«Primo Levi ebreo», di Amos Luzzatto

Si propone qui il testo dell’intervento tenuto da Amos Luzzatto in occasione dell’incontro di studio Primo Levi ebreo, organizzato dal Centro e in collaborazione con la Comunità ebraica di Torino, il 6 maggio 2012, nell’ambito del programma di iniziative A venticinque anni dalla scomparsa - Primo Levi, sei incontri per ricordare e per pensare.

Prima di affrontare più propriamente il tema sarà bene premettere alcune brevi considerazioni sulla identità ebraica; e prima di tutto vorrei formulare una domanda: quando si usa questo termine si tratta di una caratteristica costante e stabile, che si era manifestata al momento in cui gli ebrei sono diventati un popolo, o per lo meno, se una qualche trasformazione vi è stata, si tratta di un processo “naturale”, necessario e uniforme, che giunge senza discontinuità fino ai nostri giorni e che non avrebbe potuto svolgersi altrimenti? Oppure si tratta di un processo storico che, in quanto tale, è composito e riconosce al suo interno correnti, movimenti, articolazioni diverse, al limite anche cambiamenti profondi?

Vi sono due risposte contrapposte a questa domanda.

La prima fa risalire l’attuale ortodossia ebraica alle origini storiche del popolo ebraico, come unica ed esclusiva evoluzione autentica dell’identità stessa.

La seconda risposta insiste invece sul pluralismo dell’Ebraismo originario e odierno e degli stessi meccanismi delle sue trasformazioni storiche.

Secondo la prima risposta potrebbe essere vana fatica quella di ricercare l’ebraicità originale di Primo Levi. Grande scrittore, nobile personaggio vittima e testimone della Shoà, ma tipico membro di una generazione “assimilata”, per la quale la cultura europea prevarrebbe nettamente su quella tradizionale ebraica. Ebreo, certo, ma più come conseguenza della concezione razzistica del nazismo e del fascismo, molto meno o per nulla per una formazione nei valori ebraici propri.

La seconda risposta insiste soprattutto sui percorsi diversificati che, per gli eventi della vita, per le persecuzioni e/o per le speranze nutrite, hanno spinto in un determinato momento il soggetto di cui discutiamo a riscoprire legami con la storia e la tradizione dei suoi padri. Questo “ritorno a casa” non si è verificato solo per Primo Levi; nel secolo a lui precedente una simile esperienza era toccata a Moses Hess, collaboratore di Karl Marx e poi soprannominato ironicamente “il rabbino comunista” e forse persino allo stesso Theodor Herzl.

Dopo l’Emancipazione l’Ebraismo italiano è andato rapidamente acquistando i caratteri di una congregazione religiosa minoritaria rappresentata soprattutto da un ceto medio commerciale e professionale, che si riconosceva nelle proprie tradizioni nelle ricorrenze, a volte anche per il Sabato, ma che si assimilava alla maggioranza nella vita di tutti i giorni. Esisteva anche un cospicuo ceto popolare soprattutto a Roma, Livorno, Trieste e Venezia, ma considerato per lo più come un problema sociale ed economico. La grande realtà ebraica dell’Europa centro-orientale era per lo più ignorata, certo non influente, almeno fino al termine della prima guerra mondiale.

Queste due realtà ebraiche erano destinate a incontrarsi (e a cominciare a conoscersi) nel XX secolo in due situazioni: nel territorio mandatario britannico, definito ufficialmente “Palestine – Falastin – Palestina (E.I.) dove il termine Erez Israel si limitava alle iniziali ed era posto fra parentesi); e – tragicamente – nelle deportazioni e nei campi di sterminio.

Questa seconda fu la situazione nella quale Primo Levi incontrò gli ebrei dell’est; non dai libri, dalle ricerche storiche, dalla letteratura; ma dalle comuni sofferenze e dalla quotidiana minaccia alla sopravvivenza.

La grandezza di Primo Levi fu anche la capacità – per dirlo con le sue stesse parole – di essersi mosso da questa sue esperienza alla ricerca delle proprie radici.

Questa ricerca affiora continuamente nei suoi scritti. Uno porta direttamente questo titolo.

Ma sbaglieremmo se dovessimo cercare nel suo lascito letterario analisi filosofiche o filologiche; in realtà “ricercare le proprie radici” è un vissuto nel quale si fondono ricordi, esperienze, descrizioni di persone con le loro contraddizioni che tuttavia, specie quando si parla di ebrei, fanno emergere le loro specificità, descrivere i loro profili, certo insistendo su preziosità di caratteri e di comportamenti, ma anche su aspetti negativi o quanto meno discutibili; il tutto presentato come qualcosa in cui lo stesso Levi si rispecchia e si riconosce; insomma, una specie di eredità di famiglia che resta comunque la propria famiglia, della quale l’autore si riappropria.
Facendo scoperte o riscoprendo. “Se non ora quando?” non è solo un titolo di un suo racconto, ma è un brano dei “Capitoli dei Padri” della Mishnà; la famosa poesia che inizia con  “voi che vivete sicuri”, quando dice “meditate che questo è stato” e fino a ”ripetetelo ai vostri figli” riecheggia lo Shema’.

Che cosa “riscopre” dunque Primo Levi, dopo la sua tragica esperienza?

Credo di poter rispondere – e dicendo “credo” non faccio un’affermazione categorica ma esprimo a mia volta un mio sentito – che egli riscopre il popolo ebraico e il fatto indiscutibile di appartenergli; - “dopo”, molto più di “prima”. Senza definizioni ideologiche, ma con una descrizione amorevole. Se potessi essere paradossale, direi che la sua appartenenza è ora tanto più forte quanto più ne conosce le debolezze e i difetti, non per trasformarli in meriti e neppure per trovar loro giustificazioni e attenuanti.

Solo perché in questa casa, detto quello che c’è da dire, senza dare voti o classifiche, si può e si deve dichiarare: sì, è casa nostra.

Amos Luzzatto


Accedi o registrati per inserire commenti