Presentazione di "Perché crediamo a Primo Levi?"

In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, il 17 maggio 2013 è stato presentato Perché crediamo a Primo Levi?, il volume di Mario Barenghi tratto dalla quarta Lezione Primo Levi e pubblicato da Einaudi in edizione bilingue italiano/inglese.

Di seguito proponiamo il testo dell'incontro:

Domenico Scarpa

Il titolo di questa Lezione è Perché crediamo a Primo Levi? Il punto interrogativo del titolo non è un accessorio: siamo arrivati al quarto appuntamento annuale con le Lezioni organizzate dal nostro Centro studi, e volevamo che la domanda che avremmo posto a Primo Levi, cioè ai suoi testi, ai suoi libri, fosse una domanda vera e non una domanda retorica. Facendo il consuntivo, anche noi del Centro crediamo qualcosa: crediamo che questo libro sia venuto bene perché è un libro scritto su commissione.

Il titolo di questa Lezione, infatti, non lo ha scelto Mario Barenghi. Glielo abbiamo, in un certo senso, imposto; gli abbiamo chiesto di pronunciarsi, di studiare per un anno – perché chi tiene la Lezione Primo Levi studia per un anno intero il tema su cui parlerà – per due ragioni. Per prima cosa, perché Mario aveva già studiato un argomento in apparenza banale ma difficilissimo da definire: che cosa è un autore, che cosa dà l’autorità a un autore, che cosa gli permette di parlare, come si presenta – in tutti i sensi di questo verbo – un autore sulla pagina, con una voce scritta.

E poi lo abbiamo chiesto, o estorto a Mario Barenghi, per un’altra ragione ancora più interna al suo mestiere di studioso e docente. Sembra banale anche questo ma non lo è affatto, se solo si prova a leggere qualche libro di critica letteraria: Barenghi dedica una grande, minuziosa attenzione alle parole. Possiede una spiccata capacità di ascoltare e distinguere, un talento nel distinguere professionalmente i caratteri di un testo d’autore.

La prima domanda che vorrei fare a Mario, che è stato capace di fare tutto questo in modo egregio nel libro-Lezione Perché crediamo a Primo Levi? (come ogni anno, il volume esce da Einaudi in edizione bilingue, italiano e inglese), la prima domanda che voglio fare è questa: gli chiedo di retrocedere rispetto alla sua competenza, di rispondere a una domanda - e vorrei che rispondesse proprio perché ci sono molti ragazzi in questa sala - sul suo primo incontro con Primo Levi. Ti chiedo: c’è stata una parola, un’intonazione nel discorso, un particolare, un punto, una inflessione che, in un momento magari assai precoce della tua vita, ti ha fatto dire «Io a questo qui – questo qui è Primo Levi, voi sapete che questo è una parola importante in Primo Levi – io, a questo qui, gli credo!».

 

Mario Barenghi

Dunque, prima di rispondere volevo confermare che il titolo mi è stato proposto. Vorrei aggiungere che quando mi è stato proposto la prima sensazione è stata di vertigine, perché è una domanda molto impegnativa, ovviamente. Dopo qualche esitazione ho accettato, e ho accettato perché in effetti era una domanda, è una domanda cruciale, che risultava abbastanza conforme proprio al mio incontro con Primo Levi.

Quando sia avvenuto veramente non lo ricordo, quando l’ho letto per la prima volta. Però quello che ricordo è una sensazione di profondo turbamento, la testa che gira, l’animo che ribolle, una forte impressione e un forte disorientamento. Perché, come per molti insomma, la lettura di Se questo è un uomo è stata per me quasi il primo approccio alla questione dello sterminio. Non il primissimo... ricordo in età... ero veramente un ragazzino... di essermi imbattuto in una serie di fotografie del lager che poi molti anni dopo ho scoperto essere fotografie scattate dagli alleati a Bergen-Belsen. Beh, insomma, avevo forse allora dodici anni e certamente l’impressione fu molto forte.

Allora la percezione che io ho avuto, l’impressione che ho avuto dalla lettura di Primo Levi è di qualcosa nello stesso tempo di molto chiaro e di molto intricato. Un groviglio di problemi, un groviglio complesso di problemi in cui era necessario trovare un bandolo. Ecco, devo dire che la domanda proposta – Perché crediamo a Primo Levi? – è una maniera di entrare nel cuore del problema. Perché questo autore è così importante o può essere così importante, ecco.

Non posso dare dettagli perché in effetti i dettagli non ci sono, c’è, appunto, una indistinzione iniziale e poi uno sforzo di chiarimento progressivo. In realtà credo che con ogni autore uno si inventi il proprio approccio, no? L’incontro con ogni scrittore è diverso: può capitare che uno scrittore catturi per un dettaglio marginale e che poi quello sia l’ingresso secondario in un magnifico palazzo, ecco. Con altri scrittori bisogna entrare dal cancello principale, ecco: questo è stato il mio approccio con Levi. Quindi per me Primo Levi è innanzitutto Se questo è un uomoLa treguaI sommersi e i salvati. Con questo trovo straordinariamente interessanti gli studi, diciamo, trasversali che scelgono prospettive d’altro genere, ma, appunto, il mio approccio è stato questo.

 

Domenico Scarpa

Ecco, ti facevo questa domanda perché sono convinto che, anche da ragazzo, eri una persona che spaccava il capello in quattro e che sapeva per l’appunto distinguere in modo sottile.

Tu dici «Non mi ricordo un singolo dettaglio, non mi ricordo una singola parola che abbia fatto spicco, grumo, che sia emersa da questo fondo di disorientamento incontrato in maniera molto precoce». Ma allora, se non c’è questa cosa, allora parliamo del fatto più ampio: dell’incontro con Primo Levi come fatto complessivo. Se tu dovessi definire in qualche modo, se tu dovessi dire qualche parola sul suo tono di voce in genere, sulla posizione che Levi assume quando si mette a parlare, a scrivere, a raccontare, sulla sua voce e sulla sua postura: che cosa diresti, così, d’emblée, a prima impressione?

 

Mario Barenghi

Ma, c’è una coppia di aggettivi che non ho usato io per definire il tono di Primo Levi: sono «sobrio e implacato». Levi scrive le proprie memorie del lager, quindi memoria di un’esperienza estrema, memoria di esperienze estreme, con una grande compostezza. Da questo punto di vista è utile leggere altre cose della memorialistica concentrazionaria, per misurare la distanza che c’è tra l’atteggiamento di Levi e quella che è una media – se così si può dire, insomma – dei discorsi dei reduci che, in linea di massima, sono molto più emotivi, sono molto più disordinati, sono meno organizzati, sono molto più personali. E, d’altro canto, tutto si può dire ma non che Levi sia freddo e distaccato. Cerca di essere per quanto possibile obiettivo, no?, come dice nelle parole famose della prefazione. È un libro che si presenta come documenti per uno studio pacato del genere umano. C’è molto altro: l’elemento personale, l’elemento soggettivo, la commozione, l’indignazione ci sono, eccome se ci sono. Ci sono dei momenti di una drammaticità impressionante come, non so, il ricordo di Emilia, la bambina di tre anni nel capitolo, insomma, quando si parla della partenza da Fossoli, il finale di Ottobre 1944, no?, «Se io fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn», l’impiccagione dell’Ultimo... Cioè, ci sono dei momenti di alta indignazione e di alta drammaticità, che però colpiscono tanto più quanto più la media stilistica, invece improntata a un severo autocontrollo... Levi davvero cerca di capire, ma cercare di capire non vuol dire, naturalmente, accantonare la dimensione del giudizio.

Levi è uno scrittore che ha un sovrano controllo del linguaggio e ha una idea di un uso quanto più possibile economico, sobrio e preciso della parola, che secondo me è straordinariamente istruttivo. Levi è uno degli scrittori sui quali, secondo me, bisogna imparare a scrivere, fra l’altro.

 

Domenico Scarpa

Beh, quella coppia di aggettivi è interessante soprattutto per la terminazione del secondo aggettivo. Non è «implacabile»: «implacabile» ti dà un’idea di battitura, di violenza. «Implacato», invece: esiste una situazione obiettiva, un qualcosa che è accaduto ed è accaduto una volta per tutte, e nessuno può porre rimedio.

Quando noi abbiamo fatto uno dei primi incontri con i ragazzi dell’Amaldi di Orbassano è venuta fuori una pagina di Primo Levi rimasta ignota per molti anni, cioè era stata pubblicata a suo tempo, però non era entrata nell’edizione delle Opere apparsa quindici anni fa; entrerà nella prossima edizione. Si tratta di un dialogo di Levi con Simon Wiesenthal, il quale lo interpella sul perdono. E lì viene fuori chiaramente il Levi implacato, il Levi che non perdona, che è sobrio, cioè nonviolento – dove «nonviolento» bisogna scriverlo come un’unica parola, così come chiedono per l’appunto i pensatori-attivisti nonviolenti da Aldo Capitini in poi. Il Levi implacato è un Levi nonviolento che, prima di pronunciarsi sul caso etico che gli ha posto Simon Wiesenthal, scrive così – e ci tengo a leggerla questa pagina che è la 119 del libro di Mario, fa parte della nostra Appendice documentaria.

«Gli avvenimenti che Lei ha evocati si sono svolti in un mondo scosso sulle sue fondamenta, ed in un’atmosfera satura di delitto. In queste condizioni non è sempre facile, e può addirittura essere impossibile, assegnare un valore assoluto al torto ed alla ragione: è proprio del crimine dare luogo a situazioni di conflitto morale, a vicoli ciechi, o tali da cui non si possa uscire che a prezzo di patti o compromessi, ferendo ancora una volta la giustizia, e ferendo se stessi. Quando una violenza, un’offesa è stata commessa, è irreparabile per sempre; può accadere che l’opinione pubblica richieda una sanzione, una punizione, un “prezzo” del dolore; può anche darsi che questo prezzo sia utile, in quanto indennizza, o scoraggia una nuova offesa, ma l’offesa prima resta, e il prezzo (anche se è “giusto”), è pur sempre un’offesa a sua volta, ed una nuova sorgente di dolore».

Questa è la premessa di Levi; non è la sua risposta a Wiesenthal, è la premessa della risposta. Dice Levi: «Guardiamo prima al contesto; e il contesto, quale che sia, ci dice che quando una violenza è stata commessa non la si ripara più». Resta una violenza implacata, per l’appunto.

 

Mario Barenghi

Dunque, la definizione «sobrio e implacato» è di – mi sembra giusto fare il nome – è di un mio vecchio amico che è uno scrittore, uno scrittore di gialli, e non solo, che si firma con il nome di Hans Tuzzi, libri gialli e trattati di bibliofilia. Ha anche pubblicato un romanzo più impegnativo lo scorso anno intitolato Vanagloria. Risale, questa definizione, a un suo vecchissimo scritto.

Dunque, in effetti quel dialogo con Wiesenthal è molto interessante. Adesso non racconto in dettaglio la vicenda, però vorrei aggiungere qualcosa, perché Wiesenthal, in sostanza, aveva chiesto a una serie di intellettuali di diverso orientamento politico e religioso di pronunciarsi su un episodio che gli era accaduto: prigioniero allora in un campo di concentramento, prelevato da un’infermiera in un ospedale, portato in un ospedale dove un giovane SS morente, che aveva commesso un grave crimine, vuole chiedere perdono a un ebreo. Wiesenthal ascolta la storia e poi se ne va, senza dire niente. Quindi nega il perdono. Però aver negato il perdono è una cosa che lo turba profondamente e, dopo vent’anni, racconta questa storia e interpella una serie di persone.

La risposta di Levi è veramente una delle più acute. Il libro è intitolato Il girasole, è un libro molto interessante, ed è molto interessante il confronto tra le diverse risposte di filosofi, teologi, uomini politici, c’è anche una risposta di Senghor. Ma la risposta di Levi è molto acuta per questa ragione, perché Levi parla - come giustamente ricordava Mimmo – del contesto, un contesto terribile. Dalla eccezionalità della situazione che cosa discende? Potrebbe discendere una conclusione, diciamo così, irenica: i fatti erano, il contesto era così straordinario che qualunque cosa facesse Wiesenthal era giustificata, poteva perdonare e poteva non perdonare.

Levi non trae questa conclusione, Levi trae un’altra conclusione: Levi trae la conclusione che quella domanda non aveva il diritto di esistenza, cioè che quella SS non aveva diritto di porre quella domanda, perché era una maniera di scaricare sulla coscienza di un altro il peso che gravava sulla sua. Una volta di più l’ebreo usato come strumento.

Ecco, io credo che in questo episodio si vede molto bene il tipo di rigore morale che Levi ha nell’affrontare i problemi, no?, perché il suo è l’atteggiamento di chi vuole capire, vuole capire la realtà, vuole capire come funziona l’animale uomo, quali sono le ragioni dei nostri comportamenti, e lo fa poi con grande rigore analitico. Le operazioni del chimico applicate al mondo umano, cioè separare, distinguere e pesare, ponderare. Però questa non è una conoscenza gratuita, è una conoscenza da cui poi discende un giudizio. Perché i comportamenti comunque, tutti i comportamenti possono essere spiegati – quasi tutti – e però non si equivalgono, non si equivalgono affatto.

 

Domenico Scarpa

Beh, appunto, tu parli di sobrietà morale, di pacatezza, di volontà di studio. Vorrei portarti su un terreno forse agli antipodi da un punto di vista etico, cioè: a me sembra che in Levi ci sia anche una grande temerarietà morale. In che senso? Nel senso che questi esperimenti di conoscenza dell’uomo, e di conoscenza dell’uomo nel contesto, Levi li compie in buona parte su sé stesso. Come? Mettendosi al posto dell’altra persona, mettendosi al posto dell’aguzzino, mettendosi al posto anche di chi è morto, di chi è sommerso. E in questo, mi sembra, c’è una somiglianza profonda con Dante Alighieri. È molto facile nell’opera di... cioè, è relativamente facile se si conoscono a sufficienza Levi e Dante, trovare le citazioni testuali, palesi o dissimulate. C’è però una somiglianza psicologica forte, una somiglianza nell’attitudine, che consiste appunto nella capacità di Dante, che Levi ha ereditato, di ragionare con un’altra logica, di impersonarsi, di calarsi nell’involucro morale altrui.

Vorrei che tu dicessi qualcosa su questo.

 

Mario Barenghi

Ma, io mi sono trovato, mi sono imbattuto poco tempo fa in una massima di una curiosa figura di teologo, filosofo, matematico, linguista russo, un pochino più anziano di Michail Bachtin, cioè Pavel Florenskij. Florenskij – che io, confesso, non conosco, non ho mai letto per intero un suo libro, lo conosco soltanto per riferimenti indiretti – una volta ha definito, da teologo, il peccato radicale, cioè la radice di tutti i peccati. Il peccato radicale consiste – questo è l’argomento del teologo – nel non sapere uscire da sé stessi, nel non saper assumere il punto di vista degli altri.

Ecco, questa è un’idea che secondo me è molto, è decisamente vicina alla visione del mondo di Levi. Non solo di Levi, naturalmente, anche Manzoni la pensava così. Ma, ecco, Levi non avrebbe espresso questa idea – naturalmente in termini teologici, non avrebbe usato la parola «peccato» - però magari avrebbe richiamato l’idea che l’uomo è un animale sociale, cioè il mettersi dal punto di vista di un altro è l’atteggiamento tipico della specie che vive, che sopravvive grazie ai legami con i propri simili.

Allora, il fatto che ci sia una radice, diciamo così, animale non è affatto una... avvalora la solidità etica di questo principio – non so se mi spiego. Che ci sia un istinto alla solidarietà vuol dire che questa è una base solida per la costruzione della moralità del nostro comportamento. Per contro, il comportamento più riprovevole per Levi è quello dell’egoista che non sa in alcun modo vedere le cose dal punto di vista di un altro. E questa, purtroppo, è un’esperienza che ha avuto, com’è noto, nel lager, che era un sistema pensato per spezzare tutti i vincoli di solidarietà. Ecco, da questo punto di vista il lager è stato davvero un laboratorio.

 

Domenico Scarpa

Ecco, Mario, proviamo ad approfondire questo, ma proviamo ad approfondirlo permettendo alle persone che sono qui anche di tornare a casa con una scatolina... non con la scatolina del film Belle de jour di Buñuel, che nessuno sa cosa contenesse. Diamogli una scatolina dove ci sia dentro un abbozzo di risposta alla domanda principale: «Perché crediamo a Primo Levi?». Andiamo oltre quel punto interrogativo e andiamoci in profondità.

Io continuo con Dante. Un’osservazione di Vittorio Sermonti su Dante:

«Più ci si sprofonda nel cratere dell’inferno, più le funzioni delle vittime e degli aguzzini tendono a mescolarsi e a confondersi abominevolmente.»

A partire da questo approfondimento, a partire da quello che abbiamo detto, proviamo a fabbricarci una scatolina con un contenuto minimale, un kit di quelli che si comprano all’Ikea, 10 euro.

 

Mario Barenghi

Ma, dunque... Abbozzo una risposta, la risposta che ho cercato di dare a questa domanda, «Perché crediamo a Primo Levi?». Non ho dato la risposta più banale, ovvero noi crediamo a Primo Levi perché quello che Primo Levi racconta corrisponde alla realtà dei fatti. Non ho dato questa risposta. Non ho dato questa risposta perché il vissuto è informe, è incomunicabile. Per essere comunicato deve essere tradotto in parole e la traduzione in parole è una modificazione, cioè si dà forma a contenuti mentali, psichici, emotivi e li si tramuta in linguaggio. Ecco, da questo punto di vista l’intervento del memorialista è sempre una modificazione, nel senso del conferimento di un modo di essere a una certa esperienza empirica.

Ecco, il problema è come adattare il vissuto alle esigenze della comunicazione. Io credo che Levi avesse una chiarissima consapevolezza della differenza che c’è tra i ricordi personali e la memoria collettiva. I ricordi personali possono diventare anche una specie di gorgo, di vortice da cui non si riesce più a uscire. I ricordi personali possono confondersi con i sogni o con le ossessioni, possono diventare ossessioni, naturalmente, possono diventare deliri nevrotici, naturalmente. Altra cosa è la memoria condivisa, la memoria che è costruita per innervare, diciamo così, le relazioni tra gli individui.

È stato detto che si ricorda davvero soltanto ciò che si ricorda insieme. Credo che Levi abbia operato proprio in questo senso: ha cercato di distillare dall’esperienza diretta, atroce del lager quello che serviva a che cosa? Quello che serviva a costruire un mondo in cui un simile abominio non si potesse ripetere. Per questo noi gli crediamo: perché c’è una congruenza, una corrispondenza tra gli intenti e l’obiettivo. Levi costruisce un discorso che è fatto proprio per il destinatario. Non abbiamo mai, leggendo Levi, nelle opere di Levi, non abbiamo mai l’impressione che si stia sfogando, anche nei momenti di emozione. Non è mai lo sfogo. E da questo punto di vista Levi... C’è un brano in Se non ora, quando? in cui c’è Mendel – credo - che dice che appartiene... che gli ebrei hanno una vena profetica, o qualcosa del genere. Ecco, da questo punto di vista Levi compie un po’ un’operazione da profeta nel senso dantesco della parola, no? Anche la Commedia dantesca è un’opera che vuole rivelare che cosa è... vuole rivelare qualcosa di decisivo per il futuro dell’umanità, no?

Ecco, da questo punto di vista... Mimmo ha chiamato in causa più volte Dante... L’opera di Levi è veramente costellata di riferimenti danteschi: ci sono riferimenti puntuali, ci sono termini, ci sono immagini, ci sono frasi, ci sono citazioni esplicite, tutto il campionario dell’intertestualità troviamo nei rapporti fra Primo Levi e Dante. Però oltre a quello c’è il comune atteggiamento di fondo, cioè la consapevolezza di essere latore di un messaggio decisivo. Di un messaggio decisivo che non è chiuso in sé.

Ecco, una cosa che forse ho anche detto in questo testo, che a posteriori sembra sempre più importante. Gli scritti di Levi sul lager non producono mai un effetto catartico. Non producono mai quel tipo di reazione per cui alla fine uno si sente in qualche modo... può essere passato attraverso tutti gli orrori immaginabili – non tutti gli orrori immaginabili, alcuniorrori: c’è anche un’economia, diciamo, nell’evocazione dell’orrore in Levi – alla fine non ci sentiamo pacificati, ci sentiamo – ci dovremmo sentire – chiamati in causa. Chiamati in causa perché tutto questo riguarda anche noi, riguarda anche noi come animali uomini che, messi in certe circostanze e sottoposti a certe tensioni, sottoposti a certi condizionamenti, possiamo anche non resistere, possiamo anche diventare strumenti di volontà perverse, di volontà sataniche. I mostri erano pochi durante la breve, tragica, terribile storia del Reich millenario, no? I sadici assassini erano pochi. Gli altri erano zelanti esecutori, erano imitatori, erano passivi strumenti o erano persone, diciamo, non abbastanza... dalla coscienza non abbastanza chiara per opporsi. Persone normali, persone in cui ci possiamo riconoscere. Ecco, in un certo senso, il grande merito di Levi è stato quello di ricondurre il carattere estremo di un’esperienza a una misura umana di possibilità. E quindi di possibilità che si può anche cercare di scongiurare.

 

Domenico Scarpa

Beh, mi ha colpito l’osservazione giustissima: dici «Levi non si sfoga mai, non c’è mai il puro sfogo». Mi ha fatto venire in mente, per contrasto, un episodio che riguarda il grande omonimo di Primo Levi, cioè Carlo Levi. È un episodio che racconta un grandissimo nostro filologo, Gianfranco Contini. Quando Carlo Levi abbandonò il confino e ritornò qui a Torino, che era la sua città, si fermò prima a Firenze, dove aveva molti amici. E, in casa di questi amici, per una intera notte ininterrottamente raccontò quello che sarebbe poi diventato, alcuni anni dopo, Cristo si è fermato a Eboli. Scrive Contini, con una morbida ellissi:

«Posso confessare di nutrire qualche nostalgia per questa redazione orale, tutta accesa di entusiasmo poetico, rispetto all’intelligenza discorsiva a cui piuttosto si ispira il volume stampato?».

Non credo che noi potremmo, con tutta la bravura di Levi – e la vediamo nelle sue interviste radiofoniche, nelle sue interviste televisive, lo vediamo nella sua assoluta precisione, un’assoluta retratta partecipazione, una pudica partecipazione – non credo potremmo ripetere una frase del genere anche per lui. Ma perché, io ti chiedo? In che modo costruisce per iscritto Primo Levi? Cosa ci mette in più? Qual è l’ingrediente segreto della Coca-Cola?

 

Mario Barenghi

[ride]

 

Domenico Scarpa

[agli studenti tra il pubblico]

Se no voi non state attenti, non state attenti se non faccio queste battute a spiazzare!

 

Mario Barenghi

Dunque, la... Immagino che Contini potesse avere ragione, e credo che abbia ragione Mimmo Scarpa a metterla in questi termini. Intanto c’è una differenza fondamentale nell’oggetto del racconto, perché Carlo Levi aveva da raccontare un’esperienza singolare, una scoperta che però aveva tanti aspetti seducenti. Aveva tanti aspetti seducenti, cioè le donne di paese che avevano fama di streghe, che ordivano, che conoscevano gli incantesimi per una quantità di cose; e poi questo mondo contadino, arcaico, precristiano; questi tuguri dove si erano insieme – l’immagine della Madonna di Stigliano e la fotografia di Roosevelt. Era qualcosa di avventuroso e di fiabesco.

Invece le cose che ha da raccontare, il contenuto del racconto di Levi è repellente, è qualcosa che respinge. Ed è giusto che respinga, perché è naturale: il racconto di sofferenze suscita indirettamente sofferenza, in chi parla e in chi ascolta. Allora, il problema di Levi era di tenere sotto controllo la sofferenza, di tenere sotto controllo – diciamo pure – l’ansia, l’angoscia. Tenere sotto controllo non per cancellarla, non per obliterarla, ma per renderla produttiva, perché quelle sofferenze, quei drammi, quelle sofferenze patite potevano e dovevano diventare un contributo positivo al futuro della società.

Ecco, l’operazione è molto più difficile. Dopo, certo, intervengono anche delle differenze personali, perché io credo che il Primo Levi fosse di natura introverso e non particolarmente facondo, mentre Carlo Levi era – credo – uno charmeur, era un uomo, così, che amava – credo – anche sentirsi parlare, e credo davvero che Contini abbia avuto un privilegio, lui e quei pochi altri, ad ascoltarlo, la figlia di Umberto Saba...

Quindi c’è insieme una differenza di temperamento, una differenza nel temperamento del locutore e una differenza, anzi un’antitesi nell’oggetto del messaggio.

 

Domenico Scarpa

Ecco, ma allora proviamo a contraddirci subito, invece, a parlare non di ma con il Primo Levi orale. Una delle cose che vengono fuori un po’ da tutta la letteratura critica, dalle sue conversazioni – se ne lamentava lui per primo! – era che gli ponevano sempre, o troppo spesso, le stesse domande. Ora è passato del tempo dalla sua scomparsa, ventisei anni; si sono accumulate biblioteche su di lui, tanta letteratura critica. Abbiamo saputo molte, e in certi casi addirittura troppe cose sulla sua vita, sul suo percorso biografico.

C’è una domanda che oggi, qui e ora, ti piacerebbe fare a Primo Levi: una domanda per la quale mancano i dati di realtà, una domanda su cui non abbiamo elementi, su cui non c’è informazione.

Che gli chiederesti?

 

Mario Barenghi

Dunque, c’è una cosa che a me piacerebbe sapere, ma non so se avrei avuto il coraggio di chiederla a Primo Levi, ed è quando è morto Daniele, cioè il personaggio de La tregua che è ricordato ne I sommersi e i salvati. È un episodio secondo me particolarmente significativo perché è un episodio in cui, diciamo, Levi in un’estate torrida – era il momento in cui Auschwitz era sotto i bombardamenti – trova un rubinetto che sgocciola, anzi trova un rubinetto, riesce ad aprirlo e a farlo sgocciolare. C’è un po’ d’acqua, stanno tutti morendo di sente, lì di acqua ce ne sarà sì e no un litro, che cosa può fare? Se lo dice a tutta la squadra nessuno si disseta, può tenere tutto per sé. Decide di dirlo soltanto a una persona, all’amico Alberto. E in due si dissetano. Però li ha visti anche un altro. Che si chiama Daniele. Che mesi dopo, durante il viaggio di ritorno gli chiede «Perché voi due sì e io no?».

Dunque, no, ho preso una piega sbagliata... Vorrei dire una cosa a proposito delle interviste di Primo Levi: le cose più importanti nelle interviste di Primo Levi, le cose più interessanti secondo me non sono le risposte ma le domande. In particolare il dialogo con Anna Bravo – fatto credo nell’85, nell’83 – in cui Levi viene intervistato come ex deportato, nel quadro di quel progetto di raccolta di testimonianze di tutti i reduci torinesi. E la cosa che mi ha colpito di quell’intervista è l’alto numero di domande. Levi risponde a una domanda, anche. Non soltanto non si sente depositario di verità assolute, ma coglie ogni occasione per capire lui delle cose.

Quindi non lo so, io non credo che avrei desiderio di porre veramente delle domande a Levi, mi sarebbe piaciuto moltissimo parlare con lui, ma questo purtroppo non è capitato.

Volevo aggiungere una cosa a proposito del tempo che passa: Levi ha vissuto abbastanza per misurarlo questo tempo che passava. I sommersi e i salvati è stato scritto quarant’anni dopo Se questo è un uomo. E a quarant’anni di distanza Levi si rende conto che i giovani che incontrava erano diversi. Erano diversi perché appartenevano a una generazione diversa. Adesso la metto in termini un po’ brutalmente anagrafici, però quanto più ci si allontana dalla guerra tanto più gli eventi della guerra - quindi tutte le sciagure della guerra - recedono, diciamo, dalle memorie famigliari. Fino a poco tempo fa uno poteva sentire un nonno parlare della guerra, io appartengo alla generazione i cui genitori parlavano della guerra. E poi il tempo passa, il tempo passa e la memoria si sfoca, quindi tra le cose che Primo Levi ci insegna c’è anche questo: adeguare il modo di parlare, il modo di ricordare alle esigenze presenti e alla diversa fisionomia degli interlocutori. I giovani, i liceali dell’inizio degli anni ottanta non erano i liceali dell’inizio degli anni sessanta.

Ecco, Levi aveva una grande sensibilità per l’identità dell’interlocutore, questo si coglie molto bene nei suoi libri. Tra l’altro l’appendice a Se questo è un uomo è molto bella, l’appendice che è nata dalla rielaborazione dei colloqui con gli studenti. Abbiamo cominciato con un elogio degli studenti di Orbassano... Ecco, in realtà dove il dialogo si attiva, dove il dialogo è davvero motivato, interessato e partecipe, lì la comunicazione, diciamo, spicca il volo, ecco, le cose funzionano molto meglio.

 

Domenico Scarpa

Ecco, noi siamo in chiusura e finiamo con un verso - visto che abbiamo parlato tanto di Dante – finiamo con un verso di Dante dedicato agli studenti. Non è di quelli citati da Primo Levi, però è qualcosa che sta alla base della scrittura di Levi, Mario ne ha parlato. E cioè, il sapersi fermare in tempo: un modello etico-narrativo. Siamo nel XVIII dell’Inferno, ottavo cerchio, prima bolgia, dopo la visione di Taide:

«E quinci sian le nostre viste sazie.»

Di qui in poi saziamoci di aver visto, questo è stato un dialogo, potremmo parafrasarlo: «E quinci siano i nostri uditi sazi». E visto che l’udito è sazio possiamo tornare a leggere con gli occhi.

Arrivederci, alla prossima Lezione Primo Levi. Grazie!


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