che i loro occhi sono «legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti». La scarsità delle informazioni che vengono loro fornite (e dunque l’esigua porzione di realtà a cui hanno accesso) e le durissime condizioni di vita fanno sì che la loro visione del mondo subisca una drastica riduzione ai bisogni materiali.
Se questo è un uomo
II rapporto che lega un uomo alla sua professione è simile a quello che lo lega al suo paese; è altrettanto complesso, spesso ambivalente, ed in generale viene compreso appieno solo quando si spezza: con l'esilio o l'emigrazione nel caso del paese d'origine, con il pensionamento nel caso del mestiere. Ho abbandonato il mestiere chimico ormai da qualche anno, ma solo adesso mi sento in possesso del distacco necessario per vederlo nella sua interezza, e per comprendere quanto mi è compenetrato e quanto gli debbo. (p. 641)
Si impone subito una precisazione: scrivere non è propriamente un mestiere, o almeno a mio parere, non lo dovrebbe essere: è un'attività creativa, e perciò sopporta male gli orari e le scadenze, gli impegni con i clienti e i superiori. (p. 641)
Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo.(p.643)
Sta allo scrittore farsi capire da chi desidera capirlo: è il suo mestiere, scrivere è un servizio pubblico, e il lettore volonteroso non deve andare deluso. (p. 678)
Quando ero chimico in servizio effettivo soffrivo caldi, geli e paure, e non avrei mai pensato che, dopo il distacco dal mio vecchio mestiere, avrei potuto provarne la nostalgia. (p. 746)
Ma adesso il mio mestiere è un altro, è un mestiere di parole, scelte, pesate, commesse a incastro con pazienza e cautela; così, per me anche gli elementi tendono a diventare parole, invece della cosa mi interessa acutamente il suo nome e il perché del suo nome. (p. 746)
Lei si rappresenta il raccontare come un mestiere, mentre secondo me non lo è […]. Di conseguenza, i narratori puri, quelli che ricavano di che vivere soltanto dalla loro creatività, sono pochissimi: non più di qualche decina. (p. 845)
Lei però salta questo bivio ed aspetta da me consigli pratici e specifici: i segreti del mestiere, anzi, del non-mestiere. Esistono, non lo posso negare, ma per fortuna non hanno validità generale. (p. 846)
La tregua
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
(p. 3)
E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. (p. 9)
Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. (p. 11)
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente dietro una complicata scrivania. (p. 101)
Il cervello che sovrintendeva a quegli occhi azzurri e a quelle mani coltivate diceva: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». E nel mio capo, come semi in una zucca vuota: «Gli occhi azzurri e i capelli biondi sono essenzialmente malvagi. Nessuna comunicazione possibile. Sono specializzato in chimica mineraria. Sono specializzato in sintesi organiche. Sono specializzato...» (p. 102)
Guardavamo con occhi atoni le colonne di fumo e di fuoco prorompere intorno a noi: nei momenti di tregua, pieni del lieve ronzio minaccioso che ogni europeo conosce, sceglievamo dal suolo cento volte calpestato le cicorie e le camomille stente, e le masticavamo a lungo in silenzio. (p. 115)
Ci vedono ignobilmente asserviti, senza capelli, senza onore e senza nome, ogni giorno percossi, ogni giorno più abietti, e mai leggono nei nostri occhi una luce di ribellione, o di pace, o di fede. (p. 117)
Anche Monsieur Pinkert è, a priori, un condannato: basta vedere i suoi occhi. (p. 122)
Andare al passo e fare un discorso complicato in tedesco, è ben troppo, questa volta sono io che lo avverto che ha il passo sbagliato, e lo ho guardato, e ho visto i suoi occhi, dietro le gocciole di pioggia degli occhiali, e sono stati gli occhi dell'uomo Kraus. (p. 130)
Ai piedi della forca, le SS ci guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben compiuta. (p. 146)
Gli chiesi in italiano se c'era qualcosa di nuovo: egli interruppe la rasatura, strizzò gli occhi in modo solenne e allusivo, indicò la finestra col mento, poi fece colla mano un gesto ampio verso ponente: - Morgen, alle Kamarad weg.
Mi guardò un momento cogli occhi spalancati come in attesa del mio stupore, poi aggiunse: - Todos todos, - e riprese il lavoro. Sapeva delle mie pietrine, perciò mi rase con una certa delicatezza. (p. 148)
Era insensato pensare di fare anche solo un'ora di cammino deboli come erano, e per di più nella neve, e con quelle scarpe rotte trovate all'ultimo momento. Tentai di spiegarlo, ma mi guardarono senza rispondere. Avevano gli occhi come le bestie impaurite. (p. 150)
Attorno alle rovine fumanti delle baracche bruciate, gruppi di malati stavano applicati al suolo, per succhiarne l'ultimo calore. Altri avevano trovato patate da qualche parte, e le arrostivano sulle braci dell'incendio, guardandosi intorno con occhi feroci. (p. 155)
Il campo era silenzioso. Altri spettri affamati si aggiravano come noi in esplorazione: barbe ormai lunghe, occhi incavati, membra scheletrite e giallastre fra i cenci. (p. 157)
Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non -umana l'esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli occhi dell'uomo. (p. 168)
Il sistema periodico
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. (p. 206)
Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l'ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell'appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «II lavoro rende liberi». (p. 211)
Il barbiere era un gigante bruno, dagli occhi selvaggi e spiritati: esercitava la sua arte con inconsulta violenza, e per ragioni a me ignote portava un mitragliatore a tracolla. (p. 214)
Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. (p. 215)
Fu Frau Vita a chiudere gli occhi a Andrè e ad Antoine. Erano due giovani contadini dei Vosgi, entrambi miei compagni dei dieci giorni di interregno, entrambi ammalati di difterite. Mi sembrava di conoscerli da secoli. (p. 222)
C'erano due alti e magri fratelli, ebrei viennesi sulla cinquantina, silenziosi e cauti come tutti i vecchi Häftlinge; un ufficiale dell'esercito regolare iugoslavo, che pareva non fosse ancora riuscito a scuotersi di dosso la remissione e l'inerzia del Lager, e ci guardava con occhi vuoti. (p. 227)
Ma il greco mi guardò coi suoi freddi occhi di savio serpente:
- Per chi mi prendi? Mi credi nato ieri? Pensi che io non abbia mai commerciato in uova? Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato! (p. 244)
La sentinella era un mongolo gigantesco sulla cinquantina, armato di mitra e baionetta, dalle enormi mani nodose, dai grigi baffi spioventi alla Stalin e dagli occhi di fuoco: ma il suo aspetto feroce e barbarico era assolutamente incongruente con le sue innocue mansioni. (p. 248)
In poche ore tutto il campo si svuotò, sotto gli occhi olimpici dei russi: chi andava in città a congedarsi dalla ragazza, chi in pura e semplice bordata di baldoria, chi a spendere gli ultimi zloty in provviste per il viaggio o in altri più futili modi. (p. 296)
Mi sembrava che ognuno avrebbe dovuto interrogarci, leggerci in viso chi eravamo, e ascoltare in umiltà il nostro racconto. Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell'antico nodo di superbia e di colpa. (p. 393)
I sommersi e i salvati
Il nostro scopo era quello di vedere coi nostri occhi, di provocare con le nostre mani, almeno uno dei fenomeni che si trovavano descritti con tanta disinvoltura sul nostro testo di chimica. (p. 761)
Chi vale vince, chi ha occhi o braccia o fiuto deboli ritorna e cambia mestiere: degli ottanta che ho detto, trenta cambiarono mestiere al second'anno, e altri venti più tardi. (p. 766)
Ma poco sotto il piombo c'era: e questa è una cosa a cui spesso avevo pensato, che noi cercatori crediamo di trovare il metallo con gli occhi, l'esperienza e l'ingegno, ma in realtà quello che ci conduce è qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido.(p. 820)
La Paglietta, poverina, era poco meno che un lusus naturae: era piccola, senza seno e senza fianchi, cerea, intristita e mostruosamente miope; portava occhiali talmente spessi e concavi che a guardarla di fronte i suoi occhi, di un celeste quasi bianco, sembravano lontanissimi, appiccicati in fondo al cranio. (p. 841)
Un giorno mi mandò a chiamare, e con una luce obliqua negli occhi mi annunciò che aveva un lavoretto per me. (p. 871)
Avrebbe potuto essere un filosofo contadino: era un vecchiotto robusto e rubicondo, dalle mani pesanti, deformate dal lavoro e dall'artrite; gli occhi apparivano chiari, mobili e giovanili, nonostante le grosse borse delicate che pendevano vuote sotto le orbite. (p. 885)
Si nasce degni di fiducia, col viso aperto e gli occhi fermi, e tali si resta per la vita. Chi nasce contorto e lasco, tale rimane: chi ti mente a sei anni, ti mente a sedici e a sessanta. (p. 913)
L'incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte, era un incontro con uno di quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi. (p. 925)
Lui è là, in uno dei mille occhi dell'insetto, e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. (p. 939)
La corazza, coi suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l'ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente preso il volo. (p. 940)
L'altrui mestiere
Si sentiva insomma dominato da un enorme edificio di violenza e di minaccia, ma non poteva costruirsene una rappresentazione perché i suoi occhi erano legati al suolo dal bisogno di tutti i minuti. (p. 1002)
È un pensiero che allora ci aveva appena sfiorati, ma che è ritornato «dopo»: anche tu forse avresti potuto, certo avresti dovuto; ed è un giudizio che il reduce vede, o crede di vedere, negli occhi di coloro (specialmente dei giovani) che ascoltano i suoi racconti, e giudicano con il facile senno del poi; o che magari si sente spietatamente rivolgere. (p. 1051)
Mi sentivo sì innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. (p. 1055)
Si rifugiavano istintivamente negli angoli per avere le spalle coperte: l'aggressione poteva venire da tutte le direzioni. Si guardavano intorno con occhi smarriti, come animali presi in trappola, e tali in effetti erano diventati. (p. 1065)
A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana. (p. 1125)
VISIONE
Il sistema periodico
A compenso, mi sono divertito a guardare il mondo sotto luci inconsuete, invertendo per così dire la strumentazione: a rivisitare le cose della tecnica con l'occhio del letterato, e le lettere con l'occhio del tecnico. (p. 631)
Le letture successive di un libro già noto si possono fare, per così dire, con ingrandimenti crescenti, come certe bellissime sequenze di fotografie in cui si vede una mosca, poi il suo capo con le antenne delicate e gli occhi multipli, poi un singolo occhio simile a una cupola di cristallo, e infine la complicata eppure necessaria struttura intima di questo; o le stesse letture si possono anche fare, se ancora vogliamo attingere al linguaggio fotografico, con luce diversa, o sotto un diverso angolo visivo. (p. 699)
In assenza dell'abitudine culturale, quest'oggetto nuovo [la farfalla osservata al microscopio] ci sconcerta; gli occhi enormi e senza pupille, le antenne simili a corna, l'apparato boccale mostruoso ci appaiono come una maschera diabolica, una parodia distorta del viso umano. (p. 752)
I sommersi e i salvati
Lui è là, in uno dei mille occhi dell'insetto, e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. (p. 939)
Parola
PAROLA/E
In un passo de I sommersi e i salvati Primo Levi usa un termine tedesco che può essere utile per riflettere sui molti sensi e le molte accezioni del vocabolo “parola”. Il termine in questione è Wortschatz, “patrimonio di parole”, alla lettera “tesoro di parole”. Tutta l’opera di Levi può essere letta all’insegna di questo termine che è già una sintetica definizione.
È possibile seguire le tracce del lemma “parola” in almeno due direzioni: da un lato le parole di Primo Levi, le strategie comunicative che egli mette in atto e che sostanziano tutte le opere, narrative e non; dall’altro l’uso del termine “parola” all’interno dei testi. Sul primo versante il fenomeno più rivelante è quello dell’assenza di parole che dà luogo a livello di struttura a un’ellissi. Primo Levi annuncia (appunto per mezzo delle parole) che manca un tassello del mosaico, e attraverso questo procedimento, di per sé singolare, il lettore apprende che ci si trova di fronte a un groviglio di pensieri e sentimenti difficili da disbrogliare, riconoscere, classificare razionalmente.
Possiamo immaginare le ellissi come momenti di sosta, “stacchi” che lo scrittore si concede. Generalmente a determinare l’ellissi è un sentimento di pudore che spinge al silenzio. Però come è stato notato tra gli altri da Robert S. Gordon queste “falle” nel tessuto verbale solo in apparenza svolgono una funzione di riequilibrio e ridimensionamento della tensione narrativa. In realtà esse si spalancano come voragini e fanno balenare, oltre la soglia del non detto, ciò che non si può dire per poi rimetterlo subito alla sensibilità e all’intuizione dei singoli.
Passando in rassegna le diverse accezioni del vocabolo si nota una costante, che per certi versi può apparire anche un dato curioso, e cioè che Primo Levi, che pure ha scritto molto e che attribuisce alle parole una grande importanza, in alcuni passi cruciali dei suoi libri preferisce fare economia di parole. Tale scelta si integra perfettamente in una poetica ispirata all’essenzialità, nemica di ogni retorica. Uno stile concreto e incisivo, mai eccessivo, fa sì che al lettore venga detto, in modo esatto e dettagliato, solo ciò che è essenziale. A tal proposito mi sembrano esemplari i “congedi” che compaiono In Se questo è un uomo e ne La tregua, nei quali si dice esplicitamente «fu breve», «non occorrevano molte parole». I russi liberatori al loro ingresso ad Auschwitz si scambiano «parole brevi e timide», e non soltanto perché colpiti dallo scenario infernale che si trovano di fronte, ma anche perché abituati più ad agire che a parlare, più avvezzi ai fatti che non alle parole. All’apice di una immaginaria classifica di personaggi taciturni e scabri troviamo senz’altro Sandro, il quale «parlava come nessuno parla, diceva solo il nocciolo delle cose», e per questa sua qualità, dietro la quale si intravede una consuetudine antica ereditata dall’ambiente di origine, egli rimane impresso nella memoria del lettore.
Diversa da quello che si potrebbe definire un “uso parsimonioso delle parole” è la dichiarata paupertas verborum, ovvero la povertà delle parole, la loro insufficienza nell’afferrare la realtà delle cose e delle persone. L’autore è consapevole di ciò e ritorna spesso sul concetto, sebbene ritenga che continuare a provare e mantenere vivo il dialogo con il prossimo (inteso in senso lato anche come pubblico) sia indispensabile oltreché doveroso. La povertà delle parole si sperimenta quando si tenta di verbalizzare quello che è stato il Lager, dal momento che subito ci si è resi conto che «la nostra lingua manca di parole per esprimere la demolizione di un uomo»; tuttavia, la stessa impressione di lieve frustrazione si prova quando si tenta di restituire in un racconto l’umanità di un personaggio realmente vissuto (come nel caso di Sandro) o si cerca di ridurre in parole dei processi scientifici (in Carbonio).
Dopo l’esperienza di Auschwitz in Se questo è un uomo e nella produzione successiva Levi medita sulla lingua parlata in Lager, giungendo alla conclusione che se i campi di concentramento fossero durati sarebbe nato «un nuovo aspro linguaggio». Le parole del Lager formano un lessico a sé, fatto di termini stranieri in un primo momento incomprensibili e poi penosamente compresi (Selekcja, Wstawác), di frasi crudeli e beffarde (si ricordino le parole della derisione, Arbeit Macht Frei). A ben vedere le parole sono solo una componente minoritaria della grammatica del Lager, perché al posto di queste vengono utilizzate ampiamente le percosse. La parola, contrassegno e prerogativa umana, quando è presente è ridotta da un lato a comando urlato e a bestemmia, dall’altro a cenno di sottomissione: in nessun caso essa è ancora utilizzabile come strumento di espressione del pensiero. L’esempio di un atroce automatismo della parola è fornito dalla morte di Sómogy, che si spegne continuando a mormorare “Jawohl” anche se i tedeschi sono già scappati e l’incubo sta per finire.
Accanto alla distorsione del senso ad Auschwitz si assiste a un’intensificazione in negativo delle normali parole: si dice “fame” o “freddo” e queste definizioni non conservano se non una debole parentela con le sensazioni corrispondenti che si possono esperire nel corso della vita. Le parole degli uomini liberi sono, appunto, parole libere: quella tra parole del Lager e parole libere è una distinzione cruciale. Infine, come si evince dall’episodio di Hurbinek, il Lager è anche il luogo della parola negata, estremo territorio su cui la piccola vittima combatte la lotta contro la disumanizzazione, perché sebbene nessuno gli avesse insegnato a parlare, «il bisogno della parola premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva», al punto che egli poco prima di morire prende a pronunciare una parola, ripetendola più volte, senza però che gli altri riescano a comprenderne il senso. In questo caso le parole del narratore non solo sono lo strumento attraverso cui la storia di Hurbinek può essere narrata e giungere fino a noi, ma diventano il medium grazie al quale la vittima ormai senza voce può testimoniare ai posteri quello che è stato. «Egli testimonia attraverso queste mie parole», scrive Primo Levi. Le parole non sono più solo quelle del testimone, ma quelle dei testimoni, come in certa misura accade in Shemà in cui dopo l’allocuzione agli ascoltatori al primo verso sono evocate delle figure-simbolo (un uomo, una donna) ed è assunta una prospettiva generale. Il colloquio con l’interlocutore è ripreso solo alla fine, e l’attenzione è spostata proprio sulle parole («vi comando queste parole»), che saranno in futuro le uniche depositarie della verità e dovranno tendere verso le generazioni future i fili della memoria.
Primo Levi si occupa della deontologia del testimone e delle caratteristiche che la parola dei sopravvissuti deve avere per essere accolta da un uditorio, reale o metaforico. Di qui l’insistenza sul rigore, sull’obiettività, sul dominio delle passioni e dell’eccesso di emotività nell’esposizione, tutte qualità che conferiscono ai primi due libri la loro potenza.
In questa rassegna non può mancare un riferimento alle parole della letteratura, le parole dello scrittore di cui Levi tratta ne L’altrui mestiere e non solo, e che intrattengono come è noto una stretta parentela con le parole della chimica. La parola letteraria deve essere chiara, esatta e comprensibile, deve essere usata nel modo giusto e si deve differenziare dal mugolio animale.
Se questo è un uomo
Per una conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane a cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d'insieme del loro universo. (p. 1001)
Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l'arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l'aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi. (p. 1042)
Sotto questo aspetto, la mia visione del mondo è stata diversa da, e complementare con, quella del mio compagno ed antagonista Améry. (p. 1102)
La tregua
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
(p. 3)
Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria. (p. 10)
Passammo il Brennero alle dodici del secondo giorno, e tutti si alzarono in piedi, ma nessuno disse parola. (p. 12)
Ci dicemmo allora, nell'ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. (p. 13)
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. (p. 15)
- Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è una scuola rabbinica -. Si vedono le parole non sue, le parole cattive, torcergli la bocca uscendo, come se sputasse un boccone disgustoso. (p. 18)
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. (p. 20)
Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiù; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a volo. (p. 32)
Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell'esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra '14-18. (p. 35)
La baracca di legno, stipata di umanità dolente, è piena di parole, di ricordi e di un altro dolore. «Heimweh» si chiama in tedesco questo dolore; è una bella parola, vuol dire «dolore della casa». (p. 49)
Èun godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d'altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola. (p. 54)
Pochissimi attendono dormendo lo Wstawać: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno più duro non si sciolga al suo approssimarsi. […] La parola straniera cade come un pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi»: l'illusoria barriera delle coperte calde, l'esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasione notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all'offesa, atrocemente nudi e vulnerabili. (p. 57)
Vorremmo ora invitare il lettore a riflettere, che cosa potessero significare in Lager le nostre parole «bene» e «male», «giusto» e «ingiusto»; giudichi ognuno, in base al quadro che abbiamo delineato e agli esempi sopra esposti, quanto del nostro comune mondo morale potesse sussistere al di qua del filo spinato. (p. 82)
Per quanto Jean non abusasse della sua posizione, già avevamo potuto constatare che una sua parola, detta nel tono giusto e al momento giusto, aveva grande potere; già più volte era valsa a salvare qualcuno di noi dalla frusta o dalla denunzia alle SS. (p. 106)
Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno», e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato […]. (p. 119)
Le selezioni si sentono arrivare. «Selekcja»: la ibrida parola latina e polacca si sente una volta, due volte, molte volte, intercalata in discorsi stranieri; dapprima non la si individua, poi si impone all'attenzione, infine ci perseguita. (p. 120)
Che buon ragazzo doveva essere Kraus da borghese: non vivrà a lungo qui dentro, questo si vede al primo sguardo e si dimostra come un teorema. Mi dispiace non sapere l'ungherese, ecco che la sua commozione ha rotto gli argini, ed erompe in una marea di bislacche parole magiare. Non ho potuto capire altro che il mio nome, ma dai gesti solenni si direbbe che giura ed augura. (p. 130)
Distruggere l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più avete a temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice. (p. 146)
Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. (p. 151)
Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, «Jawohl » ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. (pp. 166-7)
Pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. (p. 175)
Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l'esistenza. (pp. 197-8)
Il sistema periodico
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. (pp.205-6 )
Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l'ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell'appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitù, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «II lavoro rende liberi». (p. 211)
Ci deposero dal carro le braccia robuste di due infermiere sovietiche: «Po malu, po malu! » («adagio, adagio!»); furono le prime parole russe che udii. (p. 213)
La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. (p. 215)
Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l'orecchio: era vero, dall'angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata: o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome. (p. 216)
Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole. (ibidem)
Ci separammo senza molte parole: ma nel momento del congedo, in modo fugace eppure distinto, sentii muovere da me verso lui una solitaria onda di amicizia, venata di tenue gratitudine, di disprezzo, di rispetto, di animosità, di curiosità, e del rimpianto di non doverlo più vedere. (p. 246)
Manteneva sia coi russi sia con noi uno scontroso distacco. Non rideva mai, non beveva, non accettava inviti, e neppure sigarette: parlava poco, con parole caute che sembrava pesasse a una a una. (p. 350)
Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell'alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, «Wstawać». (p. 395)
I sommersi e i salvati
Nel Piemonte del secolo scorso il commercio delle stoffe era sovente in mani ebraiche, e ne è nato un sottogergo specialistico che, trasmesso dai commessi divenuti a loro volta padroni, e non necessariamente ebrei, si è diffuso a molte botteghe del ramo e vive tuttora, parlato da gente che rimane assai stupita quando viene casualmente a sapere che usa parole ebraiche. (p. 747)
Sandro mi ascoltava, con attenzione ironica, sempre pronto a smontarmi con due parole garbate e asciutte quando sconfinavo nella retorica. (p. 775)
Non era della razza di quelli che fanno le cose per poterle raccontare (come me): non amava le parole grosse, anzi, le parole. Sembrava che anche a parlare, come ad arrampicare, nessuno gli avesse insegnato; parlava come nessuno parla, diceva solo il nocciolo delle cose. (p. 777)
Oggi so che è un'impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta: un uomo come Sandro in specie. Non era uomo da raccontare né da fargli monumenti, lui che dei monumenti rideva: stava tutto nelle azioni, e, finite quelle, di lui non resta nulla; nulla se non parole, appunto. (p. 781)
In questo modo, dopo la lunga ubriacatura di parole, certi della giustezza della nostra scelta, estremamente insicuri dei nostri mezzi, con in cuore assai più disperazione che speranza, e sullo sfondo di un paese disfatto e diviso, siamo scesi in campo per misurarci. (p. 852)
Era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena. Un suo gesto, una sua parola, un suo rigo, avevano virtù liberatoria, erano un buco nel tessuto rigido del Lager, e tutti quelli che lo avvicinavano se ne accorgevano, anche coloro che non capivano la sua lingua. (p. 863)
Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. (p. 873)
Dell'«auspicabile incontro» non parlai, perché ne avevo paura. Inutile cercare eufemismi, parlare di pudore, ribrezzo, ritegno. Paura era la parola: come non mi sentivo un Montecristo, così non mi sentivo un Orazio-Curiazio; non mi sentivo capace di rappresentare i morti di Auschwitz, e neppure mi pareva sensato ravvisare in Müller il rappresentante dei carnefici. (p. 928)
Il viso era quel viso: invecchiato, ed insieme nobilitato da un fotografo sapiente, lo risentivo alto sopra di me a pronunciare quelle parole di compassione distratta e momentanea, «perché ha l'aria così inquieta?» (p. 929)
Ogni studente in chimica, davanti ad un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga o formula o parola, sta scritto il suo avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari «poi»: dopo il successo o l'errore o la colpa, la vittoria o la disfatta. (p. 934)
Quello che segui è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perché non la sapremmo ridurre in parole) alla fermentazione alcoolica, e giunse al vino senza mutare natura. p. 938)
Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l'umiltà e il ritegno di chi sa fin dall'inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza. (p. 941)
L'altrui mestiere
Se qualcuno esitava (esitavano tutti, perché non capivano ed erano terrorizzati) arrivavano i colpi, ed era evidente che si trattava di una variante dello stesso linguaggio: l'uso della parola per comunicare il pensiero, questo meccanismo necessario e sufficiente affinché l'uomo sia uomo, era caduto in disuso. (p. 1061)
Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un film sfuocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava. (p. 1063)
A distanza di quarant'anni, ricordiamo ancora, in forma puramente acustica, parole e frasi pronunciate intorno a noi in lingue che non conoscevamo né abbiamo imparato dopo: per me, ad esempio, in polacco o in ungherese. (ibidem)
Scaraventato ad Auschwitz, nonostante lo smarrimento iniziale (anzi, forse proprio grazie a quello) ho capito abbastanza presto che il mio scarsissimo Wortschatz era diventato un fattore di sopravvivenza essenziale. Wortschatz significa «patrimonio lessicale», ma alla lettera «tesoro di parole»; mai termine è stato altrettanto appropriato. (p. 1065)
Della comunicazione mancata o scarsa non soffrivano tutti in ugual misura. Il non soffrirne, l'accettare l'eclissi della parola, era un sintomo infausto: segnalava l'approssimarsi dell'indifferenza definitiva. (p. 1069)
A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana. (p. 1125)
Era la prima volta che incappavo nell'avventura sempre scottante, mai gratuita, dell'essere tradotti, del vedere il proprio pensiero manomesso, rifratto, la propria parola passata al vaglio, trasformata, o mal intesa, o magari potenziata da qualche insperata risorsa della lingua d'arrivo. (p. 1128)
Prigionia
PRIGIONIA
Nelle opere di Levi, da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, il termine “prigionia” e i suoi derivati appaiono frequentemente, con poche accezioni fondamentali ma con una discreta casistica.
Levi stesso ci dà nell’Appendice di Se questo è un uomo la sua definizione di prigionia: essa è la condizione del prigioniero, la “non libertà”. Il periodo trascorso ad Auschwitz-Monowitz è indicato come “la prigionia” per antonomasia e spesso non c’è bisogno di aggettivi ad accompagnare la parola. All’interno dell’universo concentrazionario si distinguono diverse tipologie di prigionieri a seconda del grado che ricoprono e delle loro mansioni specifiche nel Lager. L’autore continua a studiare la realtà e la struttura interna del campo di concentramento fino agli ultimi anni, perfezionando la propria conoscenza della letteratura specifica. La contrapposizione principale è tra i “funzionari” propriamente detti e «una vasta categoria di prigionieri che lottano con le sole loro forze per sopravvivere» (Se questo è un uomo, p. 88); a queste due categorie si affiancano i «prigionieri specialisti, simili agli schiavi indottrinati» (Il sistema periodico, p. 924), tra cui l’autore stesso si può annoverare dopo aver superato l’esame di chimica. Il gruppo più controverso è rappresentato da quei prigionieri a cui le SS affidavano la gestione dei crematori, le famigerate “Squadre Speciali”.
Il destino di umiliazione e reclusione a cui vanno incontro i deportati è già annunciato dal mezzo di trasporto che li conduce via dai paesi di origine, «il vagone piombato trasformato […] in prigione ambulante», macabro presagio con cui si aprono tutti i racconti degli ex deportati.
Nel paesaggio tratteggiato dallo scrittore non mancano prigionieri di altro tipo, prigionieri di guerra per cui è previsto un trattamento diverso, come i prigionieri inglesi catturati in battaglia.
Quando finalmente le sorti della guerra si rovesciano ne La tregua fanno la loro apparizione i prigionieri tedeschi.
Non manca un significato più metaforico e meno letterale legato soprattutto all’aggettivo (usato per lo più come sostantivo) “prigioniero”. I tedeschi che Levi incontra per le vie di Monaco ancora ingombre di macerie gli sembrano «asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta», «ancora prigionieri dell’antico nodo di superbia e di colpa». Qui si parla di una prigionia che è molto diversa da quella fisica e materiale, ma che a ben vedere sorge dalla stessa radice, ovvero dall’assenza di libertà, in questo caso la libertà interiore che agisce nell’ambito intellettuale e morale: i seguaci di Hitler sono anche loro degli schiavi «sordi ciechi, e muti», privi di libero arbitrio e per questo colpevoli.
Ne Il sistema periodico si dice chei racconti scritti alle Cave sono «il sogno di evasione di un prigioniero», alludendo con ciò alla distanza da Torino e alla situazione di solitudine patita dal protagonista che conduce una vita monotona e appartata non potendo rivelare la sua identità.
La “prigionia” del carbonio all’inizio del racconto omonimo coincide con l’assenza di libertà fisica, che penalizza l’atomo “potenzialmente vivo” e lo costringe a un’esistenza tormentosa: essa dunque detiene un rapporto più stretto con l’accezione del termine che abbiamo indicato per prima.
Se questo è un uomo
A giudicare dagli effetti, noti a chiunque abbia frequentato un ambulatorio o un laboratorio chimico o un'officina, appare evidente la ripugnanza con cui l'uomo parlante accoglie le parole che è costretto ad usare ma che gli giungono nuove. Esse rappresentano per lui dei veri corpi estranei, intrusi a forza nella sua lingua o nel suo dialetto, e il forzato utente cerca inconsciamente di aggiustarli: si comporta insomma come l'ostrica, che, inseminata con un granello di sabbia a spigoli aguzzi, non lo tollera e lo espelle, oppure lo rigira, lo cova, lo liscia, e a poco a poco ne fa una perla. (p. 664)
L'effabile è preferibile all'ineffabile, la parola umana al mugolio animale. (p. 679)
Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno. (p. 680)
Oltre a essere opera di civiltà e di pace, tradurre può dare gratificazioni uniche: il traduttore è il solo che legga veramente un testo, lo legga in profondità, in tutte le sue pieghe, pesando e apprezzando ogni parola e ogni immagine, o magari scoprendone i vuoti e i falsi. (p. 734)
Ma adesso il mio mestiere è un altro, è un mestiere di parole, scelte, pesate, commesse a incastro con pazienza e cautela; così, per me anche gli elementi tendono a diventare parole, invece della cosa mi interessa acutamente il suo nome e il perché del suo nome. Il panorama è un altro, ma altrettanto vario quanto quello delle cose stesse. (p. 746)
Veramente i personaggi di un libro sono creature strane. Non hanno pelle né sangue né carne, hanno meno realtà di un dipinto o di un sogno notturno, non hanno sostanza che di parole, ghirigori neri sul foglio di carta bianca, eppure puoi intrattenerti con loro, conversare con loro attraverso i secoli, odiarli, amarli, innamorartene. (p. 776)
La parola ci differenzia dagli animali: dobbiamo imparare a far buon uso della parola. Menti più rozze delle nostre, mille e milioni di anni addietro, hanno risolto problemi più ardui. (p. 785)
La tregua
Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. (p. 5)
Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna. (p. 19)
Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigionia, in me l'istinto della pulizia è sparito. (p. 34)
I giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l'idea della prigionia è legata immediatamente all'idea della fuga o della rivolta. (Appendice, p. 180)
Forse è bene che la condizione del prigioniero, la nonlibertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. (ibidem)
L'evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. (p. 181)
Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. (ibidem)
Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel «loro» campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. (p. 186)
Il sistema periodico
Il Signor Unverdorben, che non rispondeva a chi non lo chiamava « signore », e pretendeva di essere trattato con il «lei», aveva trascorso una lunga duplice esistenza avventurosa, e come il Moro e Tramonto era prigioniero di un sogno, anzi di due. (p. 292)
Fra i tronchi, sdraiati al sole proni, cotti dal sole, stavano una dozzina di prigionieri tedeschi, bradi. Nessuno li sorvegliava, nessuno li comandava né si prendeva cura di loro: secondo ogni apparenza, erano stati dimenticati, abbandonati puramente alla loro sorte. Erano vestiti di stracci scoloriti, in cui si riconoscevano tuttavia le orgogliose uniformi della Wehrmacht. (p. 308)
Nessuno, a Zmerinka, seppe o volle precisarci la nostra destinazione: ma andavamo a nord, via dal mare, via dall'Italia, verso la prigionia, la solitudine, il buio, l'inverno. (pp. 310-1)
Ma nessuno ci guardava negli occhi, nessuno accettò la contesa: erano sordi, ciechi e muti, asserragliati fra le loro rovine come in un fortilizio di sconoscenza voluta, ancora forti, ancora capaci di odio e di disprezzo, ancora prigionieri dell'antico nodo di superbia e di colpa. (p. 393)
I sommersi e i salvati
Neppure sono scomparsi i due racconti minerali che allora avevo scritti. […]Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante. (pp. 807-8)
Ma io ero ritornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. (p. 870)
Io stavo in laboratorio con altri due prigionieri specialisti, simili agli schiavi indottrinati che i ricchi romani importavano dalla Grecia. (p. 924)
La sua esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore, è un'alternanza spietata di caldi e di freddi, e cioè di oscillazioni (sempre di ugual frequenza) un po' più strette o un po' più ampie: una prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell'inferno cattolico. (p. 935)
Rivestire
Il verbo sembra mutuato dal linguaggio specialistico del settore delle vernici industriali in cui Primo Levi lavora per molti anni. Lo stesso termine ricorre nelle riflessioni metaletterarie per descrivere l’operazione più importante che compie lo scrittore, quella di ricoprire uomini e fatti di parole per poterli presentare ai lettori. Tuttavia sull’efficacia di questo processo Levi si mostra pessimista: rivestire un uomo di parole, cercare di farlo rivivere in una pagina scritta, è «un’impresa disperata» perché tra realtà e letteratura esiste uno scarto incolmabile. La letteratura serve essenzialmente a fermare sulla pagina scritta ricordi ed esperienze, a dare voce a chi non l’ha più testimoniando in sua vece, ma comporta sempre una selezione e una semplificazione rispetto al reale. Questo dato emerge prepotentemente nel passaggio fra la persona in carne e ossa e il personaggio letterario, quando molto va perduto nonostante gli sforzi e rimane l’impressione che l’operazione sia fallimentare per sua profonda essenza. Ciononostante bisogna provare, così come vale la pena di narrare l’avventura complessa di un atomo di carbonio rivisitandola a uso dei lettori.
In Domum servavit, ne L’altrui mestiere, compare l’accezione originaria, tecnica, del termine nella descrizione degli impieghi industriali della gommalacca. Ne I sommersi e i salvati compare un uso del termine che rimanda all’universo concentrazionario, laddove si dice che le ceneri umane provenienti dai crematori venivano usate al posto della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle SS.
Il sistema periodico
Quasi tutti i reduci, a voce o nelle loro memorie scritte, ricordano un sogno che ricorreva spesso nelle notti di prigionia, vario nei particolari ma unico nella sostanza: di essere tornati a casa, di raccontare con passione e sollievo le loro sofferenze passate rivolgendosi ad una persona cara, e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati. (pp. 997-8)
Per una conoscenza dei Lager, i Lager stessi non erano sempre un buon osservatorio: nelle condizioni disumane a cui erano assoggettati, era raro che i prigionieri potessero acquisire una visione d'insieme del loro universo. (p. 1001)
Era nella logica delle cose che questi storici fossero quasi tutti prigionieri politici: e ciò perché i Lager erano un fenomeno politico; perché i politici, molto più degli ebrei e dei criminali (erano queste, come è noto, le tre categorie principali di prigionieri), potevano disporre di uno sfondo culturale che consentiva loro di interpretare i fatti a cui assistevano. (pp. 1002-3)
L'interno dei Lager era un microcosmo intricato e stratificato; la «zona grigia» di cui parlerò più oltre, quella dei prigionieri che in qualche misura, magari a fin di bene, hanno collaborato con l'autorità, non era sottile, anzi costituiva un fenomeno di fondamentale importanza per lo storico, lo psicologo ed il sociologo. (p. 1004)
L'urto contro la realtà concentrazionaria coincide con l'aggressione, non prevista e non compresa, da parte di un nemico nuovo e strano, il prigioniero-funzionario, che invece di prenderti per mano, tranquillizzarti, insegnarti la strada, ti si avventa addosso urlando in una lingua che tu non conosci, e ti percuote sul viso. (p. 1021)
Prima di discutere partitamente i motivi che hanno spinto alcuni prigionieri a collaborare in varia misura con l'autorità dei Lager, occorre però affermare con forza che davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale. (p. 1023)
Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio.[…]. Con questa denominazione debitamente vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. (p. 1028)
Che molti (ed io stesso) abbiano provato «vergogna», e cioè senso di colpa, durante la prigionia e dopo, è un fatto accertato e confermato da numerose testimonianze. (p. 1047)
Non c'è diario o racconto, fra i molti nostri, in cui non compaia il treno, il vagone piombato, trasformato da veicolo commerciale in prigione ambulante o addirittura in strumento di morte. (p. 1075)
L'esercito dei prigionieri nei Lager doveva essere una copia ingloriosa dell'esercito propriamente detto: o per meglio dire, una sua caricatura. (p. 1082)
A partire dall'inizio del 1942, ad Auschwitz e nei Lager che ne dipendevano (nel 1944 erano una quarantina) il numero di matricola dei prigionieri non veniva più soltanto cucito agli abiti, ma tatuato sull'avambraccio sinistro. (p. 1084)
Coloro che hanno sperimentato la prigionia (e, molto più in generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. (p. 1109)
Parlano perché, a vari livelli di consapevolezza, ravvisano nella loro (anche se ormai lontana) prigionia il centro della loro vita, l'evento che nel bene e nel male ha segnato la loro esistenza intiera. (ibidem)
I sommersi e i salvati
Oggi so che è un'impresa senza speranza rivestire un uomo di parole, farlo rivivere in una pagina scritta: un uomo come Sandro in specie. (p. 781)
Un po' alla ventura, e facendo una faccia solenne, ho tirato anche il colpo di spiegargli che con un foglio di piombo si possono anche rivestire le casse dei morti, in modo che questi non fanno i vermi, ma diventano secchi e sottili, e così anche l'anima non si disperde. (p. 814)
Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l'umiltà e il ritegno di chi sa fin dall'inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza. (p. 941)
L'altrui mestiere
Le ceneri umane provenienti dai crematori, tonnellate al giorno, erano facilmente riconoscibili come tali, poiché contenevano spesso denti o vertebre. Ciò nonostante, furono usate per vari scopi: per colmare terreni paludosi, come isolante termico nelle intercapedini di costruzioni in legno, come fertilizzante fosfatico; segnatamente, furono impiegate invece della ghiaia per rivestire i sentieri del villaggio delle SS, situato accanto al campo. (p. 1089)
Specie umana
SPECIE UMANA/UOMO/UMANO
Questa famiglia di parole riguardanti l’uomo conta moltissime occorrenze all’interno dell’opera di Primo Levi. L’interesse per l’uomo e per i risvolti etici del suo agire di essere pensante, è fondante in Se questo è un uomo, La tregua, I sommersi e i salvati e nei moltissimi testi di tipo saggistico che affrontano il tema della deportazione. Primo Levi ha il coraggio di studiare in profondità anche la «demolizione» di un uomo, soffermandosi a osservare quella soglia indistinta in cui l’umanità va smarrita o per l’insostenibilità dell’affronto subito o per la degradazione indotta dall’educazione all’odio.
La dimensione umanistica di questa ricerca non è mai disgiunta dallo sguardo scientifico del naturalista, nella convinzione che l’uomo è «centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere», e che quindi partecipa di un istinto puramente animale e di una natura razionale. L’uso frequente dell’espressione “specie umana” testimonia da un lato uno sforzo di oggettività scientifica nel giudicare le azioni umane, dall’altro la volontà euristica di acquisire sempre maggiori informazioni sull’intimo funzionamento di quella creatura complessa chiamata uomo.
Se questo è un uomo
Oggi la gommalacca si impiega principalmente come legante nelle vernici a spirito. È chiaro che col sistema sopra detto si possono rivestire solo pezzi che presentino una simmetria cilindrica e dimensioni adatte al tornio. Ai fini - dell'impiego come vernice, occorreva trovare un solvente adatto a sciogliere la resina, ed una tecnologia che la riducesse in una forma facilmente solubile. (p. 697)
La tregua
Questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei campi di distruzione. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano. (p. 5)
A quel tempo, non mi era stata ancora insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell'uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga. (p. 7)
E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire. (p. 9)
Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. (p. 11)
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo, e noi non eravamo che un comune campione di umanità. (ibidem)
Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. (p. 20)
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. (p. 21)
È Null Achtzehn. Non si chiama altrimenti che così, Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. (p. 36)
Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare dell'uomo. (p. 49)
La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. (p. 66)
Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria. (p. 82)
Vorremmo far considerare come il Lager sia stato, anche e notevolmente, una gigantesca esperienza biologica e sociale. Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell'animale-uomo di fronte alla lotta per la vita. (ibidem)
Ci pare invece degno di attenzione questo fatto: viene in luce che esistono fra gli uomini due categorie particolarmente ben distinte: i salvati e i sommersi. Altre coppie di contrari (i buoni e i cattivi, i savi e gli stolti, i vili e i coraggiosi, i disgraziati e i fortunati) sono assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse. (pp. 83-4)
La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato; sono loro, i Musulmänner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. (p. 86)
Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. (p. 88)
I personaggi di queste pagine non sono uomini. La loro umanità è sepolta, o essi stessi l'hanno sepolta, sotto l'offesa subita o inflitta altrui. Le SS malvage e stolide, i Kapos, i politici, i criminali, i prominenti grandi e piccoli, fino agli Häftlinge indifferenziati e schiavi, tutti i gradini della insana gerarchia voluta dai tedeschi, sono paradossalmente accomunati in una unitaria desolazione interna.(p. 118)
Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo. (ibidem)
Distruggere l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. (p. 146)
Fu quello il primo gesto umano che avvenne fra noi. Credo che si potrebbe fissare a quel momento l'inizio del processo per cui, noi che non siamo morti, da Häftlinge siamo lentamente ridiventati uomini. (p. 156)
Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l'esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l'uomo è stato una cosa agli occhi dell'uomo. (p. 168)
In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell'Uomo, e l'uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. (p. 186)
Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l'animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale. (p. 201)
Il sistema periodico
In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi. (p. 226)
L'assistere al comportamento dell'uomo che agisce non secondo ragione, ma secondo i propri impulsi profondi, è uno spettacolo di estremo interesse, simile a quello di cui gode il naturalista che studia le attività di un animale dagli istinti complessi. (p. 250)
L'esperimento di trapiantare nella civiltà un «uomo selvatico» è stato tentato più volte, spesso con ottimo esito, a dimostrare la fondamentale unità della specie umana; nel Velletrano si realizzava l'esperienza inversa, poiché, originario delle vie sovraffollate di Trastevere, si era ritrasformato in uomo selvaggio con mirabile facilità. (p. 337)
Racconti e saggi
Questo contrasto ne rispecchia un altro, quello essenziale dell'ebraismo della Diaspora, disperso fra «le genti» (i «gòjim», appunto), teso fra la vocazione divina e la miseria quotidiana dell'esilio; e un altro ancora, ben più generale, quello insito nella condizione umana, poiché l'uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere. (p. 746)
A distanza di trent'anni, mi riesce difficile ricostruire quale sorta di esemplare umano corrispondesse, nel novembre 1944, al mio nome, o meglio al mio numero 174517. (p. 860)
Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. (p. 870)
Né infame né eroe: filtrata via la retorica e le bugie in buona o in mala fede, rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi. (pp. 931-2)
Da questa sempre rinnovata impurezza dell'aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia,le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. (p. 937)
I sommersi e i salvati
Quanto alla ricerca di base, essa può e deve proseguire: se l'abbandonassimo tradiremmo la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di esistere. (p. 993)
Storia
Passare in rassegna i significati che la parola riveste nell’opera dello scrittore significa ripercorrere molti aspetti del suo pensiero e della sua attività letteraria. Bisogna innanzi tutto distinguere tra la Storia e le storie: la prima riguarda tutti in molti modi, le seconde appartengono ai singoli individui.
La storia secondo Levi è un processo dinamico innescato dagli uomini e dunque soggetto agli errori e ai difetti di questi ultimi. In Oro lo scrittore, alludendo al susseguirsi di eventi della Seconda Guerra Mondiale, afferma che «la storia aveva ripreso il suo cammino». La concezione della storia che sta dietro a questa immagine è profonda e tutt’altro che semplicistica; in ambito storico «i perché possono essere molti, confusi fra loro, o inconoscibili, se non addirittura inesistenti». Essa è dunque un processo dinamico ma non strettamente deterministico. È significativo che tale nozione sia sostenuta da un uomo che aveva studiato la storia del Novecento e che era stato coinvolto in prima persona in eventi rilevanti di quel secolo: le ragioni ultime dei sommovimenti storici, come quelle dei fenomeni scientifici, sono così intricate che si sottraggono spesso al bisogno umano di capire, ordinare, classificare senza ombra di dubbio o possibilità di errore. Un aspetto importante correlato alla storia è la narrazione più o meno ideologica della storia stessa, ovvero la storiografia, che può trattare fatti contemporanei o appartenenti al passato. I regimi assoluti come quelli nazista e fascista avevano la pretesa di riscrivere la storia a loro piacimento, riducendola a mera propaganda e distorcendo la verità. Un analogo processo di riscrittura è appannaggio del revisionismo storico della seconda metà del Novecento, contro cui lo scrittore si è pronunciato in più occasioni.
Primo Levi è stato per sua stessa ammissione un uomo a cui venivano raccontate molte storie. La curiosità per le storie degli individui percorre l’opera di Levi da Se questo è un uomo a Lilít, in cui sono narrate le storie di personaggi conosciuti dallo scrittore (come Cesare e Lorenzo) e quelle apprese indirettamente (come nel caso di Avrom o Rumkowski ). Durante la prigionia Levi non smette di nutrire interesse per le persone che lo circondano e, in generale, per i comportamenti umani. Ma il Lager rappresenta uno spazio-tempo a sé in cui la percezione dello scorrere dei giorni è alterata, il presente non si riversa più nel futuro e quest’ultimo appare come «una barriera invincibile». Il Lager, che imprigiona gli uomini e li taglia fuori dal mondo e dalle loro stesse vite, è una sorta di grado zero della storia, individuale e collettiva. Lo scopo che i nazisti perseguono è di privare per sempre i prigionieri di tutto ciò che sono stati fino a quel momento: il campo di concentramento impone una cesura nell’esistenza di ciascuno, e questa forzata interruzione, moltiplicata per milioni di uomini, avrebbe potuto cancellare le tradizioni e la storia di un intero popolo. Dopo l’ingresso nel campo la personalità viene gradualmente annientata, al punto che i sommersi, quei prigionieri che si sono attenuti a tutti gli ordini nazisti e «che hanno seguito il pendio fino al fondo», non hanno storia né nome, e il loro stesso volto non reca più traccia di pensiero.
L’opera di testimonianza svolta dall’autore nel dialogo con i più giovani e attraverso i libri pubblicati ha come risultato anche quello di preservare dall’oblio le storie dei prigionieri che non hanno più voce.
Se la sua esperienza di deportato porta Levi a interrogarsi sul significato della Storia e delle storie individuali spazzate via dal nazismo, la sua natura ancipite di scrittore e chimico lo spinge a scrivere la storia del mestiere che ha esercitato per tutta la vita. Il sistema periodico è infatti una “microstoria”, la storia del mestiere di chimico e delle sue «sconfitte, vittorie e miserie». Con questo testo lo scrittore dimostra che è possibile fare letteratura parlando di scienza e narrando la storia di singoli elementi. Alla base di tali scelte vi è la convinzione che la letteratura offra a chi si dispone a narrare un universo sconfinato di possibilità, tutte ugualmente valide e praticabili: se l’immaginazione detta una storia, questa può essere ambientata, secondo lo scrittore, «nell’Empireo, alla corte di Tamerlano, nella stiva di un peschereccio, dentro un globulo rosso, in fondo a una miniera o in un bordello».
Se questo è un uomo
Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale. (p. 1020)
L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine. (p. 1021)
Il potere esiste in tutte le varietà dell'organizzazione sociale umana, più o meno controllato, usurpato, investito dall'alto o riconosciuto dal basso, assegnato per merito o per solidarietà corporativa o per sangue o per censo: è verosimile che una certa misura di dominio dell'uomo sull'uomo sia inscritta nel nostro patrimonio genetico di animali gregari. (p. 1025)
Negare che comunicare si può è falso: si può sempre. Rifiutare di comunicare è colpa; per la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti. Tutte le razze umane parlano; nessuna specie non-umana sa parlare.(pp. 1059-60)
L'ora settimanale in cui i nostri compagni «politici» ricevevano la posta da casa era per noi la più sconsolata, quella in cui sentivamo tutto il peso dell'essere altri, estraniati, tagliati fuori dal nostro paese, anzi, dal genere umano. Era l'ora in cui sentivamo il tatuaggio bruciare come una ferita, e ci invadeva come una frana di fango la certezza che nessuno di noi sarebbe tornato. (p. 1071)
Né Nietzsche né Hitler né Rosenberg erano pazzi quando ubriacavano se stessi e i loro seguaci con la loro predicazione del mito del superuomo, a cui tutto è concesso a riconoscimento della sua dogmatica e congenita superiorità; ma è degno di meditazione il fatto che tutti, il maestro e gli allievi, siano usciti progressivamente dalla realtà a mano a mano che la loro morale si andava scollando da quella morale, comune a tutti i tempi ed a tutte le civiltà, che è parte della nostra eredità umana, ed a cui da ultimo bisogna pur dare riconoscimento. (p. 1074)
La tregua
La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo. (p. 5)
Mi ha raccontato la sua storia, e oggi l'ho dimenticata, ma era certo una storia dolorosa, crudele e commovente; chè tali sono tutte le nostre storie, centinaia di migliaia di storie, tutte diverse e tutte piene di una tragica sorprendente necessità. Ce le raccontiamo a vicenda a sera, e sono avvenute in Norvegia, in Italia, in Algeria, in Ucraina, e sono semplici e incomprensibili come le storie della Bibbia. Ma non sono anch'esse storie di una nuova Bibbia? (pp. 59-60 )
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto». (p. 84)
Tutti i mussulmani che vanno in gas hanno la stessa storia, o, per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare. (p. 86)
Se i sommersi non hanno storia, e una sola e ampia è la via della perdizione, le vie della salvazione sono invece molte, aspre ed impensate. (ibidem)
Conchiuso il tempo in cui i giorni si inseguivano vivaci, preziosi e irreparabili, il futuro ci stava davanti grigio e inarticolato, come una barriera invincibile. Per noi, la storia si era fermata. (p. 113)
La storia della mia relazione con Lorenzo è insieme lunga e breve, piana ed enigmatica; essa è una storia di un tempo e di una condizione ormai cancellati da ogni realtà presente, e perciò non credo che potrà essere compresa altrimenti di come si comprendono oggi i fatti della leggenda e della storia più remota. (p. 115)
Nella quasi totalità, essi scomparvero durante la marcia di evacuazione: Alberto è fra questi. Qualcuno scriverà forse un giorno la loro storia. (p. 151)
In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all'informazione si sostituisce la propaganda. (p. 177)
Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. (p. 185)
I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. (p. 186)
I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell'umanità: all'antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. (p. 187)
Almeno per quanto riguardavagli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. (ibidem)
La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestassero una o più di queste differenze. Nell'intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. (p. 191)
Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall'umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l'agitatore politico Adolf Hitler. (p. 193)
Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all'impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. (p. 196)
Il sistema periodico
La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro. Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. «Guerra è sempre», l'uomo è lupo all'uomo: vecchia storia. (p. 242)
Cesare se ne andò: prese un treno per Bucarest, ebbe molte avventure, e riuscì nel suo proposito, tornò cioè a Roma in aereo, sebbene più tardi di noi; ma questa è un'altra storia, una storia «de haulte graisse», che non racconterò, o racconterò in altra sede solo se e quando Cesare me ne darà il permesso. (p. 385)
I sommersi e i salvati
Nobili, inerti e rari: la loro storia è assai povera rispetto a quella di altre illustri comunità ebraiche dell'Italia e dell'Europa. (p. 742)
Il vetro, invece, è opera dell'uomo ed ha storia più recente. Fu la prima nostra vittima, o meglio il primo nostro avversario. (p. 760)
Bastava scegliere due nomi a caso, meglio se di sesso diverso, e chiedere a un terzo: «Che c'è stato fra loro? », ed ecco, mi veniva dipanata una splendida storia, poiché ognuno conosceva la storia di tutti. (p. 798)
Pare che in un 'isola vicina (voglio dire «la più vicina»: è a nord-est di questa, a non meno di 1200 miglia, e si chiama Sant'Elena) avessero esiliato una persona importante e pericolosa, ed avessero paura che i suoi sostenitori lo aiutassero a fuggire ed a rifugiarsi quaggiù. È una storia a cui io non ho mai creduto: la mia isola si chiama «Desolazione», e mai nome d'isola è stato meglio trovato; per cui, non ho mai capito che cosa una persona importante come quella potesse venire a cercare qui. (p. 822)
Io, dopo il matrimonio di Giulia, ero rimasto solo coi miei conigli, mi sentivo vedovo ed orfano, e fantasticavo di scrivere la saga di un atomo di carbonio, per far capire ai popoli la poesia solenne, nota solo ai chimici, della fotosintesi clorofilliana: ed in fatto l'ho poi scritta, ma molti anni più tardi, ed è la storia con cui questo libro si conclude. (p. 849)
Venne in novembre lo sbarco alleato in Nord Africa, venne in dicembre la resistenza e poi la vittoria russa a Stalingrado, e capimmo che la guerra si era fatta vicina e la storia aveva ripreso il suo cammino. (p. 851)
Ci parlavano di sconosciuti: Gramsci, Salvemini, Gobetti, i Rosselli; chi erano? Esisteva dunque una seconda storia, una storia parallela a quella che il liceo ci aveva somministrata dall'alto? In quei pochi mesi convulsi cercammo invano di ricostruire, di ripopolare il vuoto storico dell'ultimo ventennio, ma quei nuovi personaggi rimanevano «eroi», come Garibaldi e Nazario Sauro, non avevano spessore né sostanza umana. (ibidem)
Il loro centurione si chiamava Fossa, ed è strano, assurdo e sinistramente comico, data la situazione di allora, che lui giaccia da decenni in qualche sperduto cimitero di guerra, ed io sia qui, vivo e sostanzialmente indenne, a scrivere questa storia. (p. 853)
Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. (pp. 870-1)
Era palese che non attendeva altro se non una minima sollecitazione da parte mia per raccontarmi una storia; non gliela feci mancare, e la storia è questa, un po' deperita per effetto della traduzione dal piemontese, linguaggio essenzialmente parlato, all'italiano marmoreo, buono per le lapidi. (p. 887)
Più interessante, ma indecifrabile, era l'origine della sua storia: profondamente sua, la sua, poiché, come seppi in seguito, la raccontava sovente ed a tutti, ma senza sostanziarla con l'apporto della materia, e con particolari via via più colorati e meno credibili col passare degli anni. (p. 911)
Gli chiesi se a questo libro gli sarebbe piaciuto contribuire: se sì, mi raccontasse una storia, e, se mi era permesso dare un suggerimento, doveva essere una storia delle nostre, in cui ci si arrabatta nel buio per una settimana o per un mese, sembra che sarà buio sempre, e viene voglia di buttare via tutto e di cambiare mestiere: poi si scorge nel buio un bagliore, si va a tentoni da quella parte, e la luce cresce, e infine l'ordine segue al caos. (p. 915)
Non era una lettera modello, da paradigma: a questo punto, se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale, di nazista pervicace. Ora questa storia non è inventata, e la realtà è sempre più complessa dell'invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia in un piano. (p. 928)
Raccontava la sua storia: «trascinato inizialmente dal generale entusiasmo per il regime di Hitler », si era iscritto in una lega studentesca nazionalistica, che poco dopo era stata incorporata d'ufficio nelle SA; aveva ottenuto di esserne congedato, e commentava che «anche questo era dunque possibile». (p. 929)
Non è neppure un'autobiografia, se non nei limiti parziali e simbolici in cui è un'autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. È, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie. (p. 935)
Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un'ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio. (p. 935)
Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d'ossigeno e ad uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle, ma la ignoreremo. (ibidem)
La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa. (p. 936)
Da questa sempre rinnovata impurezza dell'aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia, le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. (p. 937)
Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere: tutte letteralmente vere, nella natura dei trapassi, nel loro ordine e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. (p. 941)
L'altrui mestiere
I comandi SS ed i servizi di sicurezza posero poi la massima cura affinché nessun testimone sopravvivesse. È questo il senso (difficilmente se ne potrebbe escogitare un altro) dei trasferimenti micidiali, ed apparentemente folli, con cui si è chiusa la storia dei campi nazisti nei primi mesi del 1945. (p. 999 )
I Lager erano diventati pericolosi per la Germania moribonda perché contenevano il segreto dei Lager stessi, il massimo crimine nella storia dell'umanità. (ibidem)
A distanza di anni, si può oggi bene affermare che la storia dei Lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall'incomprensione. (p. 1002)
In generale, interessano poco le descrizioni delle cose viste e degli atti compiuti: esse coincidono ampiamente con quanto è stato raccontato dalle vittime; assai raramente vengono contestate, sono passate in giudicato e fanno ormai parte della Storia. Spesso vengono date per note. Sono molto più importanti le motivazioni e le giustificazioni: perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto? (p. 1008)
L'intera storia del breve «Reich Millenario» può essere riletta come guerra contro la memoria, falsificazione orwelliana della memoria, falsificazione della realtà, negazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima. (p. 1013)
Può accadere che storici diversi comprendano e costruiscano la storia in modi fra loro incompatibili; tuttavia, è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l'esigenza di dividere il campo fra «noi» e «loro», che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi. (p. 1017)
In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene, di poter parteggiare, di ripetere il gesto di Cristo nel Giudizio Universale: qui i giusti, là i reprobi. (p. 1018)
La storia di Chaim Rumkowski non è propriamente una storia di Lager, benché nel Lager si concluda: è una storia di ghetto, ma così eloquente sul tema fondamentale dell'ambiguità umana provocata fatalmente dall'oppressione, che mi pare si attagli fin troppo bene al nostro discorso. (p. 1037)
Una storia come questa non è chiusa in sé. È pregna, pone più domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l'intera tematica della zona grigia, e lascia sospesi. (p. 1042)
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice «se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me». (p. 1043)
Molte delle inutili violenze naziste appartengono oramai alla storia: si pensi ai massacri «sproporzionati» delle Fosse Ardeatine, di Oradour, Lidice, Boves, Marzabotto e troppi altri, in cui il limite della rappresaglia, già intrinsecamente disumano, è stato enormemente sorpassato; ma altre minori, singole, rimangono scritte in caratteri indelebili nella memoria di ognuno di noi ex deportati, dettagli del grande quadro. (p. 1075)
Ha scritto anni fa Norberto Bobbio che i campi di annientamento nazisti sono stati «non uno degli eventi, ma l'evento mostruoso, forse irripetibile, della storia umana». (pp. 1109-10)
Non è detto che la storia delle cose umane obbedisca a schemi logici rigorosi. Non è detto che ogni svolta segua da un solo perché: le semplificazioni sono buone solo per i testi scolastici, i perché possono essere molti, confusi fra loro, o inconoscibili, se non addirittura inesistenti. Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la storia umana sia un processo deterministico. (p. 1110)
La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte dal basso, dei «molti oppressi» contro i «pochi potenti», è vecchia come la storia dell'umanità ed altrettanto varia e tragica. (p. 1117)
Se (un altro se! ma come resistere al fascino dei sentieri che si biforcano?), se i tedeschi anomali, capaci di questo modesto coraggio, fossero stati più numerosi, la storia di allora e la geografia di oggi sarebbero diverse. (p. 1126)
Viaggio
Il termine "viaggio" rimanda immediatamente al terribile viaggio che da Fossoli (Carpi) trasportò Primo Levi fino al Lager di Auschwitz e che viene narrato all’inizio di Se questo è un uomo, comparendo in seguito in molti altri scritti di testimonianza. Specularmente opposto a questo è l’altro viaggio, quello al centro de La tregua, che porta lo scrittore e i suoi compagni a descrivere un lungo e intricato percorso attraverso l’Europa centro-orientale. È un viaggio verso casa, avventuroso e picaresco, costellato di incontri con personaggi bizzarri. I toni sono spesso allegri, anche se non mancano pagine di riflessione sulla tragedia appena consumatasi e sulla condizione del superstite. Dopo la deportazione, il viaggio de La tregua sancisce di nuovo l’appartenenza dei reduci alla vita, in un clima scanzonato di apertura nei confronti di ciò che è nuovo e fuori dall’ordinario.
Primo Levi stesso considerava quel momento come una preziosa occasione di avventura che gli era stata concessa all’interno di un’esistenza piuttosto statica, che si era svolta in massima parte a Torino e in Piemonte. Il topos del viaggio, che si ritrova poi in molte opere, da La chiave a stella a Se non ora, quando? era ricondotto dallo scrittore proprio al bisogno di dare sfogo a un amore mal soddisfatto per i viaggi e gli spostamenti.
Se questo è un uomo
La storia della tecnologia dimostra come, davanti ai problemi nuovi, la cultura scientifica e la precisione siano necessarie ma insufficienti. (p. 705)
Anche la benzina trae il suo nome (italiano e tedesco: altre lingue la chiamano diversamente) da un prodotto naturale, ma attraverso una storia chimico-linguistica strana e ingarbugliata. (pp. 741-2)
I chimici sono stati sempre più discreti; nella mia rassegna ho trovato solo due nomi di elementi che gli scopritori hanno voluto dedicare a se stessi, e sono il Gadolinio (scoperto dal finlandese Gadolin) e il Gallio. Quest'ultimo ha una storia curiosa. (p. 748)
Deliberatamente ho lasciato da parte la storia dei nomi degli elementi veterani, noti a tutti, caratterizzati e sfruttati dalle civiltà più antiche mille e mille anni prima che nascesse il primo chimico: il Ferro, l'Oro, l'Argento, il Rame, lo Zolfo, e diversi altri. È una storia complicata ed affascinante, che varrà forse la pena di raccontare a parte. (p. 750)
Puoi ambientare la tua storia dove vuoi; nel soggiorno di casa tua, nell'Empireo, alla corte di Tamerlano, nella stiva di un peschereccio, dentro un globulo rosso, in fondo a una miniera o in un bordello: insomma, in qualsiasi luogo tu abbia visto, o in luoghi sentiti descrivere, o letti, o visti al cinema o in fotografia, o immaginati, immaginari, immaginabili, non immaginabili. (p. 775)
Causa maggioritaria di disagio è, o dovrebbe essere, la paura nucleare. Sotto questo aspetto, la situazione è nuova nella storia umana: non era mai successo, neanche alla lontana, che un singolo atto di volontà, un singolo gesto, potesse portare alla distruzione istantanea del genere umano, ed alla scomparsa probabile, in qualche settimana, di ogni forma di vita sulla Terra. (p. 853)
La tregua
Ma il mattino del 21 si seppe che l'indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva. Prepararsi per quindici giorni di viaggio. (p. 8)
Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all'alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare. (p.9)
Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano, quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall'esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all'ingiù, verso il fondo. Questa volta dentro siamo noi. (p. 11)
Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. (ibidem)
Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l'autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi. (p. 16)
Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell'anima prima che dalla morte anonima. (p. 49)
«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «... quella compagna picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d'Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. (p. 109)
Il sistema periodico
Fu un viaggio labirintico, che durò tre giorni, con soste notturne in luoghi assurdamente lontani dalla congiungente fra i due estremi: un viaggio di gelo e di fame, che ci condusse il primo giorno in un luogo detto Trzebinia. (p.244)
Il giorno dopo, il nostro sogno di sempre si era fatto realtà. Alla stazione di Katowice ci aspettava il treno: un lungo treno di vagoni merci, di cui noi italiani (eravamo circa ottocento) prendemmo possesso con fragorosa allegria. Odessa; e poi un fantastico viaggio per mare attraverso le porte dell'Oriente; e poi l'Italia. (p.299)
Ma per me quel viaggio riuscì tormentoso oltre misura. Della pleurite dovevo essere guarito, ma il mio corpo era in aperta ribellione, e sembrava deliberato a farsi gioco dei medici e delle medicine. (p. 301)
Loro due avevano imparato l'usbeco, e molte altre cose fondamentali: a prendere la vita giorno per giorno, a viaggiare per continenti con una valigetta in due, a vivere insomma come gli uccelli del cielo, che non filano e non tessono e non si curano dell'indomani. (p. 303)
Ma i russi, a differenza dei tedeschi, non posseggono che in minima misura il talento per le distinzioni e per le classificazioni. Pochi giorni dopo eravamo tutti in viaggio verso il nord, verso una meta imprecisata, comunque verso un nuovo esilio. Italiani-rumeni e italiani-italiani, tutti sugli stessi carri merci, tutti col cuore stretto, tutti in balia della indecifrabile burocrazia sovietica, oscura e gigantesca potenza, non malevola verso di noi, ma sospettosa, negligente, insipiente, contraddittoria, e negli effetti cieca come una forza della natura. (p. 306)
Il viaggio terminò poche ore dopo, in piena notte, nel culmine di un violento temporale. Fummo fatti scendere sotto il diluvio, in una oscurità assoluta, rotta a tratti dai lampi. (p.311)
Avremmo fatto un comodissimo viaggio in telega, anzi in tjeljega, e un ingresso trionfale a Staryje Doroghi, il tutto per otto rubli: ecco che cosa voleva dire la conoscenza delle lingue e l'abilità diplomatica. (p.326)
Altri passavano su carretti, o a cavallo; altri ancora, in motocicletta, a stormi, ebbri di velocità, con fragore infernale. Passavano autocarri Dodge di fabbricazione americana, gremiti di uomini fin sul cofano e sui parafanghi; alcuni trascinavano un rimorchio altrettanto gremito. Vedemmo uno di questi rimorchi viaggiare su tre ruote: al posto della quarta era stato assicurato alla meglio un pino, in posizione obliqua, in modo che una estremità appoggiasse sul suolo strisciandovi. A mano a mano che questa si consumava per l'attrito, il tronco veniva spinto più in basso, così da mantenere il veicolo in equilibrio. (pp.342-3)
Questo messaggero celeste, che viaggiava da solo in mezzo al fango su di una utilitaria sgretolata e vetusta, era il maresciallo Timošenko in persona, Semjòn Konstantínovič Timošenko, l'eroe della rivoluzione bolscevica, della Cardia e di Stalingrado. (p. 367)
Dopo l'anno di Lager, di pena e di pazienza; dopo l'ondata di morte seguita alla liberazione; dopo il gelo e la fame e il disprezzo e la fiera compagnia del greco; dopo le malattie e la miseria di Katowice; dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l'ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all'in su, in cammino verso casa. (p.370)
Ma ben presto, fin dalle prime ore di viaggio, ci dovemmo rendere conto che l'ora dell'impazienza non era ancora suonata: quell'itinerario felice si profilava lungo e laborioso e non privo di sorprese: una piccola odissea ferroviaria entro la nostra maggiore odissea. (ibidem)
Fin dalle prime giornate, il nostro ottimismo perse un poco del suo splendore: quel nostro viaggio, che secondo ogni apparenza faceva bene sperare di essere l'ultimo, era stato organizzato dai russi nel modo più vago e schiappino che si possa immaginare: o meglio, sembrava non essere stato organizzato affatto, bensì deciso da chissà chi, chissà dove, con un semplice tratto di penna. (p. 372)
In tutto il convoglio non esistevano che due o tre carte geografiche, senza tregua disputate, su cui andavamo ritrovando con fatica i nostri problematici progressi: che si viaggiasse verso sud, era indubbio, ma con una lentezza e irregolarità esasperanti, con deviazioni e fermate incomprensibili, percorrendo talora solo qualche decina di chilometri nelle ventiquattr'ore. (ibidem)
In mezzo alla pioggia, che ci rendeva collerici e tristi, viaggiammo quasi senza soste per tre giorni, fermando solo per poche ore in un paese pieno di fango, dal nome glorioso di Alba Iulia. (p. 383)
Aveva lasciato fra noi un vuoto doloroso: in sua assenza, nessuno sapeva di cosa parlare, nessuno più riusciva a vincere la noia del viaggio interminabile, la fatica dei diciannove giorni di tradotta che ormai ci pesavano sulle spalle. (p. 385)
L'Austria confina con l'Italia, e St. Valentin non dista da Tarvisio più di trecento chilometri; eppure il 15 ottobre, trentunesimo giorno di viaggio, attraversavamo una nuova frontiera ed entravamo a Monaco, in preda ad una sconsolata stanchezza ferroviaria, ad una nausea definitiva di binari, di precari sonni su tavolati di legno, di sobbalzi, di stazioni[…] Eravamo stanchi di ogni cosa, stanchi in specie di perforare inutili confini. (p. 392)
Giunsi a Torino il 19 di ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i familiari vivi, nessuno mi aspettava. (p. 395)
I sommersi e i salvati
Qualcuno dice che questo avviene perché il metallo entra nel sangue e lo smagrisce a poco a poco; altri pensano piuttosto che sia una vendetta degli Dei, ma in ogni modo a noi Rodmund importa poco che la nostra vita sia breve, perché siamo ricchi, rispettati e vediamo il mondo. Infatti, il caso di quel mio proavo dai denti azzurri è eccezionale, perché era eccezionalmente ricco il giacimento che lui aveva scoperto: in generale, noi cercatori siamo anche viaggiatori. (p. 810)
Cosi, dopo sei generazioni di sosta, io ho ripreso a viaggiare, alla ricerca di pietre da fondere, o da far fondere da altre genti, insegnandogli l'arte contro oro; ecco, noi Rodmund siamo negromanti: mutiamo il piombo in oro. (ibidem)
Sono partito da solo, verso sud, quando ero ancora giovane. Ho viaggiato per quattro anni, di contrada in contrada, evitando le pianure, risalendo le valli, battendo col martello,trovando poco o nulla: d'estate lavoravo nei campi, d'inverno intrecciavo canestri o spendevo l'oro che mi ero portato con me. (ibidem)
Volevo spendere l'oro in un viaggio per mare, per conoscere il mare e i marinai, perché i marinai hanno bisogno del piombo, anche se non lo sanno. (p. 815)
Tornai a casa a sera, spiegai alla recentissima moglie il fatto dell'allossana e dell'acido urico, e le annunciai che l'indomani sarei partito per un viaggio d'affari: che cioè avrei preso la bicicletta, e fatto un giro per le cascine della periferia (a quel tempo c'erano ancora) in cerca di sterco di gallina. Non esitò: la campagna le piace, e la moglie deve seguire il marito; sarebbe venuta anche lei. Era una specie di supplemento del nostro viaggio di nozze, che per ragioni di economia era stato frugale e frettoloso. (p. 896)
Viaggiò col vento per otto anni: ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell'avventura organica. (p. 936)
Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. (p. 938)
L'altrui mestiere
Poteva accadere, soprattutto per coloro che non capivano il tedesco, che i prigionieri non sapessero neppure in quale punto d'Europa si trovasse il Lager in cui stavano, ed in cui erano arrivati dopo un viaggio massacrante e tortuoso in vagoni sigillati. (p. 1001 )
Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall'umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o cento per vagone merci; di viaggiare verso l'ignoto, alla cieca, per giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. (p. 1036)
Ora, 50 persone in un vagone merci stanno molto a disagio; possono sdraiarsi tutte simultaneamente per riposare, ma corpo contro corpo. Se sono 100 o più, anche un viaggio di poche ore è un inferno, si deve stare in piedi, o accovacciati a turno; e spesso, tra i viaggiatori, ci sono vecchi, ammalati, bambini, donne che allattano, pazzi, o individui che impazziscono durante il viaggio e per effetto del viaggio. (p. 1075-6)
In totale, partirono da Westerbork 93 treni, diretti ad Auschwitz, a Sobibór e ad altri campi minori. I superstiti furono circa 500 e nessuno di questi aveva viaggiato nei primi convogli, i cui occupanti erano partiti alla cieca, nella speranza infondata che alle necessità più elementari per un viaggio di tre o quattro giorni si provvedesse d'ufficio; perciò non si sa quanti siano stati i morti durante il transito, né come il terribile viaggio si sia svolto, perché nessuno è tornato per raccontarlo. (p. 1076-7)
Vita
Insieme a “esistenza” forma una diade di grande importanza. Qualora si prendano in esame in sequenza Se questo è un uomo, La tregua e Il sistema periodico, ci si troverà di fronte ad almeno otto diverse accezioni del termine. Le sfumature che di volta in volta compaiono fanno compiere alla parola delle evoluzioni su se stessa che portano ad altrettante metamorfosi; grazie a questi cambiamenti l’autore riesce a coprire con un unico vocabolo un ampio spettro di significati.
Dal Lager (ma anche dal campo di Fossoli o dalla caserma di Aosta) è possibile volgere lo sguardo indietro verso la “vita precedente”. È la vita in senso assoluto, quella in cui l’individuo si sente ed è nel pieno delle forze e delle facoltà ed è libero di autodeterminarsi. Questa vita, che ha come propria condicio sine qua non la libertà, è la stessa da cui gli ebrei del campo di Fossoli si congedano, ciascuno a suo modo, prima della partenza per il Lager (cfr. Se questo è un uomo, p. 9). Poco prima di scendere dal treno Primo Levi saluta la sua vita di giovane chimico riflettendosi come in uno specchio nella sorte identica toccata alla sua amica Vanda. Vita libera, vita fuori (dal campo), vita anteriore sono sinonimi. La vita nel campo è, all’altezza di Se questo è un uomo, una vita difficile da spiegare ricorrendo alle normali categorie in uso tra gli uomini liberi. Per questo è una vita senza aggettivi, ad eccezione dell’aggettivo “ambiguo”, che viene invece impiegato e trasmette il senso di una condizione eccezionale in cui si perde ogni orientamento morale. Ne La tregua si trova la coppia di aggettivi «feroce ed ambigua», ma bisogna arrivare a I sommersi e i salvati per trovare un tentativo di spiegazione ulteriore: «vita hobbesiana», vita “di laggiù” (si noti il cambiamento di prospettiva spaziale e temporale), «fatta di noia trapunta di orrore». Sempre ne I sommersi e i salvati Levi riprende e sviluppa l’identificazione della vita in Lager con la guerra, già presente in Se questo è un uomo (in cui si dice che Alberto ha capito prima di tutti che la guerra quotidiana è l’essenza dell’universo concentrazionario, cfr. Se questo è un uomo, p. 51). Il Lager è anche il luogo in cui «la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale»; l’intera macchina del Lager sembrerebbe essere l’esperimento di uno scienziato sadico che voglia scoprire sulla pelle di milioni di individui cosa sia essenziale e cosa sia acquisito nel comportamento umano di fronte alla lotta per la vita. La vita in Lager è spogliata di tutte le caratteristiche essenziali affinché possa essere definita umana; essa si riduce così alla pura funzione organica, diventa semplicemente uno dei due accidenti (vita/morte) che possono inerire ai corpi, secondo la volontà delle SS che procedono alle selezioni.
Il sistema periodico è il testo in cui è narrata tra le altre cose la convalescenza di Primo Levi dopo il ritorno a Torino e il suo nuovo ingresso nel mondo dei vivi. In Cromo questa svolta è descritta nei termini di una guarigione, una rinascita che avviene finalmente «con gioia e vigore». Ma nello stesso libro il raggio di azione del termine “vita” si amplia ed abbraccia i diversi cicli di vita della persona umana e la vita della natura, sia nella dimensione infinitamente piccola degli atomi e delle molecole, sia in quella infinitamente grande dell’universo. Ne L’altrui mestiere i toni spesso sono leggeri: ad esempio l’autore esplora il nesso tra vita e gioco degli scacchi (cfr. pp. 703-705) e si sofferma sugli insegnamenti che si possono trarre da un testo a metà tra devozione e sottile umorismo come quello di cui si parla ne Il rito e il riso (cfr.pp. 795-799). Dopo tante vicende, peripezie e battaglie sostenute la vita può essere letta come una «gara di gran fondo» in cui si può perdere o vincere. Infine in diversi punti della sua opera Levi riflette sulla vita intesa in senso astratto-filosofico e ci regala delle “massime” illuminate dalla saggezza pratica. In questo prontuario leviano un posto di primo piano spetta al discorso sugli scopi di vita intesi come antidoto alla morte (cfr. I sommersi e i salvati, p. 1108).
Se questo è un uomo
Forse debbo a questo destino statico l'amore mal soddisfatto che nutro per i viaggi, e la frequenza con cui il viaggio compare come topos in molti dei miei libri. (p. 633)
Sappiamo che cosa stiamo facendo? Da molti segni è lecito dubitarne. Certo conosciamo, e ci raccontiamo l'un l'altro, il significato letterale, sto per dire sportivo, dell'impresa: è la più ardita, e ad un tempo la più meticolosa, che mai l'uomo abbia tentata; è il viaggio più lungo, è l'ambiente più straniero. (p. 648)
Adesso che l'impresa è terminata, e il libro è stampato e in libreria, ho l'impressione gradevole di essere di ritorno da un viaggio esotico, e, come tutti i reduci, provo il desiderio di raccontare le cose viste e di «far vedere le diapositive» agli amici. (p. 774)
La tregua
Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli. (p. 5)
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. (p. 9)
Ci dicemmo allora, nell'ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell'altro la vita. Non avevamo più paura. (p. 13)
Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrücken ed Einrücken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire. (p. 30)
La vita del Ka-Be è vita di limbo. I disagi materiali sono relativamente pochi, a parte la fame e le sofferenze inerenti alle malattie. Non fa freddo, non si lavora, e, a meno di commettere qualche grave mancanza, non si viene percossi. (p. 44)
Il Ka-Be è il Lager a meno del disagio fisico. Perciò, chi ancora ha seme di coscienza, vi riprende coscienza; perciò, nelle lunghissime giornate vuote, vi si parla di altro che di fame e di lavoro, e ci accade di considerare che cosa ci hanno fatti diventare, quanto ci è stato tolto, che cosa è questa vita. (p. 49)
Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra;[…]. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. (p. 51)
La sofferenza del giorno, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. (p. 56)
La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è più semplice. Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera. (p. 66)
Questa, di cui abbiamo detto e diremo, è la vita ambigua del Lager. In questo modo duro, premuti sul fondo, hanno vissuto molti uomini dei nostri giorni, ma ciascuno per un tempo relativamente breve; per cui ci si potrà forse domandare se proprio metta conto, e se sia bene, che di questa eccezionale condizione umana rimanga una qualche memoria. (p. 83)
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell'animale-uomo di fronte alla lotta per la vita. (ibidem)
Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona «a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto». Nel Lager, dove l'uomo è solo e la lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. (p. 84)
Chi non sa diventare un Organisator, Kombinator, Prominent (truce eloquenza dei termini!) finisce in breve mussulmano. Una terza via esiste nella vita, dove è anzi la norma; non esiste in campo di concentramento. (pp. 85-6)
Ci si può ora domandare chi è questo uomo Elias. Se è un pazzo, incomprensibile ed extraumano, finito in Lager per caso. Se è un atavismo, eterogeneo dal nostro mondo moderno, e meglio adatto alle primordiali condizioni di vita del campo. (p. 93)
Per chi non abbia salde risorse interne, per chi non sappia trarre dalla coscienza di sé la forza necessaria per ancorarsi alla vita, la sola strada di salvezza conduce a Elias: alla demenza e alla bestialità subdola. Tutte le altre strade non hanno sbocco. (p. 94)
Conservavamo i ricordi della nostra vita anteriore, ma velati e lontani, e perciò profondamente dolci e tristi, come sono per ognuno i ricordi della prima infanzia e di tutte le cose finite. (p. 112)
Per quanto di senso può avere il voler precisare le cause per cui proprio la mia vita, fra migliaia di altre equivalenti, ha potuto reggere alla prova, io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi. (p. 117)
La SS, nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all'uomo alla sua destra o all'uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. (p. 124)
Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere. (p. 139)
Io pensavo che la vita fuori era bella, e sarebbe ancora stata bella, e sarebbe stato veramente un peccato lasciarsi sommergere adesso. (pp.160-1)
Ha trovato nuova vita solo nel 1958, quando è stato ristampato dall'editore Einaudi, e da allora l'interesse del pubblico non è più mancato. (p. 173)
Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager «per disgrazia», cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. (p. 185)
Il sistema periodico
Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà. (p. 208)
Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l'ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. (p. 215)
Era una ragazza di campagna, sveglia, ingenua, un po' civetta, molto vivace, non particolarmente colta, non particolarmente seria; eppure si sentiva operante in lei la stessa virtù, la stessa dignità dei suoi compagni amici-fidanzati, la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti. (p. 256)
La vita nel campo di Bogucice, ambulatorio e mercato, relazioni umane rudimentali con russi, polacchi e altri, rapide alternanze di fame e di ventre pieno, di speranze di ritorno e di delusioni, attesa e incertezza, caserma ed espedienti, quasi una forma frusta di vita militare in un ambiente provvisorio e straniero, suscitava in me disagio, nostalgia, e principalmente noia. (p. 275)
Da Baku avevano proseguito, sempre con mezzi di fortuna, poiché soldi non ne avevano, ma in cambio una sconfinata fiducia nell'avvenire e nel loro prossimo, e un nativo e intatto amore per la vita. (p. 304)
Quando la partenza fu certa, ci accorgemmo, con nostra stessa meraviglia, che quella terra sterminata, quei campi e quei boschi che avevano visto la battaglia a cui dovevamo la salvezza, quegli orizzonti intatti e primordiali, quella gente vigorosa e amante della vita, ci stavano nel cuore, erano penetrati in noi, e vi sarebbero rimasti a lungo, immagini gloriose e vive di una stagione unica nella nostra esistenza. (p. 369)
I sommersi e i salvati
Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l'elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l'elogio dell'impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. (p. 768)
Portare in canna una ragazza che si desidera, ed esserne talmente lontani da non potersene neppure innamorare: portarla in canna in Viale Gorizia per aiutarla ad essere di un altro, ed a sparire dalla mia vita. (p. 847)
Albergavo una lancinante voglia di tutto, di tutte le esperienze umane pensabili, e imprecavo alla mia vita precedente, che mi pareva di avere sfruttato poco e male, e mi sentivo il tempo scappare di fra le dita, sfuggire dal corpo minuto per minuto, come un'emorragia non più arrestabile. (p. 858)
In poche ore sapemmo di appartenerci, non per un incontro, ma per la vita, come infatti è stato. In poche ore mi ero sentito nuovo e pieno di potenze nuove, lavato e guarito dal lungo male, pronto finalmente ad entrare nella vita con gioia e vigore; altrettanto guarito era ad un tratto il mondo intorno a me, ed esorcizzato il nome e il viso della donna che era discesa agli inferi con me e non ne era tornata. (p. 872)
Giunto a questo punto della vita, quale chimico, davanti alla tabella del Sistema Periodico, o agli indici monumentali del Beilstein o del Landolt, non vi ravvisa sparsi i tristi brandelli, o i trofei, del proprio passato professionale? (p. 934)
Eppure, proprio verso il carbonio ho un vecchio debito, contratto in giorni per me risolutivi. Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un'ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio. (p. 935)
Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. (p. 936)
In un istante, come un insetto preda del ragno, viene separato dal suo ossigeno, combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. (p. 937)
L'altrui mestiere
Sto parlando di Hans Mayer, alias Jean Améry, il filosofo suicida, e teorico del suicidio, che già ho citato a pagina 1007: fra questi due nomi sta tesa la sua vita senza pace e senza ricerca della pace. (p. 1091)
A parte il lavoro, anche la vita in baracca era più penosa per l'uomo colto. Era una vita hobbesiana, una guerra continua di tutti contro tutti. (p. 1096)
La ragione, l'arte, la poesia, non aiutano a decifrare il luogo da cui esse sono state bandite. Nella vita quotidiana di «laggiù», fatta di noia trapunta di orrore, era salutare dimenticarle. (p. 1103)
Avevo ben altro a cui pensare, a trovare un po' di pane, a scansare il lavoro massacrante, a rappezzarmi le scarpe, a rubare una scopa, a interpretare i segni e i visi intorno a me. Gli scopi di vita sono la difesa ottima contro la morte: non solo in Lager. (p. 1108)
Ma non è solo questo. Lei forse si sarà accorto che per me il Lager, e l'avere scritto del Lager, è stato una importante avventura, che mi ha modificato profondamente, mi ha dato maturità ed una ragione di vita. (p. 1129)