La ricezione di Primo Levi in Australia

di Mirna Cicioni

L'Australia non è quasi mai menzionata nelle opere di Primo Levi. La considerazione «L'Australia è molto lontana», all'inizio del racconto «Una stella tranquilla», è un esempio ironico– insieme a «un elefante è grande e una casa è ancora più grande, stamattina ho fatto un bagno caldo» - dell'inadeguatezza delle parole quotidiane a rappresentare una realtà al di fuori dell'esperienza quotidiana, come quella delle stelle nelle altre galassie.1«Una stella tranquilla»(Lilít), II, 77. C'è solo un altro riferimento, indiretto, in un racconto del 1977, «Cena in piedi».2«Cena in piedi»(La Stampa, 22 gennaio 1977), I, 1212-1216. Il racconto è una  una narrativa straniante, raccontata dal punto di vista di un canguro intelligente, ospite a una cena in piedi (di umani), che non riesce a comunicare con i padroni di casa e con gli altri ospiti né a capire la loro cultura e il loro comprtamento. Alla fine saltella giù per le scale e sparisce in Via Borgospesso, una delle più eleganti vie dello shopping milanese. 

La fortuna critica di Primo Levi in Australia può essere stata influenzata da quella che lo storico Geoffrey Blainey, nel titolo della sua monografia più famosa, definì «la tirannia della distanza», e precisamente la separazione geografica dell'Australia dall'Europa, e specificamente l'assenza di un collegamento diretto con la storia europea.3Geoffrey Blainey, The Tyranny of Distance: How Distance Shaped Australia's History. Sydney, Macmillan, 1967 (ultima ediz. 2001). Un altro fattore molto rilevante nella ricezione australiana di Levi possono essere anche le specificità demografiche della popolazione ebraica, e italiana, in Australia. 

In Australia ci sono oggi circa 120 mila ebrei su una popolazione di più di 20 milioni di abitanti. Gli ebrei sono stati tra i padri fondatori del Paese (tra i primi 1.500 prigionieri inviati in Australia, e arrivati nel 1788, c'erano 16 ebrei britannici); le comunità ebraiche in Australia, al giorno d'oggi, constano soprattutto di Askhenaziti che hanno lasciato la Germania e l'Europa dell'Est, in particolare all'inizio del XX secolo (in seguito ai pogrom in Russia e Polonia), dopo il 1945 e negli anni Novanta (dal Sudafrica e dall'ex Unione Sovietica). La popolazione italiana in Australia conta più di 850 mila individui. Piccoli gruppi di italiani si stabilirono in Australia nel corso del diciannovesimo secolo, e alcune famiglie ebree italiane arrivarono tra il 1938 – con l'entrata in vigore delle leggi razziali del governo fascista – e il 1945. La massa degli immigrati italiani in Australia, però, arrivò tra i primi anni Cinquanta e l'inizio dei Settanta, incoraggiata e assistita da una serie di governi australiani che cercavano manodopera non qualificata o poco qualificata per dare una spinta allo sviluppo industriale. Questi immigrati venivano soprattutto da piccoli centri nelle regioni più agricole, che all'epoca erano le meno sviluppate economicamente (Sicilia, Calabria, Puglia, Veneto) e avevano bassi livelli di scolarizzazione, tra l'analfabetismo e la quinta elementare.4Si veda The Australian People: An Encyclopedia of the Nation, Its People and Their Origin (a cura di James Jupp). Cambridge, Cambridge University Press, 2001.

Ciò significò che le opere di Levi in originale non potevano essere molto diffuse tra gli italiani in Australia fino a metà anni Ottanta, quando i dipartimenti di Italianistica delle università iniziarono a introdurne testi brevi, come racconti, poesie e brani di romanzi, nei corsi generali di letteratura italiana, e libri interi nei corsi di letteratura del secondo dopoguerra. Questo fu una conseguenza del «riposizionamento», in Australia così come in Italia e nel mondo, di Levi come scrittore, sulla scia della pubblicazione di Il sistema periodico (1975), La chiave a stella (1978) e Se non ora, quando? (1982), e della loro traduzione in altre lingue.5Cfr. Giovanni Tesio (a cura di), La manutenzione della memoria. Diffusione e conoscenza di Primo Levi nei paesi europei. Atti del convegno (Torino, 9-10-11 ottobre 2003). Torino, Centro Studi Piemontesi, 2005. Il titolo del volume è fuorviante, perché tra i saggi ce ne sono alcuni che riguardano la fortuna critica di Levi negli Stati Uniti, in Israele e in Turchia. In Australia, The Periodic Table (1984), If Not Now, When? (1985), The Wrench (1986) e The Drowned and the Saved (comparso postumo nel 1988) ebbero una ricezione favorevole, anche se non vendettero particolarmente bene. Dalla morte di Levi a oggi gli Istituti italiani di cultura a Sydney e Melbourne hanno organizzato vari eventi pubblici su Levi, dando all'intera comunità italiana una possibilità di apprezzare la varietà e il significato dei suoi scritti. C'è stato un interesse continuativo anche da parte delle organizzazioni culturali ebraiche. Il Jewish Holocaust Centre, il Jewish Museum of Australia, il Fondo Mandelbaum all'Università di Sydney e la Florence Melton Adult Mini-School (che tiene corsi avanzati per adulti a Melbourne) hanno organizzato lezioni e corsi su Levi e altri scrittori ebrei italiani. Oggi gli australiani colti, ebrei e no, sono a conoscenza della sua complessità come scrittore, e Levi è spesso menzionato insieme ad altri scrittori italiani del dopoguerra di fama mondiale, come Italo Calvino e Umberto Eco.  

Questo apprezzamento, comunque, è piuttosto monodimensionale: non c'è dubbio che la reputazione di Levi in Australia sia prima di tutto quella di una delle più potenti (forse la più potente) voci sulla Shoah. Fin dal 2006 Se questo è un uomo è nel programma per l'esame finale della scuola secondaria (che ha diversi nomi negli otto stati della Federazione Australiana). Quasi tutte le tesi universitarie su Levi si concentrano su aspetti e temi propri delle sue opere di memoria. Richard Freadman, un accademico di Melbourne le cui principali aree di ricerca sono la biografia e l'autobiografia, dà a Levi un posto di rilievo nel contesto del suo studio dell'autobiografia ebraica in Australia, This Crazy Thing a Life (2007). Freadman fa riferimento a Se questo è un uomo come un esempio primario di come l'arte approfondisca la testimonianza, rivelando molto di più di una qualsiasi narrativa testimoniale che non abbia scopi artistici. Inoltre discute anche l'influenza di Levi sulle opere di Jacob Rosenberg (1922-2008), nato in Polonia, sopravvissuto ad Auschwitz e tra i più noti e ammirati scrittori ebrei australiani, i cui due volumi autobiografici in lingua inglese (East of Time, 2005, and Sunrise West, 2007) sono considerati tra le più toccanti narrative di testimonianza pubblicate in Australia, per il loro linguaggio evocativo e per il complesso tessuto di riferimenti culturali.6Rosenberg ha scritto in Yiddish oltre che in inglese. Le sue opere sono state tradotte in polacco, ebraico moderno e russo.  

Nel 1998 Inga Clendinnen, una storica molto autorevole specializzata in culture Maya e Azteche, ha pubblicato Reading the Holocaust, un resoconto personale del suo contatto con la testimonianza e gli studi della Shoah. Clendinnen si era decisa a leggere sulla Shoah «come una lettrice e non come un'accademica», per provare a capire tanto le vittime quanto gli assassini, perché «solo una memoria disciplinata e critica resisterà l'erosione dei fatti e delle circostanze ad opera del tempo, dell'ideologia e dell'impulso umano naturale a dimenticare» (p. 206). Clendinnen tratta anche diffusamente di Levi, indicandolo come la sua più importante fonte di intuizioni: lui «trasforma le memorie in significato» (p. 59) perché descrive Auschwitz non solo con grande perizia letteraria, ma anche con un approccio quasi etnografico, come una società con i suoi propri segni e codici: «Levi è l'Erving Goffman dei campi, con il perturbante talento di Goffman nello scegliere il dettaglio che racchiude tutto l'insieme» (p. 48). 

In Australia, come altrove, le opere di memoria di Primo Levi sono diventate un parametro di autorevolezza sulla Shoah, non solo in letteratura e storia, ma anche in campi come le arti, il cinema e i dibattiti che incrociano inestricabilmente arte ed etica. Il pittore australiano David Rankin, nel 1988, ha intitolato una serie di dipinti a tema Shoah I sommersi e i salvati, in ossequio al libro che lo aveva commosso e turbato.7Si veda l'articolo di Louise Carbines «Painting Humanity's Horror», The Age (Saturday Extra), 15 ottobre 1988, p.13. Le mostre australiane dell'artista irlandese Thomas Delohery, il cui lavoro si focalizza sulla Shoah da tredici anni, e che riconosce Levi come una delle sue principali fonti di ispirazione, hanno avuto un buon pubblico; l'ultima (Shipwrecked in the Death Camps of Europe, esposta a marzo-aprile 2011 alla Tacit Contemporary Art Gallery di Melbourne) deve il titolo all'osservazione leviana che essere liberati dai campi era stata un'esperienza comparabile a quello di un naufragio. 

In Australia, come in Europa e negli Usa, Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati sono stati utilizzati come parametri di accuratezza storica e onestà intellettuale dai critici di due film sulla Shoah molto popolari, Schindler's List di Steven Spielberg (1993) e La vita è bella di Roberto Benigni (1997). Mark Baker e Robert Manne, due intellettuali ebrei della generazione post-Shoah, riconoscendo la potente intensità di Schindler's List affermano che il suo focalizzarsi su un'unica storia di salvataggi e bontà sia fuorviante, e che chi spera di comprendere la Shoah dovrebbe leggere autori che l'hanno studiata «con compassione e rigore» come Primo Levi e Hannah Arendt.8Robert Manne, «Too Much Sentiment, Too Little Reality», The Age, 16 febbraio 1994, p.14. Mark Baker afferma («Raiders of Schindler's Lost Ark», The Age, 12 febbraio 1994, p.17) che «ciò di cui la Shoah ha bisogno piú che di qualsiasi altra cosa, come ci ha detto primo Levi, è un nuovo linguaggio».  

E i confronti tra le testimonianze di Levi e La vita è bella sono stati ancor meno lusinghieri. «Primo Levi e Hannah Arendt potevano sbirciare nel cuore delle tenebre senza sussultare», scrive Manne nella sua recensione al film di Benigni. «Benigni non è uno di loro. Nella sua rappresentazione della Shoah non c'è vera tenebra né vero terrore».9Robert Manne, «Life Is Not So Beautiful», The Age, 15 febbraio 1999, p.13. Il giornalista Luke Slattery inizia la sua recensione con la descrizione leviana (dalle prime pagine della Tregua) della vergogna provata sia dai sopravvissuti, sia dai soldati russi, al momento della liberazione, in contrasto con il finale solare e trionfale di Benigni.10Luke Slattery, «Is a Holocaust Comedy a Bad Joke?»The Weekend Australian Review, 20-21 marzo 1999, p.2.

Allo stesso modo, negli ultimi 15 anni, le opere di memoria di Levi sono state citate e menzionate in una varietà di altri contesti, o con un focus generale sulle scelte etiche in situazioni di oppressione o – in modo più interessante – concentrandosi specificamente sull'etica della responsabilità nella storia e nella politica australiane.  

Un giovane ricercatore nel campo dei Cultural Studies, Adam Brown, esamina Levi in profondità nella sua tesi di dottorato del 2009, Representation and Judgement'Privileged' Jews in Holocaust Writing and Film. In questa tesi e in una serie di articoli,11Si vedano specialmente «The Trauma of 'Choiceless Choices': the Paradox of Judgement in Primo Levi's 'Grey Zone'», in Matthew Sharpe, Murray Noonan e Jason Freddi (a cura di), Trauma, History, Philosophy (Newcastle, Cambridge Scholars, 2007, pgg. 142-63) e «Confronting 'Choiceless Choices' in Holocaust Videotestimonies: Judgement, 'Privileged' Jews, and the Role of the Interviewer», in Mick Broderick e Antonio Traverso (a cura di), Interrogating Trauma: Collective Suffering in Global Arts and Media (Londra, Routledge, 2010, pgg. 79-90). Brown costruisce un'analisi sofisticata della nozione leviana di «zona grigia» e delle sue stesse ambiguità e incoerenze sulla possibilità di esprimere, o di astenersi da, un giudizio morale. Brown analizza quello che definisce il «paradosso del giudizio», a cui devono far fronte tutti coloro, Levi incluso, che ritraggono prigionieri «privilegiati»: se il giudizio sembra inopportuno, allo stesso tempo è inevitabile. 

Bob Carr, premier laburista dello stato del New South Wales tra il 1995 e il 2005, ha parlato di Levi più volte al Sydney Jewish Museum. Ha inserito Se questo è un uomo e La tregua in testa al suo libro del 2008 My Reading Life, che elenca 500 libri (dalla Bibbia al Gattopardo ai romanzi di spionaggio di John Le Carré) che considera «letture essenziali». Carr non fa menzione di altre opere leviane, ma afferma risolutamente che Se questo è un uomo è «il libro più importante del ventesimo secolo» perché «si erge come un monumento a tutti coloro che hanno abitato la terra battuta dietro il filo spinato sotto le più varie tirannie: le vittime del Marxismo come quelle del Fascismo; quelle delle dittature, europee e del terzo mondo; gli 800 mila morti del Ruanda; le vittime di Pol Pot, 2 milioni» (pp. 1-2).

La generalizzazione di Carr sulle «più varie tirannie» non si concilia con le differenziazioni che Levi ripetutamente fa tra i campi di concentramento nazisti e i gulag sovietici. Tuttavia i riferimenti ai genocidi in Africa e in Asia ricordano gli ammonimenti leviani di I sommersi e i salvati, che contiene anche una lista piena di rabbia simile a quella di Carr: «[gli] imitatori [del Nazismo, nda] in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud Africa» (Opere, II, 1098)

Carr, agnostico, prende in esame Se questo è un uomo – insieme ai Fratelli Karamazov e al romanzo Silenzio del giapponese Shusaku Endo (1966) – in un capitolo intitolato «Il silenzio», inteso come «il silenzio di Dio» di fronte al male. Veronica Brady, una suora cattolica che è anche un'accademica e un'attivista, guarda a Se questo è un uomo nel suo The God-Shaped Hole (2008), una serie di saggi su testi letterari che mostrano «un buco, un'interruzione, persino una ferita» nelle rappresentazioni di sofferenza e oppressione (p. xi). Proprio questo «buco», sostiene Brady, potrebbe essere il luogo dove Dio parla attraverso le voci delle vittime dell'oppressione, portando i lettori a trovare significati non solo a quello che esiste, ma anche a ciò che è andato perso o distrutto. Di conseguenza, per lei, l'episodio più significativo di Se questo è un uomo è il capitolo «Il canto di Ulisse», soprattutto quando la voce narrante di Levi cita il «com'altrui piacque dantesco». La citazione di PL è che il «così umano e necessario e pure inaspettato inacronismo» di Dante lo aiutava a intravvedere «forse le ragioni del nostro destino, del nostro essere qui oggi» (I, 111). Nella lettura di Brady di questo brano deliberatamente ambiguo, Levi è in grado di «intravvedere la possibilità di un ordine, di una giustizia e di una bontà oltre la storia e oltre la sua comprensione» (p. 26). Questa interpretazione metafisica si fa problematica di fronte al rifiuto di Levi di una qualsivoglia prospettiva religiosa, ripetuto in Se questo è un uomoI sommersi e i salvati e in varie sue interviste. Tuttavia Brady cita altri brani – come Charles che si prende cura in modo altruista e amorevole di Lakmaker nel capitolo «Storia di Dieci Giorni» - in cui il tema conduttore è la responsabilità di preservare la dignità dell'essere umano; gradualmente stabilisce un parallelo tra Levi, il «riconoscimento dell'altro» di Emmanuel Levinas e altri testi letterari australiani che mettono l'accento sulla responsabilità dei bianchi nell'esclusione e all'espropriazione degli Aborigeni, e chiedono un «nuovo ordine» di rispetto reciproco. 

Un capitolo del libro (parzialmente autobiografico) della giornalista e scrittrice Anne Deveson, Resilience (2003), è dedicato alla testimonianza di Levi sulla Shoah. Deveson definisce la «resilienza» come «l'abilità di affrontare l'avversità e trovare comunque speranza e significato nella vita» (p. 6) e la considera nel contesto di vari tipi di avversità: povertà, guerra, malattia, morte. Afferma che le opere di memoria di Primo Levi mostrano questa qualità in condizioni di estrema oppressione dove «avere resilienza [...] richiede una visione morale del mondo che rifiuta di essere distorta o annullata» (p. 110). Questa visione morale sfocia in una tensione etica tra l'astenersi dal «giudizio esplicito» e il praticare «un perdono indiscriminato». Deveson cita anche l'affermazione leviana (nella postfazione a Se questo è un uomo) che «un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico" (I, 175). Affermazione ripetuta anche in «Vanadio», dove Levi si dichiara pronto a perdonare i nemici «quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici» (I, 932). Deveson collega questa posizione agli appelli australiani al riconoscimento pubblico della responsabilità collettiva per i torti commessi ai danni delle popolazioni aborigene, e alla richiesta collettiva di scuse, come precondizioni necessarie alla riconciliazione tra gli oppressori e gli oppressi (pp. 120-21).12Il discorso di scuse collettive, che per quindici anni vari governi del conservatore partito liberale si sono ostinatamente rifiutati di fare, è stato infine fatto, in modo commovente, dal neo-eletto capo del governo laburista Kevin Rudd il 13 febbraio 2008.

Il bisogno di un'assunzione collettiva di responsabilità è anche uno dei temi dominanti di A Common Humanity, una monografia sull'etica di grande successo, pubblicato nel 1999 dal filosofo Raimond Gaita. Il punto di partenza di Gaita è quello che lui chiama «il valore prezioso (preciousness) di ogni singolo essere umano»; il concetto di preciousness non fa riferimento a discorsi religiosi sulla sacralità di ogni vita individuale, né a discorsi laici sul tema dei diritti umani, ma piuttosto sul modo in cui ciascuno reagisce all'umanità di un altro. In questo contesto Gaita fa numerosi riferimenti a Levi. Come Veronica Brady, anche Gaita cita la scena di Charles e Lakmaker alla fine di Se questo è un uomo, ricontestualizzandola come l'antitesi del suo concetto di «male», inteso come la totale mancanza di comprensione e compassione per l'altro. Come esempio di «male» cita la ben nota partita a calcio che si giocò ad Auschwitz tra una squadra di SS e una di Sonderkommmandos. Inga Clendinnen la interpretava come «un momento in cui esseri umani potevano, anche brevemente, riconoscersi tra loro come tali» (p. 86). Gaita controbatte, sottolineando che perché questo accadesse ci sarebbe stato bisogno di un qualche segno di senso di colpa da parte degli oppressori, del tutto assente, invece, dalla partita (p. 51).13Riguardo alla partita di calcio si veda anche Brown, «The Trauma of 'Choiceless Choices'», pgg. 59-61. In un saggio successivo intitolato «Breach of Trust: Truth, Morality and Politics», Gaita si riferisce a Levi nel contesto di una critica alla «mendacità» del concetto di «coalizione dei giusti» in risposta alle armi di distruzione di massa suppostamente detenute dall'Iraq, prima dell'invasione; e poi anche al trattamento dei rifugiati da parte del conservatore Partito Liberale Australiano, allora al governo. «La mendacità [...] può degradare la vita politica», sostiene, prima di citare un brano del racconto «Ferro», dal Sistema periodico, in cui la voce narrante leviana parla del «puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo» (I, 775). Nello stesso saggio cita nuovamente la scena di Charles e Lakmaker, questa volta riportandola ai dibattiti post-11 settembre sull'etica della tortura. 

«La tortura è la negazione radicale di quel che ci commuove nella storia di Levi. Un torturatore aggredisce quello che Charles riconosce in Lakmaker e che esiste in ogni essere umano. Ed è per questo che diciamo che la tortura degrada gli esseri umani a cose. Può umiliare qualcuno in modo così radicale che una persona che trattasse gli esseri umani torturati in modo totalmente umano, come se la loro umanità non fosse stata radicalmente diminuita, ci ispirerebbe la stessa meraviglia che ci ispira Charles» (p. 59).

Echi delle riflessioni leviane si ritrovano anche nelle richieste ripetute di Gaita, Manne e Anne Deveson – tra molti altri australiani – perché si abbia una richiesta di perdono specifica e simbolica ai membri delle «generazioni perdute», decine di migliaia di bambini australiani «parzialmente aborigeni»14Gli aborigeni australiani considerano aborigeno chiunque abbia almeno un antenato aborigeno. Fino alla metà degli anni 70 quasi tutti i funzionari governativi australiani parlavano di aborigeni «di razza pura»e «meticci». che tra il 1910 e il 1970 furono portati via a forza dalle loro famiglie e allevati in orfanotrofi o case-famiglia per «farne sparire il colore» per mezzo di matrimoni con altri aborigeni o con bianchi. La condanna di Gaita di questo programma («che esprimeva l'orribile e arrogante credenza che alcune persone possano eliminarne dalla terra altre che considerano meno che umane»15Gaita, A Common Humanity, p.123.  fa eco alla prefazione leviana a Se questo è un uomo: «Quando il dogma inespresso [che «ogni straniero è nemico"] diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager») (I, 5).

La memoria come fonte di significati per il presente fu anche il tema centrale di una disputa letteraria che divise lettori e critici australiani negli anni Novanta, e in cui Manne e Gaita presero fortemente posizione facendo riferimento alle opere di memoria di Primo Levi come parametro etico. Nel 1993 una giovane donna di nome Helen Darville – che si faceva chiamare Helen Demidenko – pubblicò un romanzo intitolato The Hand That Signed the Paper, che tenta di spiegare il collaborazionismo di molti ucraini con i nazisti negli anni Quaranta, come un atto di vendetta da parte degli ucraini per i torti subiti dai bolscevichi nel decennio precedente. Il romanzo ricevette due premi letterari prestigiosi e innescò un aspro dibattito sui sentimenti australiani nei confronti della Shoah. Molti lettori e critici condannarono i giurati dei premi per la loro indifferenza a quel che fu definito «antisemitismo» e «ambiguità morale» nel libro, mentre altri videro queste critiche come una campagna contro la libertà di parola messa in piedi dalla «lobby ebraica».16Fra le molte diverse analisi di questa disputa si vedano Robert Manne, The Culture of Forgetting – Helen Demidenko and the Holocaust (Melbourne, Text Publishing, 1996); Andrew Riemer, The Demidenko Debate (Sydney, Allen & Unwin, 1996); Sneja Gunew, «Performing Australian Ethnicity: 'Helen Demidenko'»in Wenche Ommundsen and Hazel Rowley (a cura di), From a Distance: Australian Writers and Cultural Displacement (Geelong, Deakin University Press, 1996), pgg. 159-71. Raimond Gaita citò Levi in una critica a Darville nel 1995, nel contesto dei concetti di «umanità», «male» e «sincerità». Gli scritti di Levi, affermava Gaita, «mostrano l'assurdità di Helen Darville» perché sono «sinceri», e cioè basati su «una comprensione che è inseparabile da un sentimento, seppure controllato» e su una «reverenza per ogni singola vita individuale di cui registrano il destino».17Raimond Gaita, «Remembering the Holocaust: Absolute Value and the Nature of Evil». Quadrant, 39/12 (dicembre 1995), p.15. Robert Manne scrisse un saggio, The Culture of Forgetting, analizzando la disputa e le proprie reazioni personali di ebreo australiano: 

«Avevo sempre dato per scontato che nella cultura intellettuale australiana esistesse una vaga conoscenza storica di ciò che successe durante la Shoah e una generale coscienza delle forze ideologiche che vi stavano dietro [...]. Avevo dato per scontato che tutti noi sapessimo che nessuno scrittore che valesse la pena leggere avrebbe osato scrivere sulla Shoah [...] senza riconoscere quali erano le implicazioni in gioco, non solo per gli ebrei ma per tutti gli esseri umani. E infine avevo dato per scontato che tutti gli australiani – non solo gli intellettuali – avrebbero trovato facile capire perché un evento come la Shoah debba importare profondamente a tutti i loro concittadini ebrei. Ma man mano che la disputa Demidenko proseguiva ho scoperto, in modo abbastanza improvviso, che nessuna di queste supposizioni era fondata» (pp. 105-107).

Uno dei testi che diede forma alle reazioni di Manne è un brano nel capitolo «Le nostre notti» in Se questo è un uomo: l'incubo ricorrente di Levi in cui lui racconta le sue esperienze ma i suoi ascoltatori non si curano di lui e lo abbandonano. Manne traccia un parallelo tra «l'incubo della dimenticanza da parte del mondo» in Levi e la sua paura che i significati della Shoah possano andare perduti o dimenticati nella cultura australiana. 

Le narrazioni leviane sulla conoscenza e sul mettersi alla prova sull'imparare e sul misurarsi (Il sistema periodicoLa chiave a stella; i saggi in L'altrui mestiere) e le sue narrazioni sul corpo (i suoi racconti brevi) hanno sollevato, in confronto, meno interesse in Australia, a parte le recensioni su giornali e periodici. Chi scrive sembra essere l'unica australiana ad aver preso in esame alcuni di questi aspetti delle opere di Levi.18Si vedano, fra l'altro, «'Familiarity with Proteus': Primo Levi's Sons and Daughters», in Richard Freadman e John Gatt-Rutter (a cura di), Life Writing and the Generations, numero speciale di a/b: Auto/Biography Studies, vol. 18, 1-2 (estate 2004), pgg. 33-45; «Tales of Toil and Trouble: an Intertextual reading of Giovannin Bongee, Tevye the Dairyman, and Tino Faussone», in Alastair Hurst e Tony Pagliaro (a cura di), Essays in Modern Italian and French Literature – In Recollection of Tom O'Neill (Melbourne, Spunti e ricerche, 2004), pgg. 29-39; «Primo Levi's Humour», in Robert C.S. Gordon (a cura di), The Cambridge Companion to Primo Levi (Cambridge, Cambridge University Press, 2007), pgg. 137-53; «Diasporic Dialogues: Primo Levi in Australia», in Monica Jansen e Raniero Speelman (a cura di), Jewish Migration: Voices of the Diaspora (Utrecht, Italianistica Ultraiectina, 2012), pgg.243-57. Tuttavia, David Shteinman – un ingegnere e industriale di Sydney che è anche stato il precedente direttore dell'Australian Philosophy Magazine – sta scrivendo una serie di saggi sulla filosofia del lavoro industriale moderno che comprendono ampi approfondimenti su La chiave a stella, comparata ad alcune opere di Joseph Conrad. 

L'apprezzamento delle qualità letterarie delle opere memoriali di Levi in Australia ha fatto sì non solo che fossero conosciute, studiate e citate in contesti legati alla Shoah, ma anche che portassero a nuove prospettive etiche e cognitive rispetto a questioni sociali e politiche australiane, come il riconoscimento delle responsabilità politiche, la contestazione delle giustificazioni alla tortura come «male necessario», l'accettazione della colpa e della vergogna collettive per i torti storici. E dal canto loro queste nuove prospettive hanno riaperto e riportato alla vita nel presente le riflessioni leviane, come contributi inestimabili all'analisi del potere e dei suoi abusi, dentro come fuori dalle mura dei campi di concentramento; contributi che aiutano a capire, come Levi stesso dice in apertura al suo I sommersi e i salvati, «quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà piú [...] [e] quanto è tornato o sta tornando» (II, 1004-5).


1«Una stella tranquilla»(Lilít), II, 77.
2«Cena in piedi»(La Stampa, 22 gennaio 1977), I, 1212-1216.
3Geoffrey Blainey, The Tyranny of Distance: How Distance Shaped Australia's History. Sydney, Macmillan, 1967 (ultima ediz. 2001).
4Si veda The Australian People: An Encyclopedia of the Nation, Its People and Their Origin (a cura di James Jupp). Cambridge, Cambridge University Press, 2001.
5Cfr. Giovanni Tesio (a cura di), La manutenzione della memoria. Diffusione e conoscenza di Primo Levi nei paesi europei. Atti del convegno (Torino, 9-10-11 ottobre 2003). Torino, Centro Studi Piemontesi, 2005. Il titolo del volume è fuorviante, perché tra i saggi ce ne sono alcuni che riguardano la fortuna critica di Levi negli Stati Uniti, in Israele e in Turchia.
6Rosenberg ha scritto in Yiddish oltre che in inglese. Le sue opere sono state tradotte in polacco, ebraico moderno e russo.
7Si veda l'articolo di Louise Carbines «Painting Humanity's Horror», The Age (Saturday Extra), 15 ottobre 1988, p.13.
8Robert Manne, «Too Much Sentiment, Too Little Reality», The Age, 16 febbraio 1994, p.14. Mark Baker afferma («Raiders of Schindler's Lost Ark», The Age, 12 febbraio 1994, p.17) che «ciò di cui la Shoah ha bisogno piú che di qualsiasi altra cosa, come ci ha detto primo Levi, è un nuovo linguaggio».
9Robert Manne, «Life Is Not So Beautiful», The Age, 15 febbraio 1999, p.13.
10Luke Slattery, «Is a Holocaust Comedy a Bad Joke?»The Weekend Australian Review, 20-21 marzo 1999, p.2.
11Si vedano specialmente «The Trauma of 'Choiceless Choices': the Paradox of Judgement in Primo Levi's 'Grey Zone'», in Matthew Sharpe, Murray Noonan e Jason Freddi (a cura di), Trauma, History, Philosophy (Newcastle, Cambridge Scholars, 2007, pgg. 142-63) e «Confronting 'Choiceless Choices' in Holocaust Videotestimonies: Judgement, 'Privileged' Jews, and the Role of the Interviewer», in Mick Broderick e Antonio Traverso (a cura di), Interrogating Trauma: Collective Suffering in Global Arts and Media (Londra, Routledge, 2010, pgg. 79-90).
12Il discorso di scuse collettive, che per quindici anni vari governi del conservatore partito liberale si sono ostinatamente rifiutati di fare, è stato infine fatto, in modo commovente, dal neo-eletto capo del governo laburista Kevin Rudd il 13 febbraio 2008.
13Riguardo alla partita di calcio si veda anche Brown, «The Trauma of 'Choiceless Choices'», pgg. 59-61.
14Gli aborigeni australiani considerano aborigeno chiunque abbia almeno un antenato aborigeno. Fino alla metà degli anni 70 quasi tutti i funzionari governativi australiani parlavano di aborigeni «di razza pura»e «meticci».
15Gaita, A Common Humanity, p.123.
16Fra le molte diverse analisi di questa disputa si vedano Robert Manne, The Culture of Forgetting – Helen Demidenko and the Holocaust (Melbourne, Text Publishing, 1996); Andrew Riemer, The Demidenko Debate (Sydney, Allen & Unwin, 1996); Sneja Gunew, «Performing Australian Ethnicity: 'Helen Demidenko'»in Wenche Ommundsen and Hazel Rowley (a cura di), From a Distance: Australian Writers and Cultural Displacement (Geelong, Deakin University Press, 1996), pgg. 159-71.
17Raimond Gaita, «Remembering the Holocaust: Absolute Value and the Nature of Evil». Quadrant, 39/12 (dicembre 1995), p.15.
18Si vedano, fra l'altro, «'Familiarity with Proteus': Primo Levi's Sons and Daughters», in Richard Freadman e John Gatt-Rutter (a cura di), Life Writing and the Generations, numero speciale di a/b: Auto/Biography Studies, vol. 18, 1-2 (estate 2004), pgg. 33-45; «Tales of Toil and Trouble: an Intertextual reading of Giovannin Bongee, Tevye the Dairyman, and Tino Faussone», in Alastair Hurst e Tony Pagliaro (a cura di), Essays in Modern Italian and French Literature – In Recollection of Tom O'Neill (Melbourne, Spunti e ricerche, 2004), pgg. 29-39; «Primo Levi's Humour», in Robert C.S. Gordon (a cura di), The Cambridge Companion to Primo Levi (Cambridge, Cambridge University Press, 2007), pgg. 137-53; «Diasporic Dialogues: Primo Levi in Australia», in Monica Jansen e Raniero Speelman (a cura di), Jewish Migration: Voices of the Diaspora (Utrecht, Italianistica Ultraiectina, 2012), pgg.243-57.
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