Dizionario leviano illustrato della pandemia
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente.
Primo Levi, Prefazione Se questo è un uomo
Questo lavoro è stato realizzato in modalità a distanza, durante la quarantena imposta dall’emergenza sanitaria del Covid-19, dagli studenti della quarta A scientifico del Liceo «Leonardo da Vinci» di Terracina, per le cure di Roberta De Luca, nell’anno scolastico 2019/2020.
I riferimenti all’opera di Levi rinviano all’edizione delle Opere complete, a cura di Marco Belpoliti, 3 voll., Einaudi, Torino 2017 e 2018 (OC).
I disegni sono stati realizzati da: Natalia Nowicka, Sara Isotton, Gaia Lauretti, Andrea Parasmo, Alessandro Recchia, Matteo Sepe, Ilaria Palombi, Giulia Marfisa, Gianmarco Lupinetti, Gianmarco Scalingi, Simone Massarella, Elena Desiderio, Lucrezia Feula.
Si ringrazia il Centro internazionale di studi Primo Levi e la dottoressa Roberta Mori per il sostegno e l’aiuto.
Le parole della pandemia
Le voci contagio, contagioso sono presenti nell’opera di Primo Levi con le diverse denotazioni già insite nell’etimologia latina del termine. Il verbo contingere, da cui deriva contagium, significa, tra le altre cose, essere in contatto, coinvolgere, contaminare, toccare in sorte; il vocabolo contagio contiene quindi diverse sfumature che ritroviamo nei luoghi della letteratura leviana, con connotazioni talvolta sorprendenti. Lo scrittore lo sceglie quando parla di sentimenti che si propagano tra persone che sono vicine e che condividono delle esperienze, come il terrore che in Lager domina lo stato d’animo dei prigionieri, o la felicità che Sandro, il protagonista di Ferro, prova in montagna, o ancora la speranza che è contagiosa come il colera e va tenuta a freno per non illudersi; oppure lo utilizza nel senso di contaminazione, a cui egli attribuisce sia un valore letterale scientifico, se si tratta di epidemie vere e proprie, sia una valenza metaforica, che gli permette di esprimere il concetto di male con una potenza che resta per sempre impressa nella mente del lettore. Davvero incredibile è la casualità che si è verificata nella vita dell’autore rispetto al significato di ‘toccare in sorte’: in Pipetta da guerra, Levi racconta di essere sopravvissuto ad Auschwitz, grazie al contagio contratto da una zuppa infetta, che lo costrinse a rimanere in infermeria, evitando così di essere trascinato via nell’evacuazione dal campo, poco prima della liberazione da parte dell’Armata Rossa.
In un saggio del 1985, L’uomo che vola, un Levi visionario scrive: «il nostro povero corpo, così indifeso davanti alle spade, ai fucili e ai virus, è a prova di spazio»1Racconti e saggi, II, 1129. . Dunque i virus sono posti accanto alle armi come quegli elementi da cui il nostro corpo si deve difendere, anticipando uno scenario che si sta verificando e che ci ha colti del tutto impreparati (al contrario, le strategie militari sono state certamente pianificate per ogni eventualità). È la conclusione di un discorso che parte da un articolo scientifico sulle esercitazioni preparatorie ai viaggi nello spazio, e che riguarda la capacità misteriosa dell’uomo di muoversi in assenza di gravità, grazie all’assenza di peso. L’uomo ha tanti limiti, ma non quello dell’abaria, sostiene Levi, e questo forse gli permette di cullare da sempre il sogno di volare, in maniera conscia e inconscia. Un sogno realizzato da Isabella, la protagonista de La grande mutazione, primo caso in Italia del contagio – già diversi focolai si erano registrati in Canada, in Svezia e in Giappone – da uno strano virus, non nocivo, che trasforma gli esseri umani in uccelli. Colpisce tutti, ragazzi e adulti, anche se solo i giovani sembrano trarne una vera utilità. Il virus, sebbene etimologicamente evochi un potere venefico, diventa qui un vantaggio connesso alla capacità dell’uomo di volare, ovvero all’ingegno e alla tecnica per relazionarsi alla natura, alla condivisione delle esperienze, al valore dell’intelligenza che può sfidare le difficoltà. Insomma alle possibilità che l’umanità possiede, in particolare i giovani, per sconfiggere il male in tutte le sue forme.
Roberta De Luca
I
Nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio.
La tregua, I, 310
Primo Levi racconta dell’arrivo delle avanguardie sovietiche nel campo di concentramento di Auschwitz e la liberazione dei pochi prigionieri sopravvissuti, e di come i tedeschi ricevettero l’incarico di trasportare i sani da Auschwitz a Buchenwald e Mauthausen, lasciando i malati a morire, quando fuggirono a causa della velocità dell’avanzata dell’armata russa. Rimasero ottocento prigionieri, ma circa cinquecento morirono prima dell’arrivo dei soccorsi e altri duecento nelle giornate successive. Il 27 gennaio 1945 furono proprio Levi e Charles a scorgere la pattuglia russa, mentre spostavano il corpo di un compagno di camera, Somogyi, che non fu sepolto nella fossa comune poiché non c’era spazio. Quando i quattro soldati a cavallo giunsero ai reticolati, si fermarono ad osservare, non sorridevano né salutavano, apparivano oppressi dalla stessa vergogna dei prigionieri, forse perché ne comprendevano dolore e difficoltà.
Anastasia Bonato
II
Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell'offesa, che dilaga come un contagio.
La tregua, I, 310
Primo Levi, dopo un anno di prigionia ad Auschwitz, racconta di come fu evacuato il campo e di come lui e i pochi altri sopravvissuti riuscirono a ritrovare la libertà. Nei primi giorni del gennaio del 1945, con l’avanzata dell’Armata Rossa, i tedeschi decisero di smistare i prigionieri sani su altri due campi, Buchenwald e Mauthausen, abbandonando i malati in fin di vita. Nonostante il comando di non lasciare nessuno vivo, un violento attacco notturno da parte dei russi costrinse i tedeschi a ritrattare la decisione sui prigionieri e ad evacuare il campo più velocemente possibile. Degli ottocento compagni di Levi nell’infermeria di Buna-Monowitz, circa cinquecento morirono per malattie, freddo o fame, pochi giorni prima dell’arrivo dei russi. Altri duecento seguirono nei giorni immediatamente successivi; ne rimasero vivi un centinaio. Quando la speranza sembrava perduta, però, il 27 gennaio 1945 furono proprio Levi e Charles a scorgere fuori dal campo una prima pattuglia russa, mentre trasportavano il corpo senza vita di Sòmogyi alle fosse comuni. I russi erano quattro soldati a cavallo, che imbracciando dei mitra, si aggiravano impassibili lungo il perimetro del campo. Non sorridevano né salutavano, sembrando intaccati e oppressi dallo stesso ritegno che i prigionieri provavano quando dovevano assistere a delle atrocità; quello stesso ritegno che i tedeschi non provarono mai.
Andrea Parasmo
III
Chi poteva aver avanzato mezza scodella di zuppa in quel regno della fame? Quasi certamente un ammalato grave, e, dato il luogo, anche contagioso.
Pipetta da guerra, Racconti e saggi, II, 1048
Il termine “contagioso” è qui usato in riferimento alle condizioni pessime in cui versa il Lager, diventato ormai un campo di morte sotto ogni aspetto. In particolare, Levi si interroga su chi abbia potuto lasciare metà porzione di zuppa, scambiata con delle pipette da laboratorio, arrivando a identificare il soggetto in un probabile malato grave. Comunque, senza pensarci troppo, lui e il suo amico Alberto mangiano la razione la sera stessa. Se per Alberto la sorte sembrava esser stata cortese, per Levi, che a differenza dell'amico non aveva già passato la scarlattina, accade l'opposto. Si trova infatti la mattina seguente a fare i conti con l’imprudenza compiuta, incosciente di come questa sarebbe stata la piccola causa che gli avrebbe salvato la vita. Alberto, invece, in quanto sano, sarebbe andato via nell’evacuazione dal campo. Il racconto si conclude con l'ultimo saluto che Alberto porge a Levi -obbligato, fortunatamente, a stare insieme agli altri malati- prima di partire per quella marcia da cui non sarebbe più tornato.
Simone Massarella
IV
E neppur mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un'altra camera, in un'altra baracca con minor pericolo di contagio.
Se questo è un uomo, I, 267
Nonostante vivesse a stretto contatto con dei malati, durante gli ultimi dieci giorni di Lager, Primo Levi non avrebbe mai pensato di cambiare camera per ridurre il pericolo di ammalarsi. Forse il motivo era perché non temeva la morte per malattia in quel momento, ma anche perché iniziava a intravedersi un barlume di umanità. Poco prima infatti uno dei suoi compagni di camera, Towarowski, aveva proposto agli altri malati di offrire ciascuno una fetta di pane ai tre uomini, tra cui Levi, che avevano lavorato per mettere in funzione la stufa. Questo può voler dire che nelle situazioni difficili emerge anche un senso di solidarietà.
Ilaria Palombi
V
E neppure mi passava per il capo che avrei potuto stabilirmi in un'altra camera, in un'altra baracca con minor pericolo di contagio.
Se questo è un uomo, I, 267
Primo Levi, per aver contratto la scarlattina, fu ricoverato in Ka-Be, e come tutti gli altri ammalati che non potevano camminare o muoversi fu risparmiato dalla marcia della morte. Così iniziò una convivenza con altri uomini, come lui infermi e con un destino comune. Riuscirono a migliorare le loro condizioni di vita, per quanto possibile nel Lager, mettendo in uso una stufa, riparando una finestra rotta e mangiando patate bollite. Nonostante vivesse a stretto contatto con dei malati, Levi non avrebbe mai pensato di cambiare camera per ridurre il pericolo di ammalarsi. Forse perché il pensiero di morire a causa di malattie non gli faceva più paura, o forse perché la morte per malattia nel lager non era la peggiore che si potesse immaginare.
Ludovica Biancamano
VI
Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi fossi sentito così debole, avrei seguito l'istinto del gregge; il terrore è eminentemente contagioso, e l'individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.
Se questo è un uomo, I, 261
Storia di dieci giorni è l’ultimo capitolo di Se questo è un uomo. Al suo interno sono narrati gli ultimi giorni vissuti nel campo di Buna-Monowitz dallo scrittore prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, avvenuto il 27 gennaio 1945. Nei primi giorni di quello stesso gennaio, i tedeschi, consci dell’imminente arrivo dei sovietici, decisero di evacuare il campo insieme ai prigionieri sani e di distruggere quante più prove possibili dell’esistenza del lager. Levi, ammalatosi pochi giorni prima di scarlattina, era ricoverato nel Ka-Be (l’infermeria del campo) quando gli altri prigionieri partirono, e fu pertanto costretto a rimanere a Buna-Monowitz insieme al resto degli infermi. Coloro che abbandonarono il campo, andarono incontro alla marcia della morte, mentre quelli che rimasero nell’infermeria fino all’arrivo dei sovietici riuscirono a sopravvivere. La citazione estrapolata dal capitolo si riferisce al terrore che dilagò nel Ka-Be quando i prigionieri scoprirono dell’evacuazione in programma, nonostante le loro precarie condizioni di salute, decisero di seguire l’istinto del gregge e di lasciare il campo con i tedeschi, inconsapevoli che tale fuga determinata dalla paura li avrebbe in realtà condotti proprio alla morte.
Agnello Elisabetta
VII
Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi fossi sentito così debole, avrei seguito l'istinto del gregge; il terrore è eminentemente contagioso, e l'individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga.
Se questo è un uomo, I, 261
Levi, malato di scarlattina e ricoverato nel Ka-Be assieme ad altri uomini, fu visitato dal medico greco. Quest’ultimo confermò la prevista evacuazione del campo, della quale Levi aveva informato i suoi compagni il giorno precedente. Era equipaggiato per la marcia; coloro in grado di camminare sarebbero stati forniti di scarpe e abiti e sarebbero partiti l’indomani. Quando il medico lasciò la stanza due dei ragazzi malati iniziarono a discutere, vogliosi di partire, nonostante le loro condizioni. Era normale, in questo caso, come l’individuo atterrito cercasse in primo luogo la fuga. Miravano alla salvezza e allo stesso modo Levi, se non fosse stato così debole, avrebbe voluto seguire il gregge a causa di quel terrore così fortemente contagioso.
Natalia Nowicka
VIII
Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
I sommersi e i salvati, II, 1172
Levi afferma che non è possibile classificare gli uomini semplicemente come puramente buoni o puramente cattivi poiché, nella vita di tutti i giorni, le situazioni sono spesso complesse e articolate. Nel Lager non si avevano punti di riferimento, i nemici non erano solo i nazisti, ma anche coloro che fino a poco prima erano stati dalla stessa parte; si era soli contro tutti, come monadi. Tra i prigionieri c’era la categoria dei privilegiati, coloro che cercavano di migliorare le loro condizioni di vita schierandosi dalla parte dei nazisti. I più spietati erano i Kapos, i capi delle squadre di lavoro, che avevano funzioni di comando sugli altri deportati. Da una parte c’erano coloro cui la possibilità veniva offerta dal comandante del Lager; dall’altra quelli che aspiravano al potere spontaneamente, contagiati dalla brutalità e dalla violenza degli oppressori, tra cui i sadici, i frustrati e gli oppressi.
Riccardo D’Antrassi
IX
Lo cercavano, infine i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro.
I sommersi e i salvati, II, 1172
Levi esprime l’inefficacia di una visione manichea dell’uomo oppressore e oppresso: pur risultando essere molto semplice affidarsi ad una lettura umana di questo tipo, essa non porterebbe a risultati coincidenti con la realtà. Nei Lager, potevano diventare Kapos coloro a cui la possibilità veniva offerta dai comandanti, e molti aspiravano a tale potere spontaneamente: tra questi sadici, frustrati, ma anche gli stessi oppressi, che come contagiati dal morbo degli oppressori tendevano ad identificarsi con loro.
Gianmarco Scalingi
X
Le ali si sarebbero formate a poco a poco, senza danni per l'organismo, e poi altri casi ci sarebbero stati nel vicinato, forse tra i compagni di scuola della bambina, perché la faccenda era contagiosa».
La grande mutazione, Racconti e saggi, II, 1032
Di questa ‘faccenda contagiosa’ si parla nel racconto La grande mutazione, datato 21 agosto 1983: essa è causata da un virus, tutt’altro che nocivo, il quale fa spuntare le ali ai contagiati senza creare alcun danno all’organismo. Si erano già registrati focolai in altri paesi, ma il paziente zero in Italia è la protagonista del racconto, una ragazzina di nome Isabella, la quale, dopo aver accusato un fastidioso prurito alla schiena, viene visitata dal suo medico ed informata che presto avrebbe potuto imparare a volare. Il virus si diffonde nel vicinato, contagiando adulti e ragazzi, anche se solo i giovani sembrano trarne una vera utilità. In questo strano ed unico caso la parola virus non assume una connotazione negativa, poiché esso non porta malattie o scompensi, ma solo vantaggi legati alla capacità di volare, simbolo di libertà, avventura e crescita personale. Il suo contagio rappresenta un’opportunità, rivolta in particolare ai giovani, per rafforzare e consolidare i rapporti umani tramite la condivisione di esperienze e di uno scopo comune, quello di superare le avversità sconfiggendo ogni aspetto negativo dell’esistenza.
Sara Isotton
XI
Ma se è contagiosa è una malattia!
La grande mutazione, Racconti e saggi, II, 1032
Sebbene quello che le stava accadendo fosse una vera e propria fortuna, Isabella non ne era molto contenta. Da parecchi giorni la ragazzina, protagonista del racconto, era inquieta: mangiava poco, aveva qualche linea di febbre e si lamentava di un prurito alla schiena. Era stata contagiata da un virus sconosciuto, di cui esistevano pochissimi casi in tutto il mondo. Era la prima volta che in Italia accadeva una situazione del genere; diversi focolai erano stati già osservati in Canada, Svizzera e in Giappone. La bambina era molto preoccupata, non riusciva più a dormire: a breve le sarebbero spuntate le ali.
Gaia Lauretti
XII
È contagiosa, pare che sia un virus, ma non è una malattia. Perché tutte le infezioni virali devono essere nocive?
La grande mutazione, Racconti e saggi, II, 1032
Isabella, la bambina protagonista del racconto leviano era stata contagiata da un virus che non si presentava come una malattia, ma quasi come un elemento di diletto. Il virus era stato già avvistato in altre aree del mondo, come in Giappone e in Canada, ma il suo era il primo caso registrato in tutta Italia. Tale virus non comporta una malattia mortale, ma si palesa attraverso la crescita delle ali sulla schiena, tanto da esser visto dalla bambina sia come vantaggio che le permetterebbe di volare liberamente e di seguire la sua fantasia, sia come una preoccupazione, dettata dalla mancata conoscenza del virus in questione, che l’aveva colta totalmente impreparata.
Gianmarco Lupinetti
XIII
A lei sarebbe piaciuto imparare dal dottorino della mutua: o che magari le ali fossero spuntate anche a lui, non aveva detto che erano contagiose?
La grande mutazione, II, 1033
Il racconto gira intorno ad una "malattia", contratta per la prima volta in Italia da Isabella, figlia di due proprietari di bottega. La malattia è considerata molto contagiosa dal dottore e i suoi sintomi sono alquanto bizzarri: febbre, prurito, pelle ruvida e comparsa di peli rigidi e biancastri. Nonostante questi sintomi iniziali, alla fine la protagonista del racconto ha il privilegio di avere due ali stupende e di riuscire a volare. Avere delle ali non è qualcosa di negativo, anzi le persone che contraggono la malattia non cercano di contrastarla. Solitamente, si tende a pensare che tutto ciò che è contagioso sia malattia, come afferma il padre della bambina, ma il dottore sfata subito il "mito" spiegando che non tutto ciò che è contagioso è nocivo.
Giulia Marfisa
XIV
Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accende.
Il sistema periodico, I, 894
Nel capitolo Ferro, dal quale è stata ripresa la citazione, Levi racconta la sua amicizia con lo studente Sandro Delmastro. Questi era un ragazzo molto intelligente, di umili origini, e con una sfrenata passione per la montagna, che riesce a trasmettere anche a Levi. In questo contesto viene utilizzato il termine contagiosa, non in riferimento ad un morbo (causato da virus o batterio), ma alla felicità, conferendo al termine stesso un’accezione del tutto positiva, in netto contrasto con i significati comuni.
Alessandro Recchia
XV
Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagna diventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accende.
Il sistema periodico, I, 894
La citazione è ripresa dal capitolo Ferro che narra la storia d’amicizia fra Levi e Sandro Delmastro. I due erano legati da un’amicizia solida e bellissima, condividevano diverse passioni. Levi racconta come egli suscitò l’interesse per la chimica e per la speculazione in Sandro, e come quest’ultimo gli avesse fatto conoscere la montagna ed il piacere delle cose pratiche. Levi si fece convincere da Sandro ad accompagnarlo in tutto quello che faceva, perché tutto ciò li rendeva felici: a Sandro lo faceva felice la montagna e a Levi osservare la felicità di Sandro così immensa, così silenziosa e contagiosa. La condivisione è l’essenza dell’amicizia e dell’umanità.
Kira Brar
XVI
[…] perché la speranza è contagiosa come il colera.
Se non ora quando, II, 450
Il disperso partigiano Mendel è stanco di vivere come lupo da ormai un anno, e vuole unirsi alla banda di Venjamin e combattere con lui quella che ritiene una guerra giusta. Venjamin riferisce due importanti notizie enunciate dalla radio: Mussolini era caduto ma non era detto che la guerra sarebbe finita tanto presto. Se l’erano gridate a vicenda la sera prima, ciascuno convinceva l’altro ed era pronto a farsi convincere, perché la speranza, l’unica cosa che li avrebbe portati avanti, è contagiosa proprio come il colera.
Elena Desiderio
XVII
Era diventato taciturno, e poiché tutti sapevano quanto siano contagiosi la tristezza e lo scoramento, pochi gli rivolgevano la parola.
Se non ora quando, II, 498
L’accampamento accoglieva chiunque, e la gente arrivava da lontano per cercare sicurezza. Il capo si chiamava Dov, un uomo di mezza età, basso di statura ma di ossa robuste e di spalle larghe. Aveva la schiena curva e portava il capo chino come se reggesse un carico, finendo per guardare i suoi interlocutori dal basso verso l’alto. I capelli una volta biondi erano ormai quasi bianchi, ma ancora folti, accuratamente pettinati e con una scriminatura dritta. Era uno che non si tirava indietro Dov, nato in un villaggio sperduto della Siberia Centrale. Già nel ’41 prigioniero dei tedeschi, riuscì a scappare e ad unirsi ai partigiani. Ma in tempo di guerra si invecchia presto, e nel campo di Turov, costituito esclusivamente da giovani, Dov si rese conto di essere di peso e, nonostante cercasse di rendersi utile in cucina, nelle pulizie, nei lavori spiccioli di manutenzione, si sentiva superfluo. Divenne taciturno e, poiché tutti sapevano quanto siano contagiosi la tristezza e lo scoramento, pochi gli rivolgevano la parola. Perché gli stati d’animo negativi, come le malattie, tendono a diffondersi; e, come per le malattie, le persone fanno il possibile per evitare il contagio.
Lucrezia Feula
XVIII
Che fare per evitare il contagio? O forse il tifo era trasmesso solo dai pidocchi? Nessuno lo sapeva.
Se non ora quando, II, 46
In questo passo Levi parla dell’arrivo di un gruppo di dispersi dell’Armata Rossa nella città di Novoselki con un medico al seguito. Il medico, che sarebbe stato molto importante per la città, era tuttavia malato di tifo, e sarebbe morto il giorno dopo.
Dopo la morte, egli venne sepolto, cercando di evitare il contatto e, per prevenire il contagio, furono bruciati tutti gli oggetti che erano stati toccati dal malato, compresa la coperta in cui era stato avvolto.
Denis Fava
XIX
[...] perché la speranza è contagiosa come il colera.
Se non ora quando, II, 450
Quando Venjamin chiese a Mendel perché volesse andare con loro, il partigiano rispose che era stanco di vivere da solo come un lupo e aveva una guerra giusta da portare a termine. Così Venjamin gli riportò due notizie: il duce, Mussolini, era caduto e ciò era stato annunciato per tre volte da tutte le radio; l’altra, era che la guerra non sarebbe finita presto. Tutti se lo ripetevano più volte nelle orecchie per convincersi e per darsi forza; le cose si stavano mettendo per il verso giusto e la speranza animava velocemente i loro cuori, poiché essa è contagiosa come il colera. Così questi partigiani russi e polacchi non si lasciarono supinamente soggiogare e continuarono a lottare per la loro libertà.
Matteo Sepe
Primo Levi nella nostra didattica a distanza
Dal 5 marzo le scuole sono chiuse a causa della pandemia da coronavirus, e noi siamo tappati in casa per cercare di contenere il contagio. I primi giorni sono stati di attesa, nei successivi è subentrato il disorientamento, infine lo sgomento. Poi però abbiamo capito che ci saremmo dovuti riorganizzare, studenti e docenti, attraverso un modo del tutto nuovo e inesplorato che richiedeva supporti telematici per fare scuola, per continuare la didattica, mentre nel mondo intorno si propagava il virus, devastando vite e attività. Allora abbiamo riposto mentalmente le pratiche inevase lasciate nei nostri cassetti a scuola, e ci siamo rimessi al lavoro, riprendendo alcuni fili rimasti sospesi, che forse potevano tessere un’altra trama.
Quei fili riguardavano Primo Levi, in un progetto già ideato e appena cominciato, che nella nuova realtà non è stato più possibile portare avanti. In un momento così difficile delle nostre vite, quelle parole lette e rilette nell’aula scolastica sono ritornate con la stessa forza con cui le avevamo viste, ascoltate, interrogate: lo studio dell’animo umano condotto da un uomo che ha vissuto un’esperienza indicibile, uno scrittore-chimico, di cui abbiamo letto tanti testi nei nostri anni di scuola, avrebbe potuto suggerirci una lettura inedita della realtà che ancora stiamo vivendo, attraverso la chiave nascosta proprio nelle sue parole. Ci siamo mandati i testi sulla posta elettronica e abbiamo cominciato insieme una ricerca della parole leviane che potessero farci riflettere e aiutarci a trovare un senso nuovo, o spiegarne meglio uno vecchio, o semplicemente fornirci un punto di vista che non avevamo considerato.
Il vocabolo contagio usato dall’autore nelle sue molteplici valenze è diventato la password per entrare nell’epidemia in atto e coglierne i diversi aspetti, che andassero oltre la dimensione scientifica e sanitaria. Gli studenti si sono assegnati spontaneamente un luogo dell’opera leviana in cui compariva la parola, e ognuno l’ha analizzata, contestualizzata, collegata al presente, che è stato espresso per mezzo delle innumerevoli immagini che circolano sul web. La professoressa ha corretto e assemblato tutti i testi e le foto che provenivano dai ragazzi, e nell’assenza dei corpi, dei volti, degli sguardi di cui tanto sente la mancanza, le è sembrato di rivederli tutti, di sentire le loro voci e di percepire vivo il loro entusiasmo.
Si è creato così, quasi dal nulla, nel vuoto pneumatico della rete, il Dizionario leviano illustrato, un lavoro didattico che ci ha aiutati a restare collegati, anche se distanti, e lo ha fatto attraverso una parola terribile e spaventosa non solo in questa fase, che assume nei testi di Levi una misura comprensibile e che, attivando una visione lucida e pacata, ci rende meno insicuri e angosciati.
Levi si è confermato una fonte di apprendimento linguistico, scientifico, psicologico, umano, davvero provvidenziale in questa congiuntura durissima. Come spesso accade, la letteratura ci consente di capire meglio la vita e di riconoscere i valori e le risorse dell’umanità.
Questa è un’esperienza che si apre con l’immagine di un’aula vuota e si chiude con un Primo Levi sorridente, nella foto ricordo di un giorno di primavera, circondato da studenti felici dopo un incontro memorabile.
Roberta De Luca e gli studenti della IV A scientifico del Liceo Leonardo da Vinci di Terracina