Calvino, Manzoni e la zona grigia - Carlo Ginzburg
1.
Prima di tutto un ricordo, un’immagine: Primo Levi e Calvino che camminano fianco a fianco, in un crepuscolo d’estate, parlando animatamente (Calvino più alto) lungo la strada che va verso il villaggio di Rhêmes Notre-Dame. A Rhêmes, una piccola valle laterale della Val d’Aosta, s’incontravano ogni estate i collaboratori e gli amici della casa editrice Einaudi; le discussioni duravano una settimana circa1Per un affettuoso ricordo di quegli incontri si veda E. Ferrero, Rhêmes o della felicità, Courmayeur 2008. . Quella fu l’unica volta in cui, almeno me presente, vi partecipò Primo Levi; sarà stato il 1980 o 1981. Il senso di quella immagine stampata nella memoria mi si chiarì retrospettivamente quando, nel 1982, uscì da Einaudi la Petite cosmogonie portative di Raymond Queneau, tradotta da Sergio Solmi. Nella «Piccola guida alla Piccola Cosmogonia» che concludeva il volume Calvino ringraziò Primo Levi «che col suo sapere professionale di chimico e l’agilità del suo sense of humour è riuscito a venire a capo di molti passi che mi restavano inaccessibili»2R. Queneau, Piccola cosmogonia portatile, trad. di S. Solmi, seguita da “Piccola Guida alla Piccola Cosmogonia” di I.Calvino, Torino 1982, p. 162. Calvino vi lavorò tra il 1978 e il 1981: cfr. la nota a I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, I, Milano 1991, p. LXXXIV. Ma gli scambi epistolari tra Levi e Calvino attorno alla Petite cosmogonie portative continuarono: vedi I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introd. C. Milanini, Milano 2000, pp. 1534-35 (lettera del 30 aprile 1985). . In una recensione entusiasta dedicata alla Petite cosmogonie Levi definì la «Piccola guida» di Calvino «acutissima»3P. Levi, L’altrui mestiere, Torino 1985, pp. 150-54, in particolare p. 153. . E nel 1986 ricordò pubblicamente il lavoro fatto «con felicità, con divertimento» a Rhêmes Notre-Dame attorno a Queneau come «l’ora più felice» del proprio sodalizio con Calvino, morto l’anno prima4P. Levi, “Calvino, Queneau e le scienze”, in Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, II, pp. 1344-46 (e vedi G. Poli e G. Calcagno, Echi di una voce perduta, Milano 1992, pp. 329-31). L’intervento di Levi rispondeva a una richiesta di Calvino legata alla pubblicazione della propria traduzione di Le chant du Styrène di Queneau: cfr. I. Calvino, Lettere cit., pp. 1539-41 (10 agosto 1985). .
Il chimico che aveva aiutato Calvino a decifrare le ardue allusioni di Queneau alla tavola di Mendeleev, era anche l’autore de Il sistema periodico (1975): il bellissimo libro in cui la tavola degli elementi viene usata come metafora dei modi svariati di impersonare la condizione umana5«C’è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri» (“Ex chimico”, in L’altrui mestiere cit., p. 13). E vedi Il sistema periodico, Torino 1975, p. 45: «Sandro sembrava fatto di ferro, ed era legato al ferro da una parentela antica»; p. 47: «più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e diprepararmi) per un avvenire di ferro». Andrà corretta dunque l’affermazione di Calvino che individua in “Argon” «il solo capitolo [del Sistema periodico] in cui l’elemento chimico sia metaforico» (I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Torino 1991, p. 606, lettera del 12 ottobre 1974). . Ma è possibile rintracciare nell’ambito dei rapporti umani un equivalente non metaforico della tavola di Mendeleev? Nella sua ricerca dei «legami trasversali che collegano il mondo della natura con quello della cultura» Primo Levi si pose implicitamente una domanda del genere e cercò una risposta6P. Levi, L’altrui mestiere cit., p. VI. .
2.
L’Antologia personale che Levi intitolò La ricerca delle radici (1981) si apre con Giobbe. «Perché incominciare da Giobbe?» si chiede Levi. E risponde: «perché questa storia splendida e atroce racchiude in sé le domande di tutti i tempi, quelle a cui l’uomo non ha trovato risposta finora né la troverà mai, ma la cercherà sempre perché ne ha bisogno per vivere, per capire se stesso e il mondo. Giobbe è il giusto oppresso dall’ingiustizia»7P. Levi, La ricerca delle radici. Antologia personale, Torino 1981, p. 5. .
Giobbe dunque è “l’uomo” in generale: ma in queste frasi risuona un accento autobiografico, che diventa evidente poche righe dopo, quando si dice che Giobbe, il giusto, viene «degradato ad animale da esperimento» dalla scommessa tra Satana e Dio. In un passo, poi diventato famoso, di Se questo è un uomo Levi aveva parlato di Auschwitz come di un esperimento,
una gigantesca esperienza biologica e sociale.
Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi e siano quivi sottoposti a un regime di vita identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni: è quanto di più rigoroso uno sperimentatore avrebbe potuto istituire per stabilire che cosa sia essenziale e che cosa acquisito nel comportamento dell'animale-uomo di fronte alla lotta per la vita8P. Levi, Se questo è un uomo, in Opere cit., I, p. 83. E vedi l’introduzione di D. Del Giudice, p. LXII, che riprende la definizione di Levi come «grande etnografo» data da C. Lévi-Strauss. Sul «carattere sperimentale dei Lager» Levi tornò in “Arbeit Macht Frei” (1959: ivi, I, p. 1121). E vedi M. Bucciantini, Esperimento Auschwitz, Torino 2011.
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Dunque Giobbe (lo notò subito Calvino) rinvia ad Auschwitz9«Direi che è proprio la presenza di Giobbe in apertura di questa “ricerca delle radici” a ricordarci che l’itinerario di Primo Levi passa per il campo di Auschwitz» (recensione apparsa su «la Repubblica», 11 luglio 1981: ora in La ricerca delle radici, nuova ediz., introduz. di M. Belpoliti, Torino 1997, p. 240). . Ma già da qualche anno Primo Levi aveva cominciato a chiedersi se la contrapposizione, incarnata nella figura di Giobbe, tra il giusto e l’ingiustizia fosse stata, anche ad Auschwitz, sempre così netta. «Pare che sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che separa le vittime dai carnefici, e di farlo con mano più leggera, e con spirito meno torbido, di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni recenti film ben noti», scrisse nell’introduzione a La notte dei Girondini, il racconto di Jacob Presser da lui tradotto10P. Levi, prefazione a J. Presser, La notte dei Girondini, Milano 1976, pp. 13-14 (Opere cit., II, pp. 1208-1211; il riferimento è al film Il portiere di notte di L. Cavani, uscito nel 1974). . Nel 1979 in un’intervista Levi parlò di un progetto che avrebbe implicato «una presa di posizione nei confronti dell’ambiguità»11P. Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, p. 158 (intervista con G. Arian Levi, «Ha Keillah», febbraio 1979). . E nello stesso anno, in un’altra intervista, spiegò che voleva tornare sull’esperienza del Lager «dopo tutte le polemiche dell’identificazione della vittima con l’oppressore, il tema della colpa, dell’estrema ambiguità che c’era, di questa fascia grigia che separava gli oppressi dagli oppressori».
È l’annuncio de «La zona grigia», il densissimo capitolo dell’ultimo libro di Levi, I sommersi e i salvati; ma il tema (non la metafora) era già presente nel suo primo libro, Se questo è un uomo, nel capitolo intitolato «I sommersi e i salvati»12P. Levi, I sommersi e i salvati (1986), in Opere cit., II, pp. 1006-44; Se questo è un uomo, ivi, I, pp. 83-96. In una redazione anteriore di Se questo è un uomo il titolo “I sommersi e i salvati” era quello del secondo capitolo, che poi diventò “Sul fondo”: cfr. Ph. Mesnard, Primo Levi. Le passage d’un témoin, Paris 2011, p. 188. . A quasi quarant’anni di distanza il titolo di un capitolo diventò il titolo di un libro, con cui si chiuse la parabola letteraria (e di lì a poco la vita) di Primo Levi. Ma il tono dei due testi è diversissimo. Il capitolo di Se questo è un uomo è scritto da un testimone che ricorda; il capitolo di I sommersi e i salvati da un testimone che riflette. La distanza temporale dagli eventi è rafforzata da un filtro letterario, I Promessi sposi, che occupavano la mente di Levi già al tempo dell’intervista del 1979:
quando Renzo Tramaglino minaccia don Abbondio col coltello [...] Manzoni osserva che l’oppressore, don Rodrigo, è responsabile anche delle minori oppressioni fatte dalle sue vittime. È un tema che conosco molto bene. È un errore stupido il vedere tutti i demoni da una parte e tutti i santi dall’altra. Invece non era così [...] Il dividere in bianchi e neri vuol dire non conoscere l’essere umano13P. Levi, intervista con G. Grassano (1979), in Conversazioni e interviste cit., pp. 167-83, soprattutto pp. 180-81. .
Echi, diretti o indiretti, dai Promessi sposi compaiono molto spesso negli scritti o nelle interviste di Primo Levi. Ma questo passo di Manzoni, evocato nell’intervista del 1979, e poi citato nel capitolo «La zona grigia» de I sommersi e i salvati, ha un’importanza speciale. Levi sceglie Manzoni come guida per inoltrarsi sul terreno scivoloso dell’«ambiguità», anzi dell’«estrema ambiguità», verso un tema che affonda le sue radici nell’esperienza vissuta ad Auschwitz. Perché Manzoni?
3.
Per il giovane Primo Levi «la chimica e la fisica... erano [stati] l’antidoto al fascismo» perché costringevano a risposte nette, o sì o no. «Il Professor D.», si legge nel capitolo «Ferro» de Il sistema periodico,
consegnava ad ognuno di noi un grammo esatto di una certa polverina: entro il giorno successivo bisognava completare l’analisi qualitativa, e cioè riferire quali metalli e non-metalli c’erano contenuti. Riferire per iscritto, sotto forma di verbale, di sì o di no, perché non erano ammessi i dubbi né le esitazioni: era ogni volta una scelta, un deliberare; un’impresa matura e responsabile, a cui il fascismo non ci aveva preparati, e che emanava un buon odore asciutto e pulito14P. Levi, Il sistema periodico cit., pp. 44, 39-40. .
Il sistema periodico degli elementi chiede risposte nette: «il mestiere del chimico consiste in buona parte» nel distinguere piccole differenze, come quelle tra il sodio e il potassio, che sono quasi uguali; e «non solo il mestiere del chimico» concludeva Primo Levi nel 197515Ivi, p. 63. Il passo è citato, in una prospettiva diversa, da C. Cases, “L’ordine delle cose e l’ordine delle parole” (1987), in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Torino 1997, p. 7. . Ma questa convinzione di poter estendere le risposte nette dal mondo della chimica al mondo umano era destinata a incrinarsi di lì a pochissimo, corrosa dalla riflessione incessante di Primo Levi sull’esperienza di Auschwitz. «I nuovi arrivati in Lager, giovani e no» avevano imparato subito che tra gli oppressori e gli oppressi esisteva una zona ambigua, abitata da oppressi privilegiati che, in misura maggiore o minore, collaboravano con l’oppressore. Ambiguità non è differenza (non ci sono ambiguità nel sistema periodico degli elementi). L’oppresso che opprime è un essere ambiguo, un ossimoro: «[quasi certamente] la figura stilistica regia, per frequenza e qualità, dell’opera di Levi» come ha dimostrato in maniera illuminante Pier Vincenzo Mengaldo, rinviando anche alla zona grigia16P.V. Mengaldo, “Lingua e scrittura in Levi”, ibid., pp. 233-42; il rinvio alla zona grigia è a p. 238. .
Nel 1976 Levi si chiese: «È giudicabile Cohn?» (Cohn è un personaggio della Notte dei Girondini di Presser: l’ebreo che si mette al servizio dei nazisti organizzando gli invii a Sobibór). E rispose: «Ebbene, il senso del libro [di Presser] è che Cohn è giudicabile»17P. Levi, prefazione a J. Presser, La notte dei Girondini cit., p. 14. . Dieci anni dopo, ne I sommersi e i salvati, riflettendo su persone reali che avevano collaborato con i nazisti, Levi diede una risposta diversa: «davanti a casi umani come questi è imprudente precipitarsi ad emettere un giudizio morale». E qui inserì, in posizione strategica, la citazione dai Promessi sposi anticipata nell’intervista di qualche anno prima:
Lo sapeva bene il Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l'animo degli offesi”. La condizione di offeso [continua Primo Levi] non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura18P. Levi, I sommersi e i salvati cit., in Opere cit., II, p. 1023. .
«Non conosco tribunale umano»: queste parole, scritte da chi non ne conosceva altri, mostrano quanto fitto fosse il dialogo mentale dell’ateo Primo Levi con il cattolico convertito Manzoni, che riconosceva nel giudizio divino l’istanza decisiva. Ma in questo dialogo mentale rientra anche la frase «di fronte a casi umani come questi» – che andrà ricollegata alla casuistica, ossia alla prospettiva che sipropone di verificare concretamente, attraverso l’analisi di casi specifici, le formulazioni astratte delle leggi,e delle leggi morali. Questo nesso con la casuistica è confermato dall’espressione tecnica «casi di coscienza» che Primo Levi usò nella prefazione al libro in cui Hermann Langbein (anch’egli internato ad Auschwitz) aveva analizzato minutamente il sistema del Lager, «fino alla fascia grigia dei Kapos e dei prigionieri insigniti di un grado»19P. Levi, prefazione a H. Langbein, Uomini ad Auschwitz (Menschen in Auschwitz, 1972), in Opere cit., II, p. 1248. Al libro di Langbein, non ancora tradotto in italiano, Levi accennava già nella prefazione a La notte dei Girondini (1976). Nel capitolo “I Prominenten ebrei” (pp. 181 sgg. dell’edizione italiana, Milano 1984, ridotta con l’autorizzazione dell’autore) Langbein notava che Primo Levi stesso, in Se questo è un uomo, si era reso conto di non aver indagato abbastanza la gerarchia che vigeva nel campo. Levi definì Langbein “un mio caro amico, una persona che rispetto moltissimo” (Conversazioni e interviste cit., p. 237; intervista con Risa Sodi, «Partisan Review», LIV, 3, 1987). .
4.
Sono partito da una definizione molto ampia di casuistica, che cercherò di specificare storicamente. Manzoni, convertito a un cattolicesimo austero di ispirazione giansenista e lettore appassionato degli scrittori di Port Royal, manifestò nei confronti della casuistica un’ostilità pregiudiziale20Vedi su tutto ciò il libro, tuttora fondamentale, di F. Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, 2 voll., Bari 1931. .E’ quanto risulta dalle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), che Manzoni scrisse, su invito del suo direttore spirituale, monsignor Luigi Tosi, per rispondere all’ultimo capitolo dell’Histoire des républiques italiennes di Sismondi (1818)21. All’accusa, lanciata da Sismondi, che attribuiva gran parte della decadenza morale degli italiani alla Chiesa cattolica, e in modo particolare agli effetti corruttori della casuistica, Manzoni rispose difendendo la morale cattolica ma prendendo le distanze dai casuisti, che dichiarava di non avere letti («neppur uno») e di conoscere solo attraverso «le confutazioni d’altri scrittori» (in primo luogo, certo, il Pascal delle Provinciales). Forse questa dichiarazione ostentata non era del tutto veritiera; ma il punto sostanziale, che ci riporta a Primo Levi e alla zona grigia, è un altro. Quando si discute di casuistica si confondono spesso due elementi: l’analisi delle situazioni e il giudizio che ne deriva. Il lassismo morale, frequente nella casuistica, soprattutto gesuitica, non ne era una conseguenza necessaria. Se ne accorse lo stesso Sismondi. Nel 1833, in una lettera al teologo unitariano William Ellery Channing, scrisse:
Ceux qui croient que la moralité ne consiste qu’en quelques simples préceptes vite épuisés mesemblent des observateurs bien superficiels. Plus, au contraire, on l’étudie, plus on voit le champ s’élargir. On peut s’en convaincre en lisant les milliers de livres écrits sur des cas de conscience dans l’Eglise catholique. Le secret du confessional, la nécessité d’accorder enfin l’absolution et de maintenir le pouvoir sacerdotal, ont certainement fait dévier les casuistes, et créer avec leur aide ce qu’on a appellé la morale jésuitique; toutefois des grands progrés ont été faits par eux dans cette noble science, et nous leur devons peut-être plus qu’à la Bible elle-même l’établissement du système de moralité chrétienne23F. Ruffini, La vita religiosa cit., II, pp. 182-183. .
La morale rigorista di Manzoni gli impedì di arrivare ad un riconoscimento del genere. Ma nel suo romanzo le sottili distinzioni in ambito morale, anziché attenuare la severità del giudizio, lo precisano. Così è nel passo de I Promessi sposi che Primo Levi citò a proposito della «zona grigia»: il pervertimentodell’oppresso da parte dell’oppressore costituisce un’aggravante nei confronti di quest’ultimo. Lo stesso passo è riecheggiato tacitamente da Levi poco prima della conclusione del capitolo:
un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole24P. Levi, I sommersi e i salvati cit., in Opere cit., II, p. 1043. .
Il caso estremo è rappresentato delle Squadre Speciali (Sonderkommandos) cui era affidata la gestione dei crematori. Aver pensato e organizzato queste squadre è, scrive Levi, «il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo». La storia di chi vi ha partecipato va «meditata con pietà e rigore», ma Levi chiede «che il giudizio su di loro resti sospeso»25Ivi, p. 1037. . E tuttavia astenersi dal giudizio sugli oppressi divenuti complici dell’oppressione è cosa ben diversa dall’assolvere o perdonare gli oppressori. «Perdonare non è verbo mio»disse Primo Levi in un’intervista. «Io non sono un credente, per me non ha senso preciso l’absolvo te. Non credo che nessuno, nemmeno un sacerdote, abbia il potere di legare e sciogliere»26P. Levi, Conversazioni e interviste cit., p. 144 (intervista con Giorgio Calcagno, apparsa su «La Stampa» il 26 luglio1986, col titolo “Capire non è perdonare”). . E in un’altra intervista, riferendosi a un contesto ebraico anziché cristiano: «Poiché non sono credente, non so che cosa sia il perdono. È un concetto estraneo al mio mondo. Io non ho l’autorità di concedere il perdono. Se fossi un rabbino, forse l’avrei; anche se fossi un giudice, forse»27Ivi, p. 236 (intervista con Risa Sodi cit.). . Dunque, contro la falsa equivalenza tout comprendre c’est tout pardonner Primo Levi prende risolutamente le distanze dal secondo termine e sceglie il primo. «Vorrei capirvi per giudicarvi» scrive al suo traduttore, rivolgendosi ai tedeschi28P. Levi, I sommersi e i salvati cit., in Opere cit., II, p. 1129. . Cercare di capire come Auschwitz sia stato possibile, e, come disse in un’intervista, «in un senso più vasto, perché mi interessa capire anche altro: io sono un chimico, voglio capire il mondo attorno a me»29P. Levi, Conversazioni e interviste cit., p. 144 (intervista con Giorgio Calcagno cit.). . Ma come si è visto di fronte alle ambiguità di Auschwitz la chimica, con le sue classificazioni nette, è disarmata. Qui emerge il debito profondo che Primo Levi, «italiano ebreo» (come volle definirsi) contrasse nei confronti del cattolico convertito Manzoni: più precisamente, nei confronti del Manzoni paradossalmente prossimo alla casuistica30M. Belpoliti, Primo Levi, Milano 1998, pp. 111-14. .
5.
Come spiegare questo debito, questa contiguità? Penso che la risposta vada cercata negli intrecci, non ancora studiati adeguatamente, tra Talmud e casuistica cristiana. Alla sapienza talmudica compendiata ne La tavola imbandita, il famoso libro di Joseph ben Ephraim Karo apparso a Venezia nel 1565, letto in traduzione, Primo Levi dedicò un articolo intitolato «Il rito e il riso». Dopo aver elencato in tono divertito alcune delle distinzioni rituali analizzate da Karo con minutissima sottigliezza casuistica, Levi spicca improvvisamente il volo verso il cosmo:
Dietro a queste pagine curiose percepisco un gusto antico per la discussione ardita, una flessibilità intellettuale che non teme le contraddizioni, anzi le accetta come un ingrediente immancabile della vita; e la vita è regola, è ordine che prevale sul Caos, ma la regola ha pieghe, sacche inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine. Guai a cancellarle, forse contengono il germe di tutti i nostri domani, perché la macchina dell’universo è sottile, sottili sono le leggi che la reggono, ogni anno più sottili si rivelano le regole a cui obbediscono le leggi subatomiche. È stato spesso citato il detto di Einstein: «Il Signore è sottile, ma malvagio non è»; sottili devono dunque essere, a Sua somiglianza, coloro che Lo seguono. Si nota che, tra i fisici e i cibernetici, sono molto numerosi gli ebrei originari dell’Europa orientale; che il loro esprit de finesse altro non sia se non un’eredità talmudica?31P. Levi, “Il rito e il riso”, in L’altrui mestiere cit., pp. 181-85, in particolare pp. 184-85.
È una pagina lieta, in cui si avverte «l’agilità del sense of humour» di Primo Levi – quell’agilità di cui Calvino parlava con ammirazione, ricordando il lavoro comune sulla Petite cosmogonie portative. Ma è una lietezza ambigua, illusoria. Dietro l’elogio dell’eccezione come «germe di tutti i nostri domani» s’intravedono la casuistica, l’esprit de finesse, la sottigliezza: gli strumenti con cui Primo Levi affrontò il suo terribile ieri, le ambiguità della zona grigia.
Scheda bio-bibliografica di Carlo Ginzburg
È professore ordinario di Storia delle culture europee presso alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Tra le sue pubblicazioni:
I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra '500 e '600 (Einaudi, 1966);
Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosa nell'Europa del '500, (Einaudi, 1970);Giochi di pazienza. Un seminario sul 'Beneficio di Cristo' (Einaudi, 1975);
Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500 (Einaudi, 1976);
Indagini su Piero. Il Battesimo, il ciclo di Arezzo, la Flagellazione di Urbino, (Einaudi, 1981, n. ed. accresciuta 1994);
Miti emblemi spie (Einaudi, 1986);
Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Einaudi, 1989);
Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri (Einaudi, 1991; n. ed. Feltrinelli 2006);
Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza (Feltrinelli, 1998);
Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, (Feltrinelli, 2000);
Nessuna isola è un'isola. Quattro sguardi sulla letteratura inglese (Feltrinelli, 2002)Vittorio Foa e Carlo Ginzburg, Un dialogo, (Feltrinelli, 2003);
Il filo e le tracce. Vero falso finto, (Feltrinelli, 2006)
Ha insegnato in numerose fra le principali università in Europa e negli Stati Uniti ed è stato insignito di molteplici riconoscimenti internazionali per la saggistica e le scienze storiche. Collaboraa numerose riviste di studi storici, fra cui “Past and Present”, “Annales”, “Quaderni storici”.
I sui libri sono tradotti in varie lingue.
Commenti
sull'incontro di Rhemes tra Levi e Calvino ho scritto un articolo pubblicato sul numer o 2, Febbraio 2024 di Como Terza Età. Troppo lungo per stare in un commento. Per chi fosse interessato può richiedere il testo al mio indirizzzo e:mail : Bruno.Recalcati2016@gmail.com