In ricordo di Ernesto Ferrero (Torino, 6 maggio 1938 - 31 ottobre 2023)

Dalla primavera del 1963 a questo autunno del 2023, gli anni di lavoro per Ernesto Ferrero hanno fatto in tempo a superare la soglia dei sessanta: e tutti, dal primo all’ultimo, li ha dedicati al lavoro editoriale e dunque in massima parte ai libri altrui. Era appena assunto in casa Einaudi quando sulla sua scrivania di addetto stampa trovò le bozze del secondo libro di un chimico torinese: il racconto di un lungo viaggio di ritorno attraverso l’Europa, da Auschwitz a quella Torino che per entrambi era il luogo di nascita.

La tregua di Primo Levi fu il primo libro di cui Ferrero dovette occuparsi, e fu l’atto di nascita di un’amicizia il cui primo documento pubblico sono le foto in bianco e nero che lo mostrano accanto all’autore: a Venezia, per il Premio Campiello edizione numero uno assegnato proprio a Levi. Fu il segno di un destino, forse non riconoscibile sull’istante. Oggi sappiamo che quel ragazzo inappuntabile e attento, che in quelle immagini mostra un viso liscio, quasi da bambino, avrebbe avuto tempo di manifestare non solo i suoi talenti di redattore editoriale, di interlocutore di scrittori italiani e stranieri, di dirigente editoriale (nella medesima casa editrice Einaudi, fra l’altro), di responsabile di prestigiose imprese culturali (la direzione, fra il 1998 e il 2016, del Salone del Libro di Torino), di traduttore (e di autori poi, come Céline, di impervia difficoltà), di giornalista e di critico letterario (è del 1972 la sua prima monografia, dedicata a Gadda), ma anche di scrittore in proprio, fin da quel Dizionario dei gerghi della malavita dal ‘500 a oggi la cui prima versione, pure del 1972, gli valse l’elogio di Giorgio Manganelli.

I libri di Ferrero nel ruolo di scrittore creativo, di inventore e ricostruttore di storie, sono nel loro insieme una affascinante cavalcata nella storia e nella geografia italiana ed europea: da Gilles de Rais al finto pellerossa Cervo Bianco, dalle saghe di Emilio Salgari a quella della Juventus, dalla minuziosa ricostruzione dei fatti di San Francesco d’Assisi alle memorie, appassionate e saporose, del mondo editoriale e in particolare di casa Einaudi che gli regalò – è un suo titolo proverbiale, del 2005 – I migliori anni della nostra vita, la sua vicenda di autore s’impone alla memoria così come il suo N. si impose nel 2000 al Premio Strega. Ed è in quel libro che occorre cercare il suo autoritratto più fedele, nella figura di Martino Acquabona, il savio, il segretamente ironico, il disilluso amante del buon vivere nonché bibliotecario dell’imperatore Napoleone Bonaparte durante l’ultima circoscritta avventura di N. quale regnante sull’Isola d’Elba.

Ernesto Ferrero ha fatto in tempo a vedere pubblicato, poche settimane fa e ancora da Einaudi, il suo ultimo e luminoso libro: Italo, dedicato all’amico e collega Calvino. Se però si è parlato, al principio, di segni del destino è perché a Primo Levi – all’autore che incontrò per primo, sessant’anni fa – Ferrero si è dedicato con una generosità e un acume nei quali il mestiere editoriale, la visione dell’organizzatore di cultura, la finezza del lettore di professione e lo slancio dell’amico si fondono e si moltiplicano più che sommarsi. Ferrero ha seguito, in qualità di redattore, molti libri di Levi, a cominciare da Il sistema periodico. Subito dopo la scomparsa di Levi, tra il 1987 e il 1990, ha promosso e curato per Einaudi la prima raccolta delle sue opere in tre volumi, nella collana «Biblioteca dell’Orsa». Nel 2007 ha stampato, pure da Einaudi, un breve profilo biografico di Levi che è a tutt’oggi la lettura-base sull’autore. Ha allestito, nel 2014, l’antologia di racconti primoleviani sugli animali, Ranocchi sulla luna, che è una intelligente e fantasiosa invenzione editoriale, e a Levi ha dedicato decine di interventi, di saggi, di articoli, di scritti di memoria, il cui insieme costituisce una delle più importanti restituzioni critico-biografiche di questo autore noto in tutto il mondo.

Ma il Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino si trova oggi, 31 ottobre 2023, a ricordare Ernesto Ferrero perché in buona parte deve proprio a lui la sua esistenza: la deve anche alla sua signorile capacità di unire le persone più diverse in vista di un obiettivo buono, ragionevole e difficile. Del Centro Primo Levi, Ernesto Ferrero è stato Vicepresidente dalla fondazione nell’aprile 2008 fino al maggio 2012, ne è stato poi Presidente fino al dicembre del 2020 e Presidente onorario fino a oggi. Per oltre quindici anni Ernesto ci ha accompagnato e sostenuto, per un tempo che occupa dunque più di un quarto della sua vita lavorativa. Il Centro lo saluta con dolore, con rimpianto, con affetto, e anche con la certezza che la sua presenza nel lavoro da svolgere di qui in avanti sarà una presenza concreta e visibile.

 

Il Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino ricorda Ernesto Ferrero riproponendo la parte iniziale della sua conferenza Primo Levi antropologo della normalità, pronunciata a New York nell'ottobre 2009.

Vorrei partire da un piccolo episodio personale. Ho conosciuto Primo Levi nel febbraio 1963, un mese prima dell’uscita de La tregua. Ero appena entrato all’ufficio stampa della casa editrice Einaudi, e non avevo ancora letto Se questo è un uomo, rifiutato da Einaudi nel 1947 e poi invece pubblicato nel 1958 in una nuova edizione con una trentina di pagine nuove. Non sapevo niente di lui, ma mi bastarono le prime tre pagine per capire che avevo tra le mani un grande libro di grande letteratura.

Diventammo amici, sia pure al modo in cui lo sono molti torinesi. Con riserbo, spendendo poche parole, facendo le cose che c’erano da fare senza parlarne troppo. Io cercavo di trasmettere ai recensori il mio e nostro entusiasmo ad ogni suo nuovo libro che usciva, ma non ce n’era bisogno. I libri di Primo la strada se la trovavano benissimo da soli. Più della critica, contavano i lettori, il bocca-a-bocca.

Ci vedevamo soprattutto in casa editrice. L’unica sera in cui mia moglie ed io riuscimmo ad averlo ospite a cena (non poteva e non voleva abbandonare la madre molto anziana, ospitata a casa sua, costretta al letto da anni) Primo portò in dono a nostra figlia bambina una cavia di peluche. Lo disse lui, che era una cavia, perché non avrei saputo dare un nome esatto al tenero batuffolo bianco e marrone chiaro. Ci commosse (ma non sorprese) il fatto che fra tanti altri animali di peluche più ovvii, come gli orsi e gli scoiattoli, lui fosse andato a scovare chissà dove proprio una cavia.

Non era un’autorappresentazione simbolica. Primo non metteva mai avanti se stesso, in questo assai simile all’amico Italo Calvino, che preferiva le posizioni defilate, in secondo piano, e come il Barone rampante guarda il mondo dai rami di un albero: un ottimo punto d’osservazione. Anzi, se mai Primo ha sempre cercato di occultare le proprie tracce, presentandosi come scrittore della domenica, chimico che scrive, dilettante senza pretese. Temeva l’aggressività dell’ambiente letterario, temeva d’essere considerato un intruso perché per campare dirigeva una fabbrica di vernici isolanti. Così ha accreditato lui stesso la leggenda di Se questo è un uomo come libro che s’era fatto quasi da solo, nato dall’urgenza di dire, raccontare, rendere testimonianza. Mentre, al contrario, è una costruzione meditata, progettata ed eseguita con rigore professionale, anche se l’autore all’epoca aveva ventisette anni.

Torniamo alla cavia. Quando la vidi, pensai alla frase di un sopravvissuto di Hiroshima, che Elsa Morante aveva voluto mettere in epigrafe al suo romanzo La Storia: “Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”.

Primo era d’accordo con Aldous Huxley: un romanziere dovrebbe essere uno zoologo, o comunque tenere in casa molti animali. Da loro c’è sempre da imparare. Tra le tante cose che era, Primo era anche un attento osservatore di comportamenti animali, un etologo. Mi piacerebbe raccogliere in volume i racconti e le poesie che ha dedicato agli animali. Non a caso le ultime cose che ha scritto sono proprio tre dialoghi con un gabbiano, una giraffa, un ragno femmina, ognuno di essi portatori di un modo di stare al mondo.
Certo, Primo era stato uno dei tanti animali da laboratorio su cui i nazisti (ma diciamo pure i tedeschi) avevano condotto i loro immondi esperimenti di distruzione della personalità, prima ancora che della corporalità. Lui non si era lasciato annientare, non era stato né passivo né rassegnato né complice.

Il neo-laureato partito per Auschwitz aveva impegnato ogni energia intellettuale, tutta la sua cultura già solida ed estesa, nutrita di scienza e tecnica, ma soprattutto di Dante, tutta la sua capacità d’osservazione per imprimere nella mente ogni dettaglio significativo dell’atroce esperienza, e poterlo poi restituire a tempo debito.

Con la sua cavia, Primo voleva attirare la nostra attenzione sul destino di tanti esseri viventi straziati senza colpa. Voleva dire che anche gli animali, le cose, gli oggetti più umili sono, per chi abbia mente e cuore per guardali, una fonte d’infinita meraviglia e delizia. Persino i marciapiedi cittadini sono degni d’osservazione, e rivelano un quantità di dettagli sui comportamenti degli abitanti. Persino la spregevole tenia, povero essere cieco costretto ad inventarsi una laboriosa nicchia di sopravvivenza nell’intestino degli uomini, è ammirevole per la creatività con cui interpreta il copione del dramma darwiniano. Questa curiosità, che poi era una speciale capacità di saper vedere (altro tratto che Levi divide con Calvino) è riaffermata esplicitamente in un racconto inedito scritto pochi mesi prima di morire, in cui Primo spiega in una sorta di lettera scientifica di stile settecentesco come mai, bollendo, un uovo diventa sodo, invece di liquefarsi. Ebbene, dice Levi:

Finché avrò vita, continuerò a meravigliarmi non solo delle uova, ma anche delle mosche, delle moschee, dei poliedri, dei granelli di polvere dei ciottoli dei torrenti… Non esiste oggetto che non desti meraviglia o curiosità, purché sia esaminato con l’occhio e fuoco e con sufficiente ingrandimento.


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