Presentazione di "Una telefonata con Primo Levi"
In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino, l'11 maggio 2012 è stato presentato Una telefonata con Primo Levi, il volume di Stefano Bartezzaghi tratto dalla terza Lezione Primo Levi e pubblicato da Einaudi in edizione bilingue italiano/inglese.
Di seguito proponiamo il testo dell'incontro:
Domenico Scarpa:
È la terza volta, il terzo anno consecutivo, che mi trovo in una sala del Salone del Libro a salutare studenti venuti ad ascoltare questi dialoghi dopo aver seguito, qualche mese prima, le nostre Lezioni Primo Levi. Questo qui è un anno particolare, è un anniversario: è il venticinquesimo dalla scomparsa di Levi. Si sa come di solito, particolarmente in Italia, vengono celebrati gli anniversari: con molte, molte parole, che volano in maniera troppo, troppo leggera. Noi del Centro abbiamo preferito muoverci in maniera un po’ diversa, cioè evitando di produrre un’abbondanza di parole, ma offrendo invece alcuni studi approfonditi sulle parole di Levi. Può darsi che saremo stati a nostra volta verbosi, ma il punto è che questo lavoro sta andando avanti, e parleremo oggi del lavoro di Stefano Bartezzaghi con Stefano Bartezzaghi, che è qui con noi per dialogare sulla sua Telefonata con Primo Levi.
Studi approfonditi, dicevo. Beh, soltanto quest’anno, soltanto negli ultimi due mesi, tramite il Centro Studi Primo Levi è uscito da Einaudi un commento, un’edizione commentata della principale opera di Primo Levi, la più conosciuta: Se questo è un uomo. Il commento è firmato da Alberto Cavaglion ed è il frutto di una ventina d’anni di studio, studio non esclusivo e non continuativo, che sarebbe un eccesso, ma studio appassionato certamente: un lavoro di insistenza, di stratificazione sulle parole di Primo Levi.
Qualche giorno fa, il sei maggio, c’è stato alla Comunità Ebraica un incontro (ed era sempre un incontro di studio), un Limmud sulla figura di Primo Levi in occasione del quale si è stampata una piccola plaquette. Il testo è di Bianca Guidetti Serra, che è stata un’amica di Primo Levi sin dagli anni della giovinezza, anzi una delle persone alle quali lui indirizzava lettere, cartoline di fortuna durante la deportazione, durante il suo viaggio di ritorno da Auschwitz all’Italia attraverso la Russia e l’Europa intera. Sono lettere e cartoline straordinarie. E questo testo bellissimo, Primo Levi, l’amico, è stato raccolto in un piccolo volante volumetto stampato dall’editore Silvio Zamorani.
Noi invece ci troviamo qui per parlare con Stefano Bartezzaghi della sua lezione Primo Levi, che è stata la terza dopo quelle di Robert Gordon e di Massimo Bucciantini. Scegliere Stefano Bartezzaghi credo che non sia stato un gesto banale, per diverse ragioni. Apparentemente, Stefano non è uno studioso di letteratura o non lo è in prima battuta. E a noi interessava per questo, ci interessava perché la sua competenza è un incrocio di più competenze; perché questa sua attenzione al linguaggio ci insegnava a stare, a soffermarci sulle parole di Primo Levi. Ci insegnava soprattutto ad andare al di là di questo libro, al di là di Se questo è un uomo, che pure è un libro importantissimo, fondamentale per il Novecento, ma che ha intorno a sé tutta una galassia di testi, di universi linguistici. Ogni volta che Levi pensa a un libro, ogni volta che mette la penna sulla carta, anzi prima ancora di mettercela, immagina dei veri e propri universi linguistici l’uno diverso dall’altro, che vanno scoperti come in un viaggio di avventura. E questa è una cosa che agli studenti dovrebbe abbastanza interessare.
Allora, per cominciare l’avventura dentro il libro di Stefano, Una telefonata con Primo Levi, io partirei dal fondo. Abbiamo detto: c’è un libro principale, un libro più conosciuto di altri che è Se questo è un uomo e poi ce ne sono altri tutt’attorno, scritti nel corso di circa quarant’anni. Stefano conclude il suo libro immaginando, inventando una conversazione che un po’ si riesce ad ascoltare e un po’ no, che un poco arriva e un poco si interrompe o si perde, fra Levi e un altro grande scrittore contemporaneo americano anche lui scomparso, David Foster Wallace. Dopo questa conversazione c’è un capitolo – l’ultimo, molto breve – intitolato Primo Levi, ancora: ed è una sorta di congedo provvisorio dal libro, dove si parla di un qualcosa che a me interessa molto. In Primo Levi, ancora si parla delle “idee accessorie” di Primo Levi.
L’impressione, Stefano, è che, posto che questo libro, Se questo è un uomo, sia sicuramente il libro principale di Primo Levi, uno dei motivi, se non il motivo principale per cui noi continuiamo a interrogare le parole di Levi, sia proprio le “idee accessorie” che si accompagnano a qualsiasi cosa lui dica: i retroscena, le derivazioni, i sottofondi. Non so se è giusto, ma sulle “idee accessorie” vorrei ascoltarti. Che sono?
Stefano Bartezzaghi
Grazie. È un ottimo punto di partenza per quello che mi riguarda anche perché io all’università ho studiato una materia che si chiama Semiotica e che, appunto, è un tentativo di descrizione del funzionamento della lingua e di tutte le altre forme di significazione, il modo che abbiamo per riferirci al mondo e per comunicare l’uno con l’altro. E questa disciplina, a partire dal suo stesso nome, viene spesso accusata, è stata spesso accusata di inventare delle parole molto ostiche, no?, come “sintagma”, “paradigma”. C’è tutto un umorismo legato alla terminologia tecnica della Semiotica, tant’è vero che la Semiotica fatica anche a definirsi come filosofia o come scienza, è qualcosa che fa parte di entrambi i grandi settori. E il bello di Primo Levi è che, appunto, lui parlava spessissimo di linguaggio, era ritenuto un linguista dai linguisti, insomma, un linguista dilettante – e, beh, nel mio libro parlo poi anche della parola “dilettante” che è una parola molto importante, insomma, da non prendere in maniera ingenua, piena di “idee accessorie”.
Ecco, una delle prime cose che mi ha colpito quando molti anni fa mi hanno proposto di lavorare su Primo Levi – fu il nostro amico comune, Marco Belpoliti – è proprio il fatto che lui chiamava “idee accessorie”, nella descrizione del linguaggio e delle parole, qualcosa che in Semiotica si chiama “connotazione” e che ha già un significato più ostico. Levi riesce a parlare del linguaggio in un modo che arriva molto semplicemente, molto facilmente; non ha bisogno di inventare dei termini che facciano finta di essere complicati, perché “idee accessorie” è un modo di dire che rende il tutto molto chiaro: a ogni parola è collegata un’idea, diciamo così, ma non una sola, ce ne sono anche altre che stanno attorno. Per questo i linguaggi sono difficilmente traducibili, le lingue sono difficilmente traducibili, e non lo sono mai perfettamente; perché abbiamo le parole per dire le stesse cose, ma queste parole in ogni lingua portano con sé delle “idee accessorie”.
Tra l’altro, leggendo e rileggendo dopo tanti anni George Orwell, mi sono reso conto che “idee accessorie”, ovviamente nella traduzione italiana, è un termine che ricorre nei saggi sulla “neolingua” che Orwell ha poi allegato al suo romanzo 1984. E ho pensato – io sono un po’ polemico contro la ricerca delle fonti: quando si va a leggere uno scrittore per vedere se è stato influenzato da Balzac o da… è un esercizio che un po’ mi annoia, sinceramente, perché penso che certe cose possono succedere anche per caso. Però ogni tanto sogno che Primo Levi l’abbia letto lì, abbia ritenuto lì questa espressione, l’abbia trovata efficace nella traduzione da Orwell, e mi piace, ovviamente, che possa venire da un capolavoro della letteratura antiutopica, un libro che contiene anche un’anti-utopia della lingua, una lingua che non serve più per comunicare ma serve per nascondere.
Ecco allora che l’idea di “idee accessorie” si può applicare anche proprio all’opera di Levi per tutte le cose che sono già state dette qua, e aggiungo la mia che è la quarta versione: Primo Levi non può essere letto, non può essere ridotto, non si capisce Se questo è un uomo – infatti non fu capito Se questo è un uomo, sostanzialmente, al momento della sua scrittura e anche al momento della sua prima pubblicazione – se non si tiene conto di tutto il resto, perché è un libro in effetti molto strano. Per noi lo è meno perché è una delle prime letture che si fanno a scuola e quindi non risalta sullo sfondo degli altri libri. Soltanto dopo ci rendiamo conto di quanto Se questo è un uomo sia un libro diverso dai libri della letteratura italiana e non solo italiana. Questo perché appunto Primo Levi non era solo un chimico, non era solo un testimone – anche lì, anche per quello che racconta in Se questo è un uomo – aveva, proprio al momento dell’esperienza della deportazione, l’ha vissuta in un modo diverso dagli altri. E in questo modo in cui continuamente… c’è la cosa, c’è l’esperienza e c’è la riflessione sull’esperienza; in ogni frase, quasi, Primo Levi ci dice una cosa e la commenta. E molto spesso la commenta da due punti di vista diversi. Proprio cambia idea, in un modo molto fluido, molto lineare, a volte non ce ne si accorge, ci si deve fermare a leggere e dici: “Ma qui sta dicendo un’altra cosa!” E questo, appunto, dato che io amo molto poi anche David Foster Wallace – i due non si sono mai incontrati, forse Wallace ha letto Levi, ma questo non lo sappiamo, non l’ha mai detto – e, appunto, leggendo uno e leggendo l’altro continuavo a trovare dei rimandi, dei rinvii e mi sono, appunto, inventato questa conversazione tra i due, sentendomi autorizzato a farlo dal fatto che Primo Levi, nei suoi racconti di quella che viene chiamata fantascienza – ma è “fanta-qualcosa”, si immagina l’esistenza di un parco nell’Aldilà – evidentemente – in cui vanno a vivere i personaggi dei romanzi, i personaggi letterari: insomma, in cui Renzo Tramaglino può vivere nello stesso chalet di Cleopatra. E, quindi, essendo loro due personaggi dei loro romanzi, delle loro opere, sia Primo Levi che Wallace, ho pensato che si potrebbero incontrare in un parco che io mi sono immaginato come un Lungo Po, il Lungo Po in cui Primo Levi davvero portava i suoi interlocutori a fare passeggiate e lunghe conversazioni. Ho avuto la fortuna di conoscere qualcuno degli interlocutori di Primo Levi e mi hanno descritto questa sua abitudine.
La passeggiata con Wallace è la fine del mio libro. Ho voluto aggiungere un’appendice che è un’analisi di una pagina di Primo Levi, una pagina di Primo Levi di quelle proprio più che minori, perché è la risposta a un’inchiesta di “Stampa Sera”. “Stampa Sera” aveva chiesto, immagino a più persone, che rapporto avessero con la vecchiaia e lui – esce come una sorta di intervista, ma evidentemente è un testo scritto da lui, perché riconosciamo proprio le caratteristiche della sua scrittura – fornisce un brevissimo testo in cui esordisce dicendo: “Vecchio io?” E sembra, appunto, il protagonista di Taxi Driver quando fa la famosa scena allo specchio “Ce l’hai con me?”, “Vecchio io?”. Incomincia subito con l'interlocuzione nei confronti del lettore e dell’intervistatore, e costruisce un piccolo spettacolino autobiografico che finisce con un’attenzione sul linguaggio. Anche in un testo minore - ci avrà messo tre quarti d’ora al massimo, per scriverlo, secondo me - troviamo una sintesi ottima di moltissime qualità della scrittura di Levi.
Domenico Scarpa:
Lo leggo! Lo leggo un secondo.
Stefano Bartezzaghi:
Dai!
Domenico Scarpa:
“Vecchio io? In assoluto, sì: lo dicono l’anagrafe, la presbiopia, le chiome grige, i figli ormai adulti. Proprio la settimana scorsa, per la prima volta, mi hanno ceduto il posto in tram e mi ha fatto un effetto singolare.
Soggettivamente, di regola non mi sento vecchio. Non ho perso la curiosità per il mondo attorno a me, né l’interesse per il mio prossimo, né il gusto di competere, di giocare e di risolvere problemi.
La natura mi piace ancora, mi dà gioia percepirla attraverso i cinque sensi, studiarla, descriverla in parole pronunciate o scritte.
Organi, membra, memoria e fantasia mi servono ancora bene. Tuttavia sono acutamente consapevole del suono grave di questa parola che ho appena scritto qui due volte: ‘ancora’.”
Stefano Bartezzaghi:
Eh, qui ce n’è… a parte che il finale è paradossale, no?, perché lui dice “ho scritto due volte la parola ‘ancora’” e questa è la terza volta, quindi l’ha scritta ancora, ha scritto “ancora” ancora!
Domenico Scarpa:
E sono quattro!
Stefano Bartezzaghi:
E queste sono le cose che piacciono a me! Ma questo brano, secondo me, dovrebbe essere studiato dalle scuole di scrittura – soprattutto per il modo in cui sono costruiti gli elenchi – è un brano tutto pieno di elenchi. Sembrano cose buttate lì e in realtà, quando dice “organi, membra, memoria e fantasia mi servono ancora”, questo è già un disegno di una funzione del corpo e dell’intelletto umano.
Domenico Scarpa:
Sì sì, è un Vesalio radiografico, è una tavola di Vesalio, certo!
Stefano Bartezzaghi:
Oppure “il gusto di competere, di giocare, di risolvere problemi”: capite che qui, appunto, l’enigmista si entusiasma. E c’è anche il gioco di cambiare il punto di vista, perché lui dice: “Vecchio io? In assoluto, sì”. E già ci sentiamo subito arrivare… non è, come diciamo oggi molto spesso, “assolutamente sì”, “assolutamente no”, perché non siamo più capaci di dire, come il Vangelo ci insegnerebbe, sì quando è sì e no quando è no. Lui dice “in assoluto, sì” e in realtà sta dicendo “relativamente, sì”. Cioè, in assoluto, dal punto di vista oggettivo, io sono vecchio, lo dicono l’anagrafe e via dicendo – elenco sempre accurato e preciso. Ma soggettivamente, ecco che ha cambiato punto di vista: si può essere vecchi fuori ma, diciamo, giovani dentro! Il che magari può sembrare una banalità ma non lo è affatto.
Ora però, per parlare appunto di queste forme che possiamo chiamare anche “contraddizioni” se ci intendiamo sulla fecondità e la legittimità delle contraddizioni. C’è qualcosa che riguarda, appunto, il titolo. Ovviamente io mi sono un po’ messo nei guai con questo titolo, Una telefonata con Primo Levi, perché alcuni capiscono che io abbia telefonato con Primo Levi, il che purtroppo non mi è mai capitato. In realtà la telefonata è lui che la fa a tutti noi perché in un’intervista radiofonica lui – appunto, la radio lo affascinava, c’era la questione della voce, e lo affascinava anche il telefono, questo strumento un po’ strano – in un’intervista radiofonica lui dice: “Il testo scritto dev’essere un telefono che funziona.” Che è una stranissima cosa se ci pensate, perché, appunto, il telefono è orale e invece lui sta parlando proprio del testo scritto e questa è una delle frasi in cui lui parla della chiarezza, che è stata proprio una sua battaglia, una delle poche polemiche culturali che lui ha fatto, oltre a quelle, ovviamente, contro i negazionisti e contro un revisionismo storico un po’ troppo spinto. Lui ha fatto delle polemiche proprio sulla chiarezza, sul fatto che la scrittura ha il dovere di dire quello che ha da dire e di dirlo in maniera chiara e sul fatto che tutto si possa dire, anche se forse non bisogna dire proprio tutto, ma si potrebbe dire tutto. Quindi la negazione dell’incomunicabilità, la polemica contro i paroloni difficili, i discorsi che non vanno da nessuna parte. E, appunto, lui diceva: “Io quando scrivo sento di avere il mio lettore vicino.” E io mi ricordo che Giampaolo Dossena, appunto studioso di giochi e, diciamo, conoscente di Primo Levi - non usiamo la parola “amico” che forse è anche un po’… però insomma conoscente, si stavano simpatici, ecco – Dossena una volta aveva scritto: “Io vi vedo” ai lettori, mentre scriveva, "io vi vedo tra le grate della scrittura". Ecco, questa forma di scrittura, che tiene sempre conto dell’interlocutore, è un’altra grandissima lezione.
E poi, però, cosa succede? Vedete dove può arrivare l’onestà intellettuale… Levi viene a contatto con una strana opera dello scrittore francese Raymond Queneau, che è la Piccola cosmogonia portatile, un poemetto che parla della fondazione, cioè che parla del mondo, di come si è sviluppato il cosmo, in un linguaggio spettacolarmente pieno di giochi di parole e anche allusioni cifrate, tanto che Italo Calvino chiede a Primo Levi una consulenza per spiegargli alcuni dettagli – Italo Calvino doveva scrivere un commento a questo poemetto e non capiva molte cose e quindi si rivolgeva a Primo Levi in quanto scrittore e, soprattutto, in quanto esperto di scienza, oltre alla chimica, che era il primo mestiere di Primo Levi, ma era anche, appunto, un appassionato di scienze in genere. E Primo Levi si mette a studiare queste cose, a cercare di capire cosa volesse dire Queneau e alla fine, quando esce finalmente il libro, scrive un articolo per “La Stampa” in cui dice: io sono sempre stato convinto che lo scrittore debba parlare in maniera chiara, però, guardate un po’, adesso che ho letto Queneau sto anche pensando che forse… Io sono contento di scrivere come scrivo, però mi piacerebbe scrivere come lui, mi piacerebbe anche essere oscuro come è oscuro Queneau, perché è reso oscuro dai suoi giochi, dal suo gusto per gli enigmi, e io devo dire che, in effetti, mi piacerebbe essere uno scrittore come Queneau.
Domenico Scarpa:
Beh, ma allora, il bello è che Levi quella polemica sullo scrivere chiaro e lo scrivere oscuro l’aveva fatta con uno scrittore che si chiama Giorgio Manganelli. Lo dico soprattutto per i ragazzi, perché gli arrivi questo nome. E Manganelli il bello è che ha scritto delle pagine divertentissime, da morire dalle risate davvero, sui telefoni che non funzionano, sui qui pro quo che possono capitare con le linee telefoniche.
Allora, immaginiamo questo Primo Levi che vorrebbe scrivere in un’altra maniera: ci sono alcuni scrittori rispetto ai quali lui – scrittore chiaro – ha invidiato lo scrivere oscuro, ha invidiato lo scrivere stratificato. Uno è Queneau, un altro è François Rabelais, un altro ancora è Stefano D’Arrigo, quindi scrittori molto diversi l’uno dall’altro. E questo mi porta a un’altra domanda che sta sempre al centro del libro di Stefano, Una telefonata con Primo Levi. Intanto io mi domando – non è questa la domanda, ma è una considerazione –, mi domando questo: ma noi, noi ci vediamo a telefonare veramente a Primo Levi? Primo Levi era uno al quale era naturale, era facile telefonare? Lo dico perché c’è stato uno scrittore nel nostro secondo Novecento, famosissimo, il quale, anzi, era come se incoraggiasse gli amici (ma anche i seccatori) a telefonargli: era Alberto Moravia. Moravia lavorava dalle otto alle dodici di mattina invariabilmente, si faceva fotografare negli anni Ottanta con una scrivania completamente sgombra sulla quale aveva la sua macchina da scrivere, non c’erano ancora i computer, e sulla quale campeggiava il telefono, e lui diceva che amava essere interrotto. Non so se Primo Levi lo vediamo così, come uno raggiungibile; io vedo piuttosto Levi come uno che ci raggiunge, non tanto che si faccia raggiungere.
Ma la domanda era sullo scrittore chiaro – come Primo Levi – che apprezza scrittori che invece chiari non sono, che immagina di poter scrivere in un’altra maniera, che immagina di voler scrivere in un’altra maniera, quindi uno scrittore potenziale. L’aggettivo “potenziale”… tu a un certo punto dici, all’inizio del tuo libro, che scrivere Se questo è un uomo come primo libro ha liberato in Primo Levi lo scrittore potenziale che era in lui. Che è una bellissima idea ed è, tra l’altro, completamente opposta a quanto si dice di solito, cioè che questo libro abbia chiuso alcune strade piuttosto che aprirle. Ma “potenziale”, Primo Levi potenziale, che significa?
Stefano Bartezzaghi:
Mah, io penso che sia una cosa, insomma, anche storicamente, diciamo, accertabile; io la do per accertata, insomma, per quanto si possa essere certi di cose del genere. Abbiamo molte testimonianze biografiche su Primo Levi prima di Auschwitz e sui suoi interessi letterari, lui ci dice di avere scritto alcune cose, ci sono dei testi di Primo Levi che sono datati, per esempio, 1943, come la poesia Crescenzago. C’è la storia di questi amici, questa piccola colonia in parte torinese, trapiantata a Milano, appunto negli anni già della guerra, non prima della guerra, sono i primi anni di guerra, sono dei giovani che si incontrano e scrivono poesiole, fanno anche, appunto… sono i giovani che, come diceva prima Ernesto Ferrero, dicevano che “Primo sa tutto”, perché lui era un po’ un leader intellettuale di questa compagnia. E quindi c’era una letteratura – ed è interessante - vissuta come si vive da giovani, come gioco collettivo, ecco, come divertimento. E poi, lui, quando dicevo prima che ha vissuto l’esperienza della deportazione in modo diverso dagli altri, eh, secondo me l’ha vissuta proprio da scrittore e non è una cosa tanto lontana da farmi pensare che è stata anche una delle ragioni della sopravvivenza, no?, il fatto di avere… lui lo dice in un paio di punti quantomeno, sono tutte cose che io dico, appunto, basandomi su delle testimonianze che lui dà su sé stesso e, ovviamente, prendendole per sincere e veritiere. E c’è stato proprio un vivere l’esperienza già con la mentalità di chi la dovrà raccontare: lui dice che scriveva nell’aria, scriveva dovendo poi buttare via, dovendo disfarsi di questi appunti perché si poteva rischiare la vita, semplicemente detenendo un pezzo di carta scritto, ma, evidentemente, c’è una funzione della scrittura, la funzione di cui parla poi Maurizio Ferraris, la scrittura non come comunicazione, ma come registrazione, innanzitutto, che è fondamentale – tante volte anche noi ci scriviamo delle cose, non so, almeno a me capita, delle cose che poi non vado più a consultare ma era importante averle scritte lì perché la scrittura dà forma, non è soltanto una trascrizione del pensiero come se il pensiero fosse legato all’oralità. No, ecco, la scrittura è una forma in sé. E lui, tramite questo, poi, è diventato uno scrittore in atto, ecco, quindi attuale. Ma lo era già, lo era già per formazione, per forma mentis, per chissà come si diventa, si nasce o si diventa, scrittori potenziali.
Peraltro, ovviamente, abbiamo parlato di Queneau, Domenico Scarpa è citato nel libro per la sua mirabile tesi di dottorato sui rapporti tra Perec e Levi, rapporti peraltro inesistenti, nel senso che sicuramente Perec avrà letto Levi…
Domenico Scarpa:
Assolutamente no! Il bello è che non si sono né letti né conosciuti, quindi è un esercizio di trapezio sul vuoto! [risa]
Stefano Bartezzaghi:
Ecco, benissimo, benissimo. Un’altra telefonata con Primo Levi…
Domenico Scarpa:
Sì, sì, bisogna ritelefonargli![risa]
Stefano Bartezzaghi:
Eh, appunto, rapporti potenziali, quindi. Perec e Queneau, assieme a Italo Calvino, erano due fra i principali esponenti di quel gruppo Oulipo intitolato alla letteratura potenziale, un gruppo che faceva giochi letterari – anzi, li fa ancora perché il gruppo esiste ancora – ma giochi abbastanza seri, in realtà, sono sempre con questa cosa semiseria, di un’attitudine ridanciana, e che lavorano sul concetto della letteratura prima della letteratura, cioè che non è ancora letteratura. Il fatto che la rima, per esempio, come forma letteraria precede le parole e quando uno stabilisce una regola come quella della rima è come se avesse stabilito una regola di un gioco che poi ci si mette a giocare. E questo appunto è qualcosa che fa di Primo Levi un compagno di strada del gruppo dell’Oulipo, perché negli stessi anni, all’insaputa gli uni degli altri, fa dei racconti, fa delle opere che sono basate su dei vincoli e questi vincoli molto spesso sono vincoli di gioco, fino ad arrivare a dei giochi linguistici veri e propri come i suoi palindromi o i suoi rebus. I palindromi li aveva pubblicati in un racconto, dei rebus ne ha parlato soltanto in un’intervista proprio a Gianpaolo Dossena chiedendogli, però, di non fare il suo nome, quindi uscì una stranissima intervista a uno scrittore anonimo che era poi alla fine abbastanza riconoscibile.
Però c’era questo aspetto per il quale quando Levi arriva fino al gioco vero e proprio poteva anche provare un po’ di pudore perché, insomma, allora non usava che persone di cinquant’anni giocassero, specie persone serie, notoriamente serie, come Primo Levi. Ricordiamoci che poi quando Primo Levi ha scritto il primo libro non legato alla sua esperienza di deportato e di prigioniero, con il ritorno in Italia, ha scritto un libro di racconti, alcuni anche umoristici, e l’ha pubblicato con uno pseudonimo perché, insomma, gli sembrava, quantomeno, che fosse l’opera di un altro scrittore, ecco no?, come usa nei… Per esempio, appunto, Stephen King che ha i suoi… Nel mondo anglosassone, spesso, ci sono degli pseudonimi che non sono poi tanto segreti, ma servono per dire, questa è come l’opera di uno scrittore diverso, è un’altra linea di produzione: è stato il caso di Stephen King.
Domenico Scarpa:
Mah, c’è anche una forma di allenamento in questo, cioè gli scrittori – uno se li immagina a tutto tondo, come delle statue – gli scrittori si muovono e si allenano. C’è una piccola parte, postuma, dell’opera di Pasolini che si chiama L’hobby del sonetto: lui la mattina si svegliava e componeva un sonetto. Provateci voi, magari, come esercizio... Primo Levi aveva ovviamente l’hobby del rebus, ne faceva per uso privato, ne costruiva, ne disegnava di rebus così come disegnava palindromi.
Ma volendo passare a un gioco diverso, di quelli che praticava lui, Primo Levi, ma che soprattutto pratica Stefano: l’anagramma. L’anagramma di Primo Levi, un anagramma possibile, viene fuori che è “l’impervio”, Primo Levi uguale l’impervio. [risa] Sviluppa!
Stefano Bartezzaghi:
Sì, è un anagramma che anche io avevo trovato molti anni fa, mi ha sempre fatto sorridere perché come scrittore, se c’è uno scrittore non impervio è proprio Primo Levi, perché lo si percorre, no? Impervio è la via che non puoi percorrere, invece Primo Levi lo si percorre in maniera così, così liscia, così piacevole. Io me ne sono reso conto la prima volta quando ho letto le prime opere che non fossero Se questo è un uomo e La tregua, quindi dove il contenuto di quanto io leggevo non appariva troppo vivido, troppo da mandare a memoria e, insomma, quasi oscurando il modo in cui erano state scritte. Quando uno va su, diciamo, il Primo Levi più affabile allora si rende meglio conto della qualità della scrittura. Non certo perché gli altri libri siano scritti meglio, ecco, ma semplicemente perché risalta di più.
E allora esistono, nella tradizione degli anagrammi, gli anagrammi che dicono il contrario della cosa vera. Ci sono degli anagrammi come quello di Marco Antonio che, con le stesse lettere, diventa “antico romano”. E questa è la verità storica, no? Si considera molto vero anche “bibliotecario”, l’anagramma è “beato coi libri”, o “bibliotecaria”, “beata coi libri”, funziona anche al femminile. E io su questo ho dei dubbi perché conosco dei bibliotecari che di libri non ne possono più, non sempre, insomma, però idealmente un bibliotecario dovrebbe essere beato coi libri, almeno lo speriamo per lui . Nella tradizione enigmistica anglofona, questi anagrammi si chiamano aptagram, cioè anagrammi adatti, opportuni. Poi ci sono anche gli antigram: antigram sono anagrammi che dicono il contrario del vero. “Funeral, real fun”, cioè funerale, vero spasso, grande divertimento. Ecco, io ho sempre pensato che Primo Levi l’impervio fosse un bell’esempio di antigram perché è tutt’altro che impervio. Poi mi sono anche invece reso conto, proprio lavorando per la Lezione Levi, che in realtà l’anagramma è un aptagram perché l’impervio non è lui, è quello che lui aveva di fronte.
Proprio in termini di potenzialità della letteratura, cosa fa lo scrittore? Lo scrittore non è uno che ci racconta sempre le cose che sappiamo già, perché quello fa parte di una combinatoria nota – certo qui al Salone è pieno di roba già vista, comprese probabilmente le cose che dico io: libri fatti di roba riciclata, un poco come gli anagrammi, nuove combinazioni di cose che si sanno già. Ma il vero scrittore è colui che ci racconta una cosa che fino a quel momento noi non sapevamo che potesse essere detta, non sapevamo che le cose stessero così. Questo può essere per un’invenzione formale, può essere per… però l’importante è quello: dire qualcosa che non poteva essere detto che in quel modo lì e quindi perché fosse possibile dirlo doveva nascere quella persona.
Questo, per esempio, è la cosa che in fondo mette più vicino nel mio scaffale mentale – forse è un po’ folle, e scusatemi – appunto Levi a David Foster Wallace. Perché David Foster Wallace è morto molto giovane, quindi uno scrittore della generazione che adesso ha cinquant’anni e l’abbiamo visto venire fuori, insomma, con le traduzioni ovviamente, con quel po’ di décalage, uscivano tanti libri e poi c’erano anche i libri di Wallace. Era diverso! E tutti lo ammettono questo fatto qua. Quest’anno non è stato dato il Pulitzer, per la prima volta, penso, perché non si sono messi d’accordo, perché dovevano darlo a Foster Wallace, al libro postumo di Wallace, che però è un libro che lui non ha scritto, è la raccolta delle cose che lui ha lasciato, insomma, un progetto di libro, come Petrolio di Pasolini. Come fai a premiare un libro che lui non ha materialmente licenziato? È una cosa molto difficile, si sono paralizzati. Gli scrittori americani, gli amici di Wallace, non fanno altro che scrivere libri in cui c’è dentro Wallace come personaggio e poi dicono: “No, no, ma non è lui, no, no, no, sono coincidenze superficiali!” È perché quando è arrivato Wallace era uno che diceva qualcosa che non poteva che essere detto che in quel modo e quella, secondo me, è la letteratura vera, quando noi lettori ci accorgiamo che è venuto in atto qualcosa che era solo potenziale e noi non ce ne saremmo mai accorti e ci voleva quello, quella scrittura, e a quel punto io accetto anche di parlare di genio, che è una parola che, peraltro, non mi piace molto, però a quel punto sì, lì sì.
Domenico Scarpa:
Beh, ma allora, proviamo a fare una domanda che ci faccia muovere un passo più in là o un tratto di linea telefonica più in là. Facciamo ronzare un altro nome. Tu citi una frase molto bella di un linguista russo – russo ma che parlava una decina di lingue e pure le scriveva – Roman Jakobson, il quale dice – lo dice in latino, io ve la dico in italiano: “Sono un linguista, nulla di ciò che è linguistico mi è alieno.” E Stefano dice, giustamente, che questa frase si adatta perfettamente a Primo Levi, al suo interesse appassionato e anche un po’ nevrotico per le parole, questa insistenza nel toccarle, nell’accarezzarle, nello scavarle, nel metterle alla prova, nel saggiarle – Il Saggiatore di Galileo – nel metterle alla prova. Ecco, se Primo Levi si trova di fronte l’impervio, dove arriva, fin dove può arrivare per Primo Levi il linguaggio? Esiste qualche cosa che, per sua natura, non è linguistico? Esiste qualcosa che, per sua natura, non può o non deve essere espresso in linguaggio? Oppure che non si deve assolutamente esprimere? C’è qualcosa che è intraducibile, c’è qualcosa che non è linguistico, contrariamente a quello che lui dice o vorrebbe o desidererebbe?
Stefano Bartezzaghi:
Ricordo anche che questa frase Jakobson la dice in un saggio che è la sbobinatura di un intervento a un convegno di linguistica e antropologia e la cosa è significativa perché la frase riprende Terenzio che dice “homo sum”, non è più linguista ma è uomo, sono uomo e quindi nulla di ciò che è umano mi è estraneo. Io non ritengo estraneo nulla di ciò che è umano a me. E Jakobson dice “sono linguista”, nulla che appartiene alla lingua mi è estraneo. La cosa che dico io è che per Levi le due frasi è come se collassassero una sull’altra, cioè “sono linguista, quindi nulla di ciò che è umano mi è estraneo” e “sono uomo, nulla di ciò che è linguistico mi è estraneo”. Sono praticamente la stessa cosa.
Domenico Scarpa:
Ti interrompo perché, visto che abbiamo citato Terenzio, c’è un punto dell’opera di Primo Levi – e può essere interessante dirlo adesso – in cui Levi fa un calco dal latino – le fonti saranno noiose ma sono divertenti – di Terenzio, e dice più o meno: “Uomo sono, a intervalli ho scritto anch’io poesie.” Uomo sono. Levi fa questo calco nel risvolto di copertina delle sue poesie Ad ora incerta, quindi in realtà l’“uomo sono”, il “linguista sono”, sono due frasi già inscritte nella testualità di Levi. Questo, Stefano, è un rilancio.
Stefano Bartezzaghi:
È un rilancio, ma hai risposto da solo alla tua domanda perché ciò che non si può dire, ciò che non si riesce a dire, eh, c’è la poesia! È la poesia, è il poetico, è la materia della poesia, è ciò che non può essere detto in prosa, ciò che non può essere detto altro che in poesia. È quello l’aspetto oscuro. Levi, ci sono proprio dei punti in cui lui dice: “Mi si è aperta davanti agli occhi una scena indescrivibile”, dopodiché la descrive. Ma come? Era indescrivibile! Eh no, siamo qui per quello, siamo scrittori potenziali e quindi siamo al lavoro e la potenzialità diventa atto.
È questo lo spettacolo, proprio il motore continuo, incessante dell’opera di Levi. Non riesce a dormire e cosa fa? Fa dei rebus, si mette a pensare dei rebus. Lui racconta a Dossena – dentro il libro c’è anche appunto questo testo semi-inedito in cui Dossena racconta gli incontri che aveva con Primo Levi – e questi rebus lui li faceva prima di dormire. Anziché dormire, diciamo. E, tra l’altro, questo è molto bello perché il rebus è proprio legato al sogno, alla dimensione del sogno fin dall’antichità, fin dai primi interpreti di sogni, dicevano questi sono un po’ come dei rebus, delle mescolanze di linguaggio e cose. E anche Freud dice: “Il sogno è un indovinello figurato”, cioè un rebus. Non dice “è come”, dice proprio “è un indovinello figurato”.
Levi lì cosa fa? Incomincia a pensare a dei rebus oppure fa i palindromi, e il suo protagonista dei racconti dei palindromi dice: “Mah, guardate un po’, mi viene questo palindromo, è un doppio decasillabo, bello, sonante, è un palindromo perfetto, e ha anche un po’ di senso.” Perché il senso poi viene anche dopo, lo si trova alla fine il senso. Ecco, c’è questa macchina inesausta che, secondo me, secondo Levi, è l’uomo, che continua a esperire il mondo e a descriverlo o costruirlo attraverso la propria scrittura e il proprio linguaggio, e che è sempre in rapporto con il linguaggio. Quando l’uomo guarda a sé stesso, come dice “l’inquilino del piano di sotto”, intendendo l’inconscio, trova delle cose difficili da dire, indicibili forse, delle cose inspiegabili, che non si riescono a condurre a ragione, e allora lì ci sono dei linguaggi speciali. Ecco, per esempio, la poesia o, nei momenti di particolare relax, il gioco.
Domenico Scarpa:
Ecco, io volevo citarlo per esteso quel palindromo al quale Stefano ha alluso, il decasillabo sonante e neanche privo di senso perché… “Eroina motore in Italia / ai latini erotomani or è.” Un palindromo, come potete sentire a orecchio e poi lo vedete de visu, visto che abbiamo deciso di parlare in latino, è una frase che si può leggere in entrambi i sensi. Da sinistra a destra, come facciamo di solito, e da destra a sinistra. Altra parola difficile, una frase “bustrofedica”, va avanti e indietro come i buoi quando tracciano i solchi nei campi, trascinando l’aratro.
Levi tracciava spesso i solchi sul campo della scrittura, in un verso e nell’altro, all’incontrario. Li tracciava con un’altra figura di cui vorrei parlare adesso, visto che stiamo parlando della lingua di Primo Levi. Vorrei parlare dell’ossimoro e vorrei parlare di un ossimoro che sta in un grande romanzo poliziesco che è di Simenon e si intitola Maigret e i testimoni reticenti. Levi è un testimone reticente? In lui c’è anche questo ossimoro? Quando lo è (e se lo è), è opportuno che lo sia, un “testimone reticente”?
Stefano Bartezzaghi:
Eh, qui Levi seleziona. Lui ha proprio un’immagine della composizione letteraria come di qualcosa che vada costruito in maniera molto attenta. Anche se dice di aver scritto alcuni dei suoi libri, tra cui Se questo è un uomo, in maniera molto fluida; un conto è la fluidità di scrittura quando stai scrivendo, un conto è la costruzione. E nella costruzione, per esempio, noi lo vediamo perché nella più recente – per ora – edizione delle opere complete di Primo Levi, per Einaudi ovviamente, Marco Belpoliti ha costruito una tabella e questa tabella è molto affascinante perché è l’ipertesto di Se questo è un uomo: sono tutti gli scritti, i punti in cui Primo Levi si riferisce a Se questo è un uomo in tutto il resto della sua opera.
Molto spesso lui ha continuato a scrivere fino all’ultimo racconti, aneddoti, e quasi anche dei bozzetti, no?, dei piccoli racconti significativi di cose successe durante la sua deportazione o, diciamo, nel periodo poi coperto da La tregua, della liberazione, però questo status di prigioniero in Russia in viaggio verso l’Italia. E in alcuni di questi racconti che lui ha fatto anche molto dopo ha detto,questo non c’è entrato in Se questo è un uomo, è entrato negli altri libri perché evidentemente in quei libri lui cercava, ha selezionato le cose da raccontare proprio per dare un’efficacia alla sua testimonianza. Noi non dobbiamo pensare che la sincerità consista nel dire tutto, come viene viene – questa è una forma di sciatteria della letteratura e della saggistica contemporanea: quest’idea della spontaneità, che è un’idea sbagliatissima, è veramente un grosso arretramento sul piano culturale. La testimonianza non è inficiata dal fatto di essere montata, pensata, selezionata, questo lo racconto, questo non lo racconto. Perché non è che la reticenza sia una censura… ah, questo non si può mettere! Dipende da cosa si racconta: se uno non racconta le cose che lo mettono in cattiva luce, per esempio, questo può essere umanamente comprensibile però inficia la testimonianza. Mentre invece se un magistrato, un giudice sotto giuramento mi chiede di descrivere i miei rapporti con Domenico Scarpa io non è che gli faccio la storia totale delle volte che ci siamo visti e parlati… scelgo qualcosa, no?, per significare, per dare un’idea di questo rapporto. Lo stesso ha fatto Primo Levi perché ha selezionato, ha raccontato alcune cose, altre cose non le ha raccontate perché riguardavano delle persone ancora viventi e, insomma, ha deciso volta per volta cosa andasse raccontato o cosa no. Non c’è nulla, secondo me, che lui non abbia raccontato perché non ha potuto, perché cioè non ha avuto lo strumento espressivo. Ecco, questa cosa della ineffabilità io non ci credo: lui poteva “effare” tutto, non ha scelto di “effare”, cioè catturare e mettere sulla pagina tutto e, ovviamente, dobbiamo rispettare questa sua decisione.
Domenico Scarpa:
Ecco, c’è una frase che a un certo punto tu scrivi che, più o meno, fa parte di questa area del libro, del trattamento degli episodi vissuti, del trattamento della realtà, dell’esperienza come uno la trasforma in scrittura, come uno esprime. E tu, addirittura, a questa frase dai un certo risalto perché la isoli fra due “a capo”. Ve la leggo, è brevissima perché è isolata: “La Musa” – maiuscolo – “è sempre riarrangiata dal Mestiere” – mestiere sempre maiuscolo.
Stefano Bartezzaghi:
Beh, sì perché, appunto, c’è un rapporto tra l’ispirazione, tra ciò che viene dettato dalla Musa – la Musa può essere anche memoria – e la sua traduzione sulla pagina. Io penso che sia un’esperienza, anche per chi compone un tema scolastico, no?, si pensa di avere tante cose o, al contrario, nulla da dire e succede qualcosa tra il pensiero e la scrittura perché poi scrivendo succede sempre qualcosa o in più o in meno. Ovviamente, quando a scrivere è uno scrittore, esiste anche il mestiere.
Queste due parole – Musa e Mestiere – erano maiuscole anche perché M ed M è un’allitterazione ed è un’allitterazione che Levi fa in una lettera a Gianpaolo Dossena. Dossena giocava a poker con i versi della letteratura italiana, no? Per cui “amor ch’a nullo amato amar perdona” [conta sottovoce] sono quattro ed è un poker di A che metteva in maiuscolo. Si chiamano allitterazioni – in termini dotti sarebbe un poker. E ne aveva trovati anche nell’opera di Primo Levi e Primo Levi allora scrive a Dossena e dice: “Mi aiuti a capire, io faccio questa cosa ma non so perché la faccio. Mi aiuta a capire se viene dalla Musa o se viene dal mestiere?” Cioè è una cosa che mi viene, appunto, da un’ispirazione oppure è proprio il mio lavoro di poeta che me lo fa fare? E, dicendo così, aveva fatta un’altra allitterazione, tra Musa e Mestiere. Sono le due polarità, non esiste scrittore a cui ne manchi una, insomma, se uno ha la Musa e non ha il Mestiere non scrive, se uno ha il Mestiere e non ha la Musa forse scrive ma noi non lo leggiamo.
Domenico Scarpa:
Ecco, noi che cerchiamo di essere più modesti non arriviamo al poker, facciamo tris perlomeno, quindi Musa, Mestiere, un’altra è Metafora. Io cercherei di, più o meno, finire con questo. Metafora: portare al di là, fare il salto oltre una barriera. Primo Levi e le metafore, tema della M ad libitum.
Stefano Bartezzaghi:
Primo Levi e le metafore. Primo Levi aveva un fecondo rapporto con la retorica, non pensava appunto che la retorica fosse un accidente, un accessorio – o forse poteva essere un accessorio ma abbiamo visto all’inizio che aveva un’idea forte della importanza degli accessori. E la metafora, regina delle figure retoriche, è il carburante ovvio, insomma, per un’immaginazione letteraria. Perché la metafora ci costringe a pensare qualcosa in maniera figurata, a dare una figura a quello che noi stiamo dicendo, a dare quindi un esempio pratico per tradurre quello che noi vogliamo dire e renderlo comprensibile agli altri, indicare una sensazione.
Levi aveva dei depositi, diciamo, di figure retoriche e il maggiore era sicuramente costituito da Dante Alighieri. Ecco, in Dante lui trova, nell’immagine – soprattutto, io ho trovato nell’ultimo canto del Paradiso, quindi l’ultimo canto dell’intera Commedia – il problema proprio dello scrittore che deve scrivere qualcosa. Per Dante è Dio, è la visione di Dio, è questa visione che già la visione lui non l’ha capita e poi, comunque, quello che ha capito non ha le parole per dirlo e combatte proprio contro la limitatezza dell’animo, dell’ingegno, dell’intelletto umano. C’è un testo che Levi scrive per una rivista di chimici in cui spiega ai chimici come è che in realtà lui continua a essere chimico anche facendo lo scrittore. Si chiama Ex chimico e, per una volta, è una specie di paradosso, è un’autocontraddizione; e dice: sapete, noi chimici conosciamo la materia, normalmente la gente ha in mente tre o quattro azzurri diversi, il cielo, il mare, ma noi quindi quando diciamo “azzurro” di azzurri ne abbiamo tantissimi di più perché lavoriamo proprio con la materia. La materia, tra l’altro, è ciò che non è metafora, è la fonte della metafora, sono due polarità. Allora, per lui ecco che la metafora diventa uno strumento conoscitivo, è sempre in rapporto con la conoscenza della realtà, non è quindi un ornamento, ma è come se fosse uno strumento ottico, la metafora, per vedere la realtà. E lì, parlando con i chimici e spiegando queste cose ai chimici, fa un passaggio, fa una citazione senza neanche dirlo, fa una citazione da Dante. Com’è possibile? Come pensava che loro potessero cogliere questa cosa? Per lui Dante era una cosa che faceva parte del territorio, del repertorio comune, proprio dell’enciclopedia che in quanto italiani condividiamo, una presenza quotidiana.
Ma proprio lì si trova una chiave, che poi è sparsa in tutta l’opera di Levi, per le cose che dicevamo all’inizio, ecco. Perché poi la maggiore delle metafore è proprio quella dell’”effabilità”, del fatto di prendere con il linguaggio delle esperienze che magari sono capitate soltanto a noi o che noi soltanto ci sentiamo in grado di descriverle e, nel caso di Dante, proprio anche di esperienze immaginarie di costruzione.
Domenico Scarpa:
Bene, direi che così abbiamo chiuso il cerchio, perché abbiamo dimostrato la necessità per Primo Levi, in Primo Levi, di ciò che è accessorio. E quindi, io direi alle persone presenti, che ringrazio di esserci state: procuratevi questo accessorio per leggere l’opera di Primo Levi. Intanto, vi annuncio la quarta Lezione Primo Levi che si terrà l’otto novembre – c’è un piccolo intervento, ma intanto io termino la frase per non lasciarla a metà se no il palindromo non lo riusciamo a fare neanche stavolta – e l’otto novembre verrà a parlare con noi, sempre nell’aula magna della Facoltà di Chimica, Mario Barenghi dell’Università di Milano-Bicocca, con un titolo che lasciamo in sospeso fino a novembre, un titolo che vi attanaglierà di curiosità: Perché crediamo a Primo Levi?
Intervento!
Bruno Contini, dal pubblico:
Se mi consentite vorrei raccontare di una telefonata con Primo Levi che ho avuto credo pochi mesi – non mi ricordo esattamente che anno fosse – pochi mesi prima della sua morte. Primo mi ha telefonato – io faccio il mestiere di economista – Primo mi ha telefonato dicendo: “Senti, Bruno, vorrei scrivere qualche cosa sull’economia di scambio dentro al lager.” Economia di scambio vuol dire baratto, no?, baratto di quelle piccole cose che alcuni riuscirono meglio di altri a procurarsi. Lui si procurava qualche cosa in quanto lavorava nella fabbrica chimica, ma c’erano tante altre persone che, in qualche modo, riuscirono a racimolare questo. E quindi c’era un baratto continuo dentro la… “Mi dai una mano? Mi aiuti a scrivere questo saggio?” Allora ci siamo visti una volta e io ho capito cosa avesse in mente Primo, ho pensato, gli ho detto: “Guarda, Primo, fammici pensare, secondo me la persona più adatta per aiutarti non sono io che mi occupo di tutt’altro, ma è Mario Ferrero, che è un altro suo giovane amico.” Lui ha detto: “Va bene, ci penso, parlo con Mario Ferrero.” Per quel che ne so io con Mario non ha mai parlato e dopo pochi mesi, mi sembra dopo pochi mesi, Primo si è tolto la vita.
Questo, secondo me, è un aspetto totalmente nuovo, e forse Primo avrebbe voluto in qualche modo chiarire. Io mi dolgo molto di non aver aderito alla sua proposta.
[applausi]
Domenico Scarpa:
Grazie a tutti!
Stefano Bartezzaghi:
Posso dire solo una…
Domenico Scarpa:
Di’, Stefano, dai!
Stefano Bartezzaghi:
Un minuto soltanto per dire che sono molto contento di questa testimonianza perché, lavorando per questo – e una piccola traccia c’è nel libro – io mi sono accorto, a un certo punto, che avrei voluto ri-rileggere tutto Primo Levi per prendere tutte le citazioni che riguardano il commercio perché in – per quanto riguarda il lager, ma non soltanto, pensiamo anche a quando parla dei suoi antenati negozianti tessili – il commercio è una vera semiotica all’interno della mentalità di Primo Levi. E poi, a un certo punto, ho rinunciato, perché mi sono reso conto che stavo facendo una seconda lezione e, quindi, se verrò rinvitato una volta parlerò del commercio in Primo Levi e potrò aggiungere anche questa testimonianza che mi sembra molto significativa ed è un rimpianto in più, ecco, per le cose che Primo Levi non è riuscito a scrivere. Grazie!