Intervista a Hirohide Takeyama - Giappone
Ha tradotto in giapponese Se questo è un uomo, La tregua, Il sistema periodico, I sommersi e i salvati e Se non ora, quando?. Sta progettando anche una raccolta di racconti di Primo Levi, «per far conoscere ai miei connazionali lo scrittore puro, e non solo il testimone». Ed è il curatore della mostra «Primo Levi: pensare Auschwitz alle sue radici» in programma al Kyoto Museum for World Peace dal 22 ottobre 2011 al 17 dicembre 2011. Hirohide Takeyama è professore di Lettere e di Cultura europea all'università Ritsumei di Kyoto, e in questa intervista racconta della ricezione e della diffusione delle opere di Primo Levi nel suo paese.
Quali sono le opere di Primo Levi tradotte in Giappone?
La prima è stata La tregua. Quando ha vinto il premio Campiello l'editore Hayakawa Shobo ha voluto tradurla, anche senza che Primo Levi e la sua storia fossero molto conosciuti in Giappone. Nel 1969 è uscita la traduzione di Kou Waki, ma il libro era difficile da comprendere per i giapponesi, e non è stato un gran successo.
Poi, era il 1978, ho letto Se questo è un uomo. Mi ha colpito molto, e ho proposto di tradurlo alla casa editrice Asahi Shimbunsha, che all’epoca era ancora la stessa casa editrice del quotidiano Asahi Shimbun, «Il sole del mattino». Hanno accettato, e al testo abbiamo aggiunto anche l’appendice all’edizione scolastica, «Ai giovani». Ho pensato che questa parte potesse essere utile ai lettori giapponesi. Se questo è un uomo è uscito nel 1980, tradotto da me. Non è diventato un best seller, ma si vende in continuazione e viene sempre ristampato. In Giappone è considerato un’opera fondamentale per la memorialistica.
Dopo, nel 1992, è venuto Il sistema periodico. Ho proposto di tradurlo (questa volta all'editore Kousakusha) perché racconta cronologicamente la vita di Primo Levi, e soprattutto parla di Auschwitz, il che lo rende più accessibile ai lettori giapponesi. Ma non ha avuto un grande successo, e non è più stato ristampato.
Poi c’è stato Se non ora, quando?, che ho tradotto nel 1992 ancora per Asahi Shimbunsha. È un’opera piuttosto lunga e ho impiegato molto tempo a tradurla. Quando ho incontrato Primo Levi lui ci stava lavorando, e ne abbiamo parlato. Ricordo che mi disse: «In questo periodo si parla molto della crisi del romanzo. E io per superarla scriverò un romanzo lungo». Lui era così, aveva fiducia in sé. Ma l’opera, da noi, ha avuto una sola ristampa.
Nel 1998 ho tradotto La tregua. La traduzione che era uscita nel 1969 era quasi sconosciuta, e la casa editrice Asahi Shimbunsha me ne ha chiesto una nuova traduzione. Mi sembra che abbia avuto successo, anche in confronto al film di Francesco Rosi che invece non è stato ricevuto favorevolmente dal pubblico giapponese – forse perché comprendere la situazione europea del dopoguerra era un po’ difficile. Nemmeno La tregua è diventato un best seller, ma è entrato nella collana economica, il che significa che è considerato un classico moderno.
Infine c’è I sommersi e i salvati. Uscito nel 2000 (sempre per Asahi Shimbunsha, in una mia traduzione), è stato un grande successo. È una nuova riflessione sull’esperienza di Auschwitz, un processo di approfondimento: è stato ristampato in continuazione e ritenuto un’opera fondamentale.
Storie naturali è l’unica raccolta di racconti tradotta finora. È pubblicata in edizione economica (edizioni Kousakusha, 2008, traduzione di Eiko Sekiguchi), ma non ha avuto molta risonanza perché considerata semplice fantascienza. Ma i racconti di Primo Levi sono una produzione degna di più attenzione. Io ho il progetto di tradurne una raccolta. Forse Lilìt,o Vizio di forma. Forse è meglio Lilìt: un terzo è dedicato all’esperienza del lager, potrebbe essere più familiare ai lettori giapponesi. In Giappone sarebbe difficile pubblicarli tutti in una antologia.
Gli editori sono sempre gli stessi?
Quattro libri sono usciti per la stessa casa editrice, Asahi Shimbunsha. C’era una redattrice di nome Mie Kondaibou che amava molto Primo Levi, ma ora è morta, e il rapporto con loro è più difficile.
Quali possono essere le ragioni che favoriscono la disposizione del pubblico giapponese nei confronti di Primo Levi?
Primo Levi è considerato uno scrittore memorialista, una specie di testimone: e infatti i suoi libri di maggior successo sono Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. In questi libri non è che non ci sia rancore… ma c’è più di tutto una volontà di conoscere meglio la realtà del lager. Ed è questo che interessa molto i giapponesi: se si vuole veramente capire che cosa è stato Auschwitz serve un punto di vista un po’ distaccato. Lui si è trovato a contatto con tanti uomini strani, li ha descritti molto abilmente, ma soprattutto ha voluto sapere di più della realtà del lager. Perché è nato? Chi sono i tedeschi? E poi ha messo da parte la religione. Ha visto, ha intuito che la religione poteva aiutare i prigionieri a resistere, o dar loro una spiegazione di Auschwitz in termini di prova divina. Ma non vi ha fatto ricorso, per vedere più lucidamente la realtà. È stato molto forte e molto coraggioso. Arriva a conclusioni diverse, ad esempio, da quelle dell’austriaco Viktor Frankl. Questa lucidità, questo distacco, per noi sono molto apprezzabili.
Questo può anche avere a che fare con la storia del Giappone, la sua alleanza coi tedeschi? Uno sguardo distaccato rende più facile misurarsi col passato?
Certo. La nostra posizione non è neutrale, perché abbiamo fatto la guerra dalla parte dei tedeschi, è un tema molto pesante. Ma ora sono passati quasi 70 anni dalla guerra, e quasi tutti sono pacifisti, perché con la bomba atomica abbiamo pagato troppo. E siamo sempre sotto controllo americano. Noi giapponesi sappiamo che la guerra non paga. Non possiamo nemmeno esportare armi, è proibito per legge.
Quando sono usciti i libri, si ricorda di recensioni?
Sì, le ho conservate.
Quali difficoltà ha incontrato nell’avvicinarsi a Primo Levi?
È una domanda difficile (ride). La cosa più difficile è stata capire l’ebraismo. Soprattutto traducendo Il sistema periodico, che inizia con “Argon”, ho avuto paura che, siccome sta all'inizio del libro, i giapponesi non lo capissero e ne fossero scoraggiati. Allora ho studiato molto la cultura ebraica.
Ed è soddisfatto del suo lavoro?
Sì, sono soddisfatto. Un’altra difficoltà è stata quella delle molte lingue che Primo Levi utilizza, e che io non sapevo: polacco, ungherese, yiddish. Il tedesco e il francese li ho studiati, ma per le altre ho dovuto farmi aiutare da esperti.
E come le ha rese nel testo?
Dove lui ha impiegato la lingua originale, io l’ho lasciata. In giapponese si può scrivere mescolando ideogrammi e alfabeto fonetico. Quando ho tradotto le conversazioni, ho tradotto e scritto in giapponese la conversazione, e con i caratteri piccoli la conversazione originale a lato.
Come se l’è cavata a tradurre Dante nel capitolo di Pikolo?
Non è un capitolo facile. Ho attinto da una delle tante traduzioni giapponesi della Commedia. Ma non è stato facile, perché la citazione non era corretta: cambiavano alcune parole.
Ci sono stati passi particolarmente complicati?
Qualcuno. Per questo nel 1980 sono venuto qui per chiarire le difficoltà direttamente con lo scrittore.
Ci racconta il vostro incontro?
Ero ancora giovane. Avevo trent’anni. Era il 1980; dopo, ci siamo incontrati altre due volte. Lui non era solo, ma con la moglie e un amico. Io ero un po’ in imbarazzo, ma sono stati molto gentili: ero un ragazzo, ma mi ha trattato come un traduttore con molta esperienza. Mi ha anche mostrato un suo quaderno su cui, da solo, studiava il giapponese. Una specie di dizionario, pieno di ideogrammi tradotti e annotati durante la lettura della traduzione de La tregua. Mi sono molto meravigliato! Gli ideogrammi erano tutti giusti, alcuni anche molto difficili. Li aveva tradotti durante la lettura, forse con l’aiuto di qualcuno. Mi è sembrato una persona molto curiosa e che voleva cavarsela da solo.
Abbiamo parlato soprattutto della traduzione, ma ricordo una cosa che mi ha impressionato. Lui indossava una camicia a maniche corte, che non nascondeva il suo tatuaggio. Gli ho chiesto se fosse sua abitudine mostrarlo, e lui mi ha detto che non voleva cancellare niente, nascondere niente. Mi ha impressionato molto.
Lei all’università tiene corsi su Primo Levi?
Faccio lezioni di Cultura Europea in cui confronto diversi punti di vista su Auschwitz. In questi corsi faccio leggere Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati.
Quali sono gli autori italiani più conosciuti in Giappone?
In questo momento non si traduce molto. Di Calvino è disponibile quasi tutto, e così di Cesare Pavese. Moravia è stato molto in voga. Ora si traduce di meno, i libri vendono poco, i giovani non leggono, c’è la crisi – e soprattutto si sente la crisi nei libri accademici – ma è difficile pubblicare un’opera letteraria, soprattutto in traduzione, perché le traduzioni costano di più, c’è il costo del copyright. La crisi è molto grave, come non l’ho mai vista. Le case editrici giapponesi sono perlopiù piccole, con meno di dieci persone, quindi se arriva una crisi è molto difficile recuperare. Prima si pubblicava più facilmente. Ora… nella nostra università ad esempio c’è un sistema di sussidi alla pubblicazione, in cui l’ateneo dà una certa somma alla casa editrice. Non mi era mai capitato di doverla usare, ma tre anni fa il mio editore me lo ha chiesto. Prima non era così. Forse lo scrittore italiano che ha avuto più successo è Moravia, con i suoi libri che parlano di sesso, di trasgressione, un po’ scandalosi. E il fatto che il Vaticano a suo tempo li abbia proibiti è un elemento che li rende più interessanti… E poi c’è Elio Vittorini, ma soprattutto Italo Calvino. Ti con Zero, Il Barone Rampante, sono titoli che ancora oggi si ristampano. Tra i contemporanei più recenti? Abbiamo Baricco, Tabucchi, Umberto Eco, ma non hanno altrettanto successo. A parte Il nome della rosa, molto apprezzato come giallo, Eco non è famoso da noi.
Ci sono aspetti dell’opera di Primo Levi che ai lettori giapponesi difficilmente arrivano?
C’è un lato oscuro che emerge soprattutto dai racconti, come “Angelica Farfalla”, in cui la componente dell’orrore si mescola alla riflessione su Auschwitz, e che ora è sconosciuto ai lettori. Per questo io vorrei tradurre un’altra raccolta.
Ma un giapponese “della strada” lo sa chi è Primo Levi?
No. È patrimonio soprattutto degli intellettuali. Per questo ho cercato di farlo conoscere attraverso una mostra, che vuole essere soprattutto un viaggio attraverso le immagini di Primo Levi e le parole di coloro che lo hanno conosciuto: Bianca Guidetti Serra, Ernesto Ferrero, Alberto Cavaglion, Giovanni Tesio. Abbiamo esposto molti documenti e anche qualche cimelio. Come il manoscritto originale della poesia La bambina di Pompei, dove si parla anche di Hiroshima, o una copia del D'Azeglio sotto spirito, il giornalino scolastico su cui Levi scriveva, in cui c'è anche una vignetta firmata da Cesare Pavese! E poi il quadernetto degli ideogrammi, anche questo in copia, e molte fotografie inedite in Giappone. Mi piacerebbe che la mostra aiutasse a conoscere l'uomo, non solo il testimone.
[Intervista realizzata a Torino il 17 ottobre 2011. Trascrizione e redazione a cura del Centro internazionale di studi Primo Levi]