Parlare di Shoah sui banchi di scuola, in questi tempi difficili

di Fabio Levi

Il testo che segue nasce da un intervento tenuto da Fabio Levi alla decima edizione del festival 900fest A cosa serve la scuola Uguaglianza, merito, competenze, tradizioni e buone pratiche, tenutasi a Forlì dal 25 al 28 ottobre 2023.

Il discorso su Auschwitz è entrato nelle scuole italiane tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso attraverso le pagine di Se questo è un uomo e de La tregua, e inizialmente è stato proposto soprattutto agli allievi delle terze medie, per iniziativa di una minoranza via via più numerosa di insegnanti e di ragazzi particolarmente sensibili.

La nuova scuola media unica, obbligatoria e per tutti, nata dalla riforma entrata in vigore nel ’63, aveva infatti incrinato la rigida natura classista del nostro sistema di istruzione, aprendo ad un nuovo sguardo sul mondo, destinato a farsi tanto più critico e partecipe nel lungo Sessantotto. Così il racconto concreto e volutamente pacato di Levi ha potuto mettere radici profonde nel sentire comune
del paese, offrendo un’occasione di scoperta dolorosa ma straordinaria su un abisso misconosciuto, tenuto fuori dalle aule e non solo, per ragioni allora del tutto incomprensibili. Di quel primo approccio si percepiscono le tracce ancora oggi nella gratitudine e nell’affetto di molti, oramai non più giovani, verso quei testi e il loro autore.

Auschwitz e i libri che di lì in avanti ne hanno dato conto non hanno avuto però un’accoglienza facile e unanime. Tutt’altro. Alcuni presidi hanno favorito quelle letture, altri per indifferenza non si sono opposti, mentre l’istituzione e la maggior parte degli insegnanti hanno continuato per molto tempo a guardare da un’altra parte, in nome di una scuola che doveva mantenersi chiusa al mondo di
fuori e – furono parole loro – alle pericolose interferenze della “politica”.

Sarebbe interessante ricostruire quel primo incontro e i suoi sviluppi, le modalità e gli effetti che la scoperta dello sterminio ha avuto sulla coscienza dei ragazzi e dei loro educatori, e anche le reazioni degli oppositori e degli indifferenti. Non è però questo il mio compito. Mi dedicherò piuttosto a segnalare alcuni problemi, di portata molto ampia ma destinati ad avere effetti anche nel mondo scolastico, intorno a cui si è orientata la discussione da quei primi momenti in poi: nell’intento di offrire alcuni punti di riferimento per la nostra riflessione odierna. Accennerò alla discussione sui genocidi, alla svolta di fine anni ’80, all’importanza dei testimoni e alla loro scomparsa, fino al Giorno della memoria e oltre.

Una prima questione di urgente attualità nel corso del dopoguerra è sorta quando ci si è dovuti confrontare con altri episodi di violenza estrema verificatisi in varie parti del mondo, tanto terribili e clamorosi da richiamare alla mente le stragi naziste. Sarebbe impossibile riassumere ora un dibattito amplissimo durato per anni e tutt’altro che concluso. Mi limito solo ad alcune notazioni.

Per cominciare mi sembra importante richiamare i tanti contributi intorno alla definizione di genocidio che hanno avuto, e continuano ad avere, nella Shoah il loro punto di riferimento cruciale e nel giurista Raphael Lemkin il primo protagonista già nel 1944: contributi la cui legittimità e la cui utilità si sono confermate in molte occasioni, non ultima nel caso della strage di Srebrenica in Bosnia
nel 1995 e delle sue ricadute politiche e processuali. Vorrei ricordare d’altra parte che anche solo la possibilità di un confronto fra la Shoah ed altri crimini pur di portata enorme ha suscitato – e continua a suscitare –, soprattutto in ambito ebraico, la dura reazione di molti, convinti che l’unicità dello sterminio perpetrato da Hitler e dai suoi complici, considerato il frutto atroce di un male assoluto, lo rendesse necessariamente imparagonabile, pena una sua colpevole svalutazione. Mi preme constatare viceversa la diffusa propensione al confronto manifestata da altri, non meno seriamente preoccupati che le ombre minacciose del passato potessero nuovamente materializzarsi. Così è stato per lo stesso Primo Levi, molto attento a ogni nuovo e grave rigurgito di violenza, dall’Algeria al Vietnam, all’Unione Sovietica o alla Cambogia, il quale pure considerava Auschwitz «un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo – diceva – si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai così tante vite sono state spente in così breve tempo e con una così lucida combinazione di impegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà». E, in tutt’altro contesto, non hanno mai cessato di azzardare paragoni e domande difficili anche i ragazzi a scuola, magari in forma approssimativa e discutibile, ma non per questo meno urgente.

Come dunque non rispondere alle sollecitazioni poste da un testimone di eccezione o alla curiosità e agli inquietanti interrogativi di ragazzi? Come non chiedersi: è possibile ribadire le differenze fra la Shoah e altri virulenti episodi di violenza, senza con questo farsi paralizzare dal dogma dell’imparagonabilità assoluta? Fare cioè del confronto l’occasione per chiarire meglio quanto accaduto in un caso e nell’altro? Magari ricavando stimoli a scoprire aspetti meno appariscenti o a criticare interpretazioni sbagliate: ad esempio, la fabbrica o il manicomio non sono dei Lager, ma il richiamo anche solo metaforico alla realtà di Auschwitz può forse aiutarci a gettare nuova luce su aspetti cruciali dell’oppressione nel nostro mondo. E un tale procedimento può essere tanto più efficace se si evita di rimanere invischiati in un paragone fra modelli globali di violenza estrema, e si entra invece nel merito di aspetti più specifici e concreti. La dimensione incommensurabile di Auschwitz esalta inevitabilmente i limiti della nostra conoscenza e il senso di impotenza che ne deriva; ciò malgrado non dobbiamo rinunciare a mettere alla prova la nostra capacità di indagine. Sarà poi proprio l’inafferrabilità dello sterminio, unita però alla sua tangibile durezza, a sollecitare in noi domande inquietanti ma precise, utili ad affrontare situazioni altre e più vicine a noi.

Un passaggio ulteriore destinato ad esercitare una grande influenza anche sulle scuole e sui giovani ha avuto il suo fulcro nel 1989. Il crollo dell’URSS e la fine della guerra fredda hanno aperto ad un allargamento epocale dell’Europa e hanno costretto tutto il continente, pur se in modi e con esiti diversi, a cercare nel proprio passato i fondamenti di una nuova identità: non più fondata sulla
spaccatura fra i due blocchi e sulle ideologie consolidatesi dopo la seconda guerra mondiale, ma sulla definizione di nuove prospettive e nuovi valori: per i fautori di un’Europa libera e democratica, sull’affermazione dei diritti umani che avevano visto nella distruzione del popolo ebraico la loro negazione più radicale.

L’orizzonte storico e culturale doveva dunque ampliarsi e ricomprendere gli orrori di un passato non poi così lontano, che sia a Occidente sia nel mondo sovietico si era fatto di tutto per rimuovere nei decenni precedenti. Questa forte sollecitazione, che veniva della storia presente, si è peraltro imposta in un momento di grande sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa; e ha saputo riprendere e dare respiro al lungo lavoro di preparazione condotto, più o meno sotto traccia e in molti paesi – in primo luogo proprio in Germania –, ad opera di ex-deportati, settori particolarmente sensibili del sistema giudiziario, intellettuali o politici più consapevoli: un lavoro di riconsiderazione di Auschwitz, di caccia ai responsabili, di processi contrastati ma clamorosi, destinato ad emergere
via via e a segnare l’opinione pubblica internazionale, come nel caso del processo Eichmann celebrato nel 1961.

La convergenza di questi ed altri fattori ha favorito l’affermarsi di un clima nuovo: e in quel clima hanno preso vigore una conoscenza e una consapevolezza molto più diffuse – “di massa” è stato detto – riguardo ai crimini di nazisti e fascisti. La Shoah è arrivata nei cinema, sui giornali e sugli schermi televisivi. E in forma molto più diretta nelle aule scolastiche. A questo ha contribuito la ritrovata
disponibilità di un numero crescente di ex-deportati a rendere la propria testimonianza soprattutto ai più giovani. Nei loro racconti la descrizione dei meccanismi di oppressione e di distruzione indiscriminata messi in opera dagli Stati fascisti, intrecciati alle storie di vita dei singoli, ha catturato l’attenzione di migliaia e migliaia di ragazzi: la grande storia e, insieme, le storie individuali dei sopravvissuti hanno saputo scuotere le coscienze. La scoperta dei nuovi valori cui ispirarsi per il futuro si è resa a quel punto alla portata di ognuno, in una forma tanto più coinvolgente perché si misurava con esperienze concrete.

Anche se tutto questo scontava un limite di fondo e conteneva un rischio destinato a durare. Il limite in primo luogo: esso era dato dal fatto che la conoscenza della Shoah, a partire dagli ultimi anni ’80, era sì condivisa da un pubblico molto più ampio, ma dopo un forte ritardo che aveva di fatto escluso ben più di una generazione, spezzando il filo della continuità nella trasmissione della memoria. Il rischio invece dipendeva dalla natura contraddittoria dei nuovi mezzi di comunicazione: capaci di coinvolgere pubblici sempre più numerosi, ma esposti al pericolo di togliere spessore allo sterminio, attraverso l’inflazione delle immagini, la continua ripetizione, la tentazione di omologare eventi troppo diversi fra loro, lo svuotamento emotivo provocato da un eccesso di esposizione al dolore.

Ma facciamo ancora un passo in avanti nella nostra ricostruzione. Anche in questo caso, più che di un evento si è trattato di un processo non breve: quello che siamo soliti identificare con la scomparsa dei testimoni diretti. In realtà la fine dei testimoni è stata solo una parte, importante, di una questione più complessa.

Con il trascorrere del tempo gli anni della Seconda guerra mondiale si sono fatti sempre più lontani, con conseguenze su due versanti diversi, nessuno dei quali può essere trascurato.

Dalla parte di chi si è impegnato e si impegna ancora oggi a ricordare le persecuzioni e lo sterminio, per forza di cose la storia – intesa come racconto meditato, fondato sulla raccolta e la verifica delle fonti, comprese le testimonianze di chi c’era – ha preso via via il sopravvento sulla memoria diretta dei protagonisti; e ha offerto un quadro più preciso e articolato, ma privo dell’immediatezza e
della concreta evidenza capaci di coinvolgere ogni singolo interlocutore. Senza dimenticare però l’amplissimo patrimonio delle forme, diciamo così, di memoria indiretta – interviste registrate o pubblicate, documentari, ecc. – raccolte e diffuse negli anni sui vari mezzi di comunicazione, che costituiscono tuttora una risorsa straordinaria, ma dallo statuto incerto fra memoria e storia appunto, a disposizione di chi voglia avvicinarsi al tema.

Questo sul versante degli strumenti per la conoscenza; ma ce n’è un altro da considerare: quello degli interlocutori possibili. Anche qui le cose sono cambiate man mano. La generazione dei figli di chi ha vissuto la guerra ha lasciato spazio a quella dei nipoti e poi via via ad altre, per le quali il rapporto con gli anni ’40 del ’900 si è fatto sempre più tenue. Gli interessi sono via via cambiati, come pure l’atteggiamento verso la storia – largamente penalizzata, anche a scuola, a favore del presente –, senza contare le conseguenze dei nuovi mezzi e delle nuove forme di comunicazione. La Shoah ha dunque finito per risultare sempre più sfocata, in molti casi per apparire deformata in assenza di un attendibile quadro storico di riferimento, per perdere consistenza e trasformarsi in un simbolo. È come se lo sforzo compiuto, fra gli altri, da Primo Levi per mettere i suoi lettori di fronte all’esperienza concreta del dolore – il “male” in senso astratto è un termine che non compare quasi mai nei suoi scritti –, fosse stato nei fatti ribaltato: con il “male”, invece, chiamato a rappresentare quell’esperienza estrema, un male disincarnato e quindi poco riconoscibile.

Di qui l’urgenza sentita da molti – nelle scuole, dagli insegnanti più consapevoli – di moltiplicare gli sforzi nel tentativo di contrastare la dispersione non tanto della ”memoria” – un termine abusato, di cui si fatica a riconoscere il senso – quanto di un patrimonio di conoscenze, cariche di valenze emotive, morali, esistenziali, ritenuto essenziale per la formazione dei giovani.

E arriviamo a un altro snodo importante, più vicino alla nostra esperienza di oggi. Mi riferisco all’istituzione nel 2000 del Giorno della memoria e alle discussioni intorno al suo significato e ai suoi effetti in particolare nella scuola, luogo principale della iniziative di commemorazione e di riflessione sollecitate da quella data.

Non voglio insistere sul carattere tardivo e non proprio lineare dell’impegno assunto dal Parlamento italiano. In molti hanno già risposto in proposito: meglio tardi che mai. Mi interessa invece soffermarmi sui sentimenti e sulle intenzioni che hanno animato e animano i molti che a quella scadenza hanno attribuito e tuttora attribuiscono un peso particolare. Al fondo credo vi sia l’acuta preoccupazione cui prima accennavo e un non meno forte senso di responsabilità, accentuati dalla consapevolezza che lo sterminio non è un tema neutro: e se era difficile parlarne negli anni ’70, non c’è ragione che le forze contrarie a farne un’occasione educativa siano venute meno alla svolta degli anni 2000; tutt’altro, l’illusione di un’attenzione positiva e sempre più estesa allo sterminio – posto
che qualcuno l’abbia nutrita – si è dissolta da tempo.

Anzi, hanno finito per pesare molti fattori: la preoccupazione di doversi misurare con forze contrarie molto aggressive, la frustrazione indotta dalla cronica sproporzione fra il bisogno crescente di sapere e di pensare intorno alla Shoah e le risorse troppo limitate, il timore che il Giorno della memoria non serva o si riveli addirittura controproducente; tutto questo ha portato a volte a sottovalutare quanto dipende da un ampio contesto in trasformazione difficile da governare, e a sopravvalutare viceversa il ruolo dei soggetti che operano sul campo, gli insegnanti primi fra tutti: come dire che se di Shoah non si parla abbastanza o l’antisemitismo è ora più virulento di prima sarebbe essenzialmente colpa loro, cioè nostra.

Fatto sta che se le istituzioni, e in particolare la scuola, si sono prese il compito di ricordare, il fatto è senz’altro positivo. Anche se non bisogna dimenticare che un giorno dedicato – tanto più in un mondo in cui nessuna data del calendario è ormai priva di una dedica specifica – costituisce soltanto un’occasione che saranno altri – in primo luogo proprio gli insegnanti e i loro ragazzi – a dover
riempire. E neppure va dismessa una salutare diffidenza: se i Ministeri dell’istruzione e della cultura, o in genere le autorità scolastiche mostrano un attivismo anomalo sulla Shoah, non è escluso che, nel nome di valori universali, si voglia contrabbandare un interesse di parte.

Dai discorsi fatti sin qui si sarà capito quanto la scuola resti importante, come luogo di apprendimento, di iniziativa, di discussione e anche di scontro sui temi che girano intorno a una stagione ritenuta oramai, e non solo dagli storici, come un riferimento cruciale per il mondo contemporaneo di cui siamo parte. La scuola vede succedersi scolaresche che si rinnovano di anno in anno, offre occasioni
decisive di integrazione a chi arriva da più o meno lontano, resta pur sempre il luogo principale della formazione in un paese come il nostro che garantisce una relativa autonomia a insegnanti e ragazzi, e che subisce sì iniziative dall’alto, anche intrusive e criticabili ma di segno non sempre univoco.

La scuola è d’altro canto il luogo in cui si sono sedimentati e stratificati gli effetti contraddittori e spesso paralizzanti dei cambiamenti e delle discussioni cui ho fatto cenno sin qui, in presenza però di un pubblico di giovani che può ritenersi in gran parte estraneo a quel genere di contrasti. Si pone a questo punto il problema di come soprattutto i docenti possano non rimanere impigliati in logiche a volte troppo autoreferenziali e dare spazio invece ai bisogni e ai punti di vista delle nuove generazioni.

Una prima osservazione. Il nostro intento non può essere – lo si sente dire troppo spesso – di “educare alla Shoah”, come se si trattasse con i più giovani di riempire dei contenitori più o meno vuoti; quando invece si tratta di agire perché la riflessione su Auschwitz – debitamente presentata nei suoi tratti essenziali e nei suoi margini di inconoscibilità – possa aiutare ragazze e ragazzi nella loro crescita e nella loro formazione, a partire dai loro bisogni e dai loro interrogativi esistenziali. Misurarsi infatti con i pensieri e i comportamenti umani in condizioni estreme può essere un esercizio molto fruttuoso. Ed è sempre stato così, anche se oggi sono cambiate molte cose: in particolare l’accresciuta distanza da quel passato, senza ridurne l’importanza, penalizza però la sua capacità di suscitare immediatamente interesse. In questo la mediazione degli educatori ha acquisito un’importanza tanto maggiore; pur sapendo – lo abbiamo visto – che l’eccessiva preoccupazione dei docenti di non farcela può indurli a essere troppo timidi, a perdere fiducia in sé stessi e – ancor peggio – nei loro interlocutori.

Così pure l’approccio alla Shoah – che deve procedere in modo rigoroso, anche se in forme diverse da prima, quando a scuola la storia non era una cenerentola – ha un senso se non è fine a se stesso, ma si pone un obiettivo preciso: aiutare a scoprire – fuori e dentro di noi – i segnali di pericolo riguardo a derive che possono sfuggire di mano e condurre ad esiti estremi. O almeno è stato, o
avrebbe dovuto essere così fino a non molto tempo fa, quando sembrava quasi impossibile che il mondo più vicino a noi potesse precipitare nuovamente nell’abisso e dunque pericoli e minacce non erano presi troppo sul serio e andavano dunque cercati e indicati con cura. Da qualche tempo le cose stanno cambiando.

È vero, la lontananza di Auschwitz cresce a vista d’occhio. Purtroppo però ci pensa la storia ad accorciare le distanze. Già lo abbiamo visto – in positivo – nell’89: ora nuovamente le urgenze dell’oggi agiscono senza alcun riguardo sulla vita di ognuno, e il tempo storico tende a comprimersi come un plasma entro cui si situano i fatti, caratterizzato da una densità tutt’altro che omogenea. Ci pensa il presente, cui peraltro i giovani – non dimentichiamolo – guardano oramai con tanta maggiore attenzione che non al passato, a scuoterci dal nostro torpore.

Bastano pochi esempi. Che cosa sta accadendo oggi, sotto i nostri occhi? In Ucraina assistiamo a un’“operazione militare speciale” che ha per obiettivo di soggiogare una nazione, cancellare di fatto uno stato, distruggere un territorio e russificare a forza migliaia di bambini. Certo, le differenze dalle pratiche di annientamento di Hitler sono indiscutibili, ma, ben al di là di qualche segnale di pericolo, gli atti di Putin che cosa ci stanno costringendo a considerare e a temere per il futuro? E in Israele? In una realtà così gravida di storia e di contraddizioni come il Medio Oriente, la strage di bambini ebrei solo per il fatto di essere ebrei in un Kibbutz, e il terrore contro un gruppo di giovani inermi, mossi esclusivamente dal loro amore per la musica, non sono forse richiami lancinanti e diretti a un passato non poi così lontano? Anche questi eventi ci pongono interrogativi le cui risposte sono difficili da conciliare: sul riflesso necessario di un paese tutt’altro che invulnerabile a difendere la propria sopravvivenza; e d’altra parte sulla necessità di contenere la propria reazione entro i confini dell’umanità e del diritto. Per non dire degli episodi sempre più diffusi di antisemitismo di destra e di sinistra alimentati da quei medesimi avvenimenti, effetto e causa di una caduta generalizzata dei tabù che lo sterminio di ottant’anni fa aveva giustamente contribuito a creare.

Se guardiamo inoltre ai vasti spostamenti di popolazioni che attraversano il mondo, scorgiamo una moltitudine crescente di campi profughi, che certo non sono dei Lager come quelli nazisti; ma come evolveranno? E ancora, alimentate fra l’altro dai flussi migratori, si vanno manifestando forme sempre più varie di razzismo, capaci anche di attecchire negli schieramenti “democratici” che se ne proclamavano immuni. Quali saranno i loro sviluppi e il loro peso in futuro?

Tutti questi episodi – e altri –, nella loro realtà concreta e nelle loro potenzialità, mostrano una dimensione estrema. Ma sono le condizioni dei singoli individui – non parlo qui solo delle vittime, ma di tutti gli attori su questo o quel fronte –, le loro azioni e le loro scelte, a chiederci di dare fondo alla nostra conoscenza degli esseri umani, di ieri e di oggi, per provare a superare lo sgomento che rischia di attanagliarci; a guardare non a caso alla Shoah con un occhio più attento e consapevole.

Una seconda osservazione. È vero, l’immagine dello sterminio nazista appare a molti sempre più evanescente, ma chiediamoci: che cosa ha sempre alimentato nei più giovani l’interesse per quella vicenda nella sua cruda concretezza? Vari fattori: in primo luogo, la passione per la verità contro le rimozioni e le difficoltà a penetrare quell’universo estremo. Ma una passione analoga non può rivelarsi una spinta formidabile per districarsi e non farsi schiacciare anche nel mondo di oggi, dove la menzogna prospera da ogni parte? Gli esercizi di verità non possono rivelarsi un ottimo strumento educativo? E ancora: l’interesse per i dilemmi morali che le condizioni eccezionali dello sterminio imponevano a perseguitati e persecutori. Siamo così sicuri che quei dilemmi siano estranei alle riflessioni esistenziali delle giovani donne e dei giovani uomini che si stanno formando nelle nostre scuole? E che gli esperimenti mentali condotti con i ragazzi ambientati in situazioni più o meno lontane non aiutino ad affinare la sensibilità loro e nostra? E infine: la ricchezza straordinaria dei racconti offerti dai testimoni. Con una precisazione: i protagonisti di allora in grado di descrivere la propria esperienza straordinaria certo non ci sono quasi più, ma l’arte del racconto è una risorsa che scrittori, poeti, registi e tanti altri artisti della parola o dell’immagine hanno coltivato nel corso del tempo, lasciandoci un patrimonio ricchissimo tutto da scoprire, e che può aiutarci tuttora a guardarci intorno e a penetrare i comportamenti umani.

Per riassumere dunque: i ragazzi di oggi sono meno sensibili di quelli di un tempo ai richiami della verità, del ragionamento morale o dell’arte del racconto? Non c’è alcun motivo per pensarlo. Se dunque si lasceranno scuotere dalle bordate del mondo di oggi, non mancheranno – io credo – le strade e gli strumenti con i quali si potrà mettere in relazione, insieme a loro, il presente e il passato, e
far fruttare quell’incontro.


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