Variazioni Rumkowski: sulle piste della zona grigia
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati.
PRIMO LEVI, La tregua, 1963
«È tipico dei regimi in cui tutto il potere piove dall'alto, e nessuna critica può salire dal basso, di svigorire e confondere la capacità di giudizio, e di creare una vasta fascia di coscienze grigie che sta fra i grandi del male e le vittime pure: in questa fascia va collocato Rumkowski» [L, I, p. 73]. È il 20 novembre del 1977: dalle colonne de «La Stampa», in un testo dal titolo Il re dei giudei, Primo Levi pronuncia queste parole che contengono l'essenza, ridotta ai minimi termini eppure già chiarissima, della categoria di «zona grigia» così come verrà sviluppata, analizzata e discussa nove anni più tardi in I sommersi e i salvati. L'elemento esteriore del regime politico, il soggetto morale che vacilla, e lo spazio tra vittima e carnefice che pullula di colore grigio: sembra già tutto pensato, tutto presente nella mente di Levi. E sembra che tra questo brulichio di mezze coscienze ce ne sia già almeno una con un nome: Rumkowski, anzi, Mordechai Chaim Rumkowski, decano del ghetto polacco di Łódź negli anni 1941-44. È lui il «re dei giudei» che dà il titolo al testo, è sua la storia che Levi sta raccontando sulle colonne del giornale torinese: il pretesto narrativo è una moneta del ghetto di Łódź, ritrovata da Levi ad Auschwitz, per terra, all'indomani della liberazione del lager, e conservata in tasca per tutto il suo viaggio di ritorno verso casa.
Vasta fascia di coscienze grigie è un'espressione che Levi non sceglie a caso: anche qui riverbera la sua ossessione per le radici lessicali, la sua fedeltà alle etimologie. Essa non è soltanto la bonaria fissazione di un appassionato dilettante dei linguaggi: è invece una forma di attenzione che spesso diviene, per noi che lo leggiamo, un'ottima analogia per comprendere il meccanismo con cui procede il suo pensiero di scrittore. Levi segue l'oggetto del proprio pensiero risalendo alla sua radice, pesandone i natali, riprendendone in mano i capi; solo dopo, con attenzione e sguardo fisso su ciò che sta facendo, ricompone la tela di significati con un rigore letterale intestardito sull'onestà linguistica. Prendiamo il sostantivo fascia: esso è la traduzione letterale del greco zona; lo stesso vale per il latino, se è vero che Catullo – poeta molto amato da Levi, che ne ricorda i versi a memoria fin dagli anni del liceo – usa nei suoi Carmina zona per indicare la fascia-cintura dell'amata: «Tam gratum est mihi quam ferunt puellae / pernici aureolum fuisse malum / quod zonam soluit diu ligatam» (Carmina, I, 2b). Fascia è il termine medio, il ponte che collega la zona greco-latina a quella che pertiene alla lingua italiana: ed è la parola che Levi adopera con piena coscienza lessicale.
Nel passaggio de Il re dei giudei, Levi – per la prima volta dopo Se questo è un uomo – sta ripensando il lager utilizzando una nuova categoria che sarà ampiamente sviluppata in seguito; un anello di collegamento tra due riflessioni, una giuntura teorica e ponderata tra Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Zona – fascia – zona: si può abbozzare così, come intuizione iniziale, la mappa di un possibile percorso leviano dalla parola originaria a quella finale.
Del resto, su come Levi sia giunto a introdurre la categoria di zona grigia si possono fare diverse ipotesi, seguire piste diverse; e non è detto che esse non si intersechino, né che possano esaurirsi in un numero finito e definitivo. Come ben mostra il grafo che Levi inserisce all’inizio della Ricerca delle radici, da Giobbe ai buchi neri si può arrivare in tanti modi: Levi ne indica quattro, ma se ne potrebbero trovare altri. Analogamente, molte sono i percorsi che collegano Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati: tra i tanti, l’itinerario che qui propongo passa per un luogo letterario forse non troppo battuto: la raccolta di racconti Lilìt, che esce nell’ottobre del 1981 per i tipi Einaudi; al suo interno, come ultimo racconto della sezione Passato prossimo, ritroviamo proprio Il re dei Giudei, uscito quattro anni prima su «La Stampa». Cinque anni ancora, e Rumkowski torna per la terza volta nella scrittura di Levi. La sua ultima comparsa non è di quelle marginali: con la sua vicenda, Levi sceglie di chiosare il secondo capitolo de I sommersi e i salvati, intitolato alla Zona grigia. Lo fa inserendovi il racconto del Re dei Giudei quasi intatto, tranne alcune varianti stilistiche puntuali. Ecco che il nostro speciale itinerario ha un protagonista, che è al tempo stesso un personaggio da capire nella sua intrinseca complessità e anche una possibile chiave d'accesso al pensiero e alla scrittura leviana.
La figura di Rumkowski tracciata da Levi è quella di un uomo intossicato dal potere: 62 anni, ebreo, scelto dai nazisti per la presidenza del ghetto, egli inizia a esercitare la propria autorità in modo ostentato e ossessivo, una tirannide grottesca in contrasto con la situazione di assoluta miseria del luogo in cui vive e con il proprio status di sottoposto/collaboratore dei tedeschi. Seguiamone le gesta ripercorrendo la descrizione di Levi nei Sommersi e i salvati:
Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico e su questa percorreva le strade del suo minuscolo regno [...]. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre inni in cui si celebrava la sua «mano ferma e potente», e la pace e l’ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode «del nostro amato e provvido presidente». Come tutti gli autocrati, si affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per mantenere l’ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi, di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile: aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della recitazione ispirata, dello pseudocolloquio con la folla, della creazione del consenso attraverso il plagio ed il plauso.
SES, II, p. 1039
È insomma, almeno a prima vista, un ebreo collaborazionista che subisce la fascinazione del potere personale; ma è anche una figura complessa e perturbante se «alla sua identificazione con gli oppressori si alterna o si affianca un’identificazione con gli oppressi [...]. / Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi, è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo ma come a un Signore» [SES, II, p. 1040]. Il Decano si contempla con gli occhi degli oppressi, ma immedesimandosi negli oppressori. L’immagine che ha di sé è quella del salvatore del proprio popolo, oppresso da un potere che, nella sua enorme forza coercitiva, legittima il suo status di Signore (Levi ricorre alla maiuscola, tragicamente ironica in questo frangente).
È dunque il punto di vista di Rumkowski, è la sua considerazione di sé che lo innalza, ai propri stessi occhi, alla categoria dei potenti. Rispetto ai suoi dominatori tedeschi si pensa come un par inter pares. In questo alternarsi di immedesimazioni non c’è percorso dialettico, ma compresenza. Da qui, l’ambiguità del «re dei Giudei»: gli ebrei sono i suoi ebrei, nel doppio senso che ha l’aggettivo filos nella lingua omerica: mio e caro. Questa doppia autocoscienza, in costante alimentazione reciproca, è il perno della nostra difficoltà nel districare l’operato di Rumkowski – nel semplificarne i tratti. Ed è doppio anche l’esito della sua vicenda terrena: «Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni, come se l’ambiguità sotto il cui segno era vissuto si fosse prolungata ad avvolgere la sua morte» [L, II, p. 71]. Nella prima versione descritta da Levi nel 1977, egli, non riuscendo a salvare il fratello dalla deportazione, parte volontariamente con lui verso Auschwitz; anche nella seconda versione dell’86 Rumkowski viene deportato, ma in un vagone speciale consono al suo rango. Così, il «re dei Giudei» non si salva; ma la sua doppiezza è confermata dal nostro non poter stabilire se lo colga, almeno sul finale, una consapevolezza di se stesso, oppure se persista nell’ostinata identificazione di se stesso come signore degli oppressi, al punto da andare incontro al proprio destino, da solo, in una carrozza speciale.
* I riferimenti bibliografici alle opere di Primo Levi si trovano direttamente a testo, con le seguenti abbreviazioni: SQU: Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1958; T: La tregua, ivi, 1963; SN: Storie naturali, ivi, 1966; SP: Il sistema periodico, ivi, 1975; L: Lilìt e altri racconti, ivi, 1981; AM: L’altrui mestiere, ivi, 1985; SES: I sommersi e i salvati, ivi, 1986; RS: Racconti e saggi, Torino, Editrice «La Stampa», 1986. Tutte le citazioni da questi testi fanno riferimento a: Primo Levi, Opere, voll. I-II, Torino, Einaudi, 1997, a cura di Marco Belpoliti; anche le Pagine sparse di Levi vengono citate da questi due volumi. Dopo ogni citazione testuale da Levi, il lettore troverà tra parentesi quadre la sigla relativa, accompagnata dal riferimento al volume delle Opere e dal numero di pagina.
I.
Cominciamo dal principio del percorso: Se questo è un uomo. Senza voler forzare il primo grande testo di Levi ad accogliere una categoria – la «zona grigia» – che prenderà forma compiuta quarant'anni più tardi, è forse possibile riscontrarvi un germe di zona grigia, e come tale sarà possibile analizzarlo. D’altro canto, se esso rappresenta la «memoria protesi» dello scrittore per sua stessa ammissione1Come Levi ricorda in un’intervista con Marco Vigevani: «Adesso, dopo tanti e tanti anni, riesce a me stesso difficile restituire lo stato d’animo del prigioniero di allora, del me stesso di allora. Soprattutto l’aver scritto questo libro funziona per me come una “memoria protesi”, una memoria esterna che si interpone tra il mio vivere di oggi e quello di allora: io rivivo ormai quelle cose attraverso ciò che ho scritto»: Primo Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, a cura di Marco Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, p. 214. , diviene anche la parola originaria su cui torna ogni tentativo di scrittura di e su Levi.
Nessun esplicito riferimento alla zona grigia è presente in Se questo è un uomo. Tuttavia, nel capitolo intitolato proprio I sommersi e i salvati2Come ricorda Giorgio Calcagno (nell'intervista del 26 luglio 1986 raccolta in Conversazioni e interviste cit., p. 142), I sommersi e i salvati doveva essere il titolo del primo libro di Levi. Si tratta di una citazione da una terzina dantesca: «Di nova pena mi convien far versi / e dar materia al ventesimo canto / della prima canzon, ch’è de’ sommersi» [Inf., XX, vv. 1-3]. Lorenzo Mondo (Primo Levi e Dante, in Primo Levi: memoria e invenzione, Atti del Convegno Internazionale, San Salvatore Monferrato, 26-27-28 settembre 1991, a cura di Giovanna Ioli, San Salvatore Monferrato, Edizioni della Biennale «Piemonte e Letteratura», 1995) ha sottolineato come ulteriore possibilità di fonte per il titolo i versi: «e vo’ che sappi che, dinanzi ad essi /spiriti umani non eran salvati» [Inf., IV, vv. 62-63]. Belpoliti ricorda però anche la terzina del canto VI dell’Inferno: «Cerbero, fiera crudele e diversa, / con tre gole carinamente latra / sopra la gente che quivi è sommersa», Inf., VI, vv. 13-15. , Levi delinea per la prima volta la distinzione tra queste due categorie di prigionieri, i «sommersi» e i «salvati», scegliendola come strumento d’analisi concettuale per due ordini di motivi: in primo luogo, è più efficace rispetto ad altre coppie di contrari (buoni/cattivi, savi/stolti, vili/coraggiosi, disgraziati/fortunati), che sono «assai meno nette, sembrano meno congenite, e soprattutto ammettono gradazioni intermedie più numerose e complesse» [SQU, I, p. 84]. Inoltre, la coppia sommersi/salvati è di pertinenza quasi esclusiva della vita nel Lager, dove «la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente e ferocemente solo» [SQU, I, p. 84].
L’ambiguità del passaggio è data dall’espressione meno congenite, riferita alle coppie di contrari che Levi esclude nel suo metodo d’analisi. Essere un «sommerso» oppure un «salvato» è forse una caratteristica congenita? Sembrerebbe ovvio supporre che salvarsi, o essere sommersi, siano due attributi del tutto contingenti, fatti da valutare a posteriori, categorie narrative della memoria del sopravvissuto. Eppure, come risulta evidente, tra le due caratterizzazioni la contraddizione è netta: ciò che è congenito è per natura predeterminato e, sebbene generato dal caso, assume statuto di necessità. D’altra parte, se, come abbiamo supposto ovvio, la coppia sommersi/salvati fosse legata alla sorte del prigioniero, allora essa non apparirebbe molto dissimile dalla coppia disgraziati/fortunati. La coppia sommersi/salvati ha senso dunque solo se contestuale al lager, un laboratorio dove il comportamento dell’uomo è ridotto al grado zero. Dello stato di natura hobbesiano, il lager conserva la lotta per la sopravvivenza e la solitudine; e vi è la possibilità di differenziare la propria posizione grazie alla presenza di un sistema ordinatore esterno composto anch’esso di uomini, i quali possono facilitare o complicare la lotta attraverso premi di collaborazione. Tale è esattamente la fenomenologia cui Levi è interessato: capire i risvolti di questo laboratorio viziato, di un sistema che, come risultato più grottesco, produce la corruzione delle sue stesse vittime. Mentre per definire i sommersi uno dei sinonimi preferiti di Levi è Muselmann – un termine idiomatico del campo, con cui gli anziani designavano i deboli, gli inetti – per i salvati Levi usa il sinonimo sconcertante di adatti, lemma in apparenza neutro, scientifico, darwiniano, che però subito trascina con sé il quesito morale dell’adattabilità al lager. Sui sommersi, Levi è lapidario: «Soccombere è la cosa più semplice: basta eseguire tutti gli ordini che si ricevono, non mangiare che la razione, attenersi alla disciplina del lavoro e del campo. L’esperienza ha dimostrato che solo eccezionalmente si può in questo modo durare più di tre mesi» [SQU, I, p. 86]. Essi «sono stati sopraffatti prima di aver potuto adeguarsi» [ibidem]: senza adattamento non c’è scampo. Sopraggiunge uno status di morte prima della morte, ovvero «Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamare morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla» [ibidem]. Levi crea un’icona di questa condizione: «se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero» [ibidem]. Sono brani notissimi; ma occorre rileggerli alla luce di questo stretto legame tra mancato adattamento e soppressione del pensiero. Saranno collegati, di conseguenza, anche i due contrari: laddove c’è adattamento, dice Levi, si mantiene una certa consapevolezza di sé, una presenza alla realtà, un pensiero vigile.
La descrizione dei salvati merita un approfondimento maggiore. Levi nota subito che, dei vecchi prigionieri ebrei, tra coloro che sopravvivevano nel 1944 – dice proprio sopravvivevano e non sono sopravvissuti [SQU, I, p. 85]: ancora un segno che non si sta parlando di un destino biologico – nessuno era un prigioniero comune, ma si potevano dividere in tre categorie: a) medici, ciabattini, chiunque svolgesse una professione utile al campo o entrasse nelle grazie delle SS (giovani omosessuali, compaesani) e fosse in qualche modo, per questo motivo, ricompensato; b) individui che Levi definisce «particolarmente spietati, vigorosi e inumani» [ibidem] che divenivano Kapos o Capobaracca; c) infine, coloro che pur senza funzioni particolari avevano successo nell’organizzare per se stessi vantaggi materiali che li mettevano in luce di fronte ai potenti del campo.
È interessante notare che, di queste tre categorie, Levi si sofferma soprattutto sulla descrizione della Prominenz, nella quale fa convergere gli individui del primo e del secondo gruppo. È questo il cuore del capitolo, che nello stesso tempo anticipa e si lega al capitolo sulla zona grigia nei Sommersi e i salvati.
«In quanti modi si possa dunque raggiungere la salvazione, noi cercheremo di dimostrare raccontando le storie di Schepschel, Alfred L., Elias e Henri» [SQU, I, p. 88]. Due spie linguistiche caratterizzano questa frase: la parola salvazione (sostantivo per salvati) e l’espressione dimostrare raccontando, vero cuore della poetica leviana. Su entrambe torneremo più avanti. Per il momento, ci interessano le quattro storie che egli si accinge a narrare. Schepschel è un ex sellaio, uomo senza caratteristiche spiccate, che nel lager si arrabatta come può, rubando un oggetto, improvvisando spettacolini, vendendo qualche utensile da lui stesso costruito, ma che un giorno non esiterà a far fustigare il suo compagno Moischl, il complice dei suoi furti, al fine di mettersi in mostra col capo baracca. L’ingegner Alfred L., ex dirigente chimico, è uomo sulla cinquantina, metodico e disciplinato, la cui abnegazione nel mantenere un aspetto pulito, decoroso, rispettabile, viene letta da Levi come volontà di crescere nella stima altrui: salire di un gradino, guadagnarsi il rispetto attraverso un’immagine distinta. Alfred riesce nel suo piano: diviene capo tecnico del Kommando chimico, col compito di esaminare le nuove reclute.
Più interessanti ancora sono le storie diametrali di Elias e di Henri. Il primo, un nano dalla straordinaria forza fisica, adattabile a qualsiasi lavoro, infaticabile, un versatile tuttofare, insaziabile, giullare all’occasione, fornisce a Levi il materiale per una delle sue più interessanti riflessioni sulla categoria dei salvati:
Elias è sopravvissuto alla distruzione dal di fuori, perché è fisicamente indistruttibile; ha resistito all’annientamento dal di dentro perché è demente. È dunque in primo luogo un superstite: è il più adatto, l’esemplare umano più idoneo a questo modo di vivere. [...]
In lager, Elias prospera e trionfa. È un buon lavoratore e un buon organizzatore, e per tale duplice ragione è al sicuro dalle selezioni e rispettato da capi e compagni. Per chi non abbia delle salde risorse interne, per chi non sappia trarre dalla coscienza di sé la forza necessaria per ancorarsi alla vita, la sola strada di salvezza conduce a Elias: alla demenza e alla bestialità subdola. Tutte le altre strade non hanno sbocco.
Ciò detto, qualcuno sarebbe forse tentato di trarre conclusioni, magari anche norme, per la nostra vita quotidiana. Non esistono attorno a noi degli Elias, più o meno realizzati? Non vediamo noi vivere individui ignari di scopo, e negati a ogni forma di autocontrollo e di coscienza? Ed essi non già vivono malgrado queste loro lacune, ma precisamente, come Elias, in funzione di esse.
SQU, I, pp. 93-94
Infine Henri, opposto contrario di Elias, «eminentemente civile e consapevole» [SQU, I, p. 94], ventiduenne, poliglotta, giovane, colto; dalla morte del fratello, l’anno prima, ha chiuso ogni contatto affettivo e ha teorizzato e applicato i tre metodi essenziali per sopravvivere in lager: l’organizzazione, la pietà e il furto. Delle tre leve, la seconda è la più sconcertante: Henri, dice Levi, si è reso conto che proprio la pietà, sentimento primitivo e istintuale, fa breccia maggiormente negli animi abbrutiti dal lager, che siano prigionieri, Prominenten o addirittura SS. Egli, attraverso questa scoperta pratica, conduce le sue strategie di salvazione, trattando gli altri, senza nessuna eccezione, come strumenti nelle sue mani.
Dei quattro, solo la sorte di Henri è nota a Levi: ce l’ha fatta, è sopravvissuto. Non si pronuncia invece, poiché la ignora, su quella degli altri. È evidente che i salvati non sono necessariamente i sopravvissuti, anche se certamente è vero il contrario; i profili dei quattro salvati sono così diversi tra loro da non far dubitare su una qualsivoglia comunanza congenita. I salvati sono piuttosto una categoria di studio, un prodotto di laboratorio di particolare interesse; sbucati fuori da una reazione il cui risultato è iscritto soltanto nelle caratteristiche di uno dei due reagenti (il lager) ma non necessariamente in quelle dell’altro.
Dunque, sommersi/salvati è la prima distinzione analitica che fa da base per il grigio. Non va oltre, Primo Levi; l’urgenza, qui, è raccontare cosa accade all’uomo-cavia di Auschwitz – e le reazioni da descrivere sono molte. Questa classificazione resta lì, come un’etichetta provvisoria; l’esperimento verrà ripreso e approfondito in seguito.
II.
I testi di riferimento sull’Olocausto in cui compare il profilo di Chaim Rumkowski sono, al tempo in cui Levi scrive il suo primo racconto del 1977, tre in tutto: The Final Solution di Gerald Reitlinger (1953), di cui esisteva un’edizione italiana del 1962 edita dal Saggiatore; Bréviare de la haine. Le troisième Reich et les Juifs (1951), di Léon Poliakov, presto tradotto in Italia (Einaudi, 1955) come Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei; infine The Destruction of the European Jews, di Raul Hilberg, apparso però in Italia solo nel 1995, di nuovo da Einaudi. Proprio per la sua traduzione così tardiva (malgrado la prima pubblicazione in inglese nel 1961, e malgrado l’importanza capitale della sua ricostruzione storica), il testo di Hilberg non sembra da annoverarsi tra le fonti più prossime di Levi; oltretutto, bisogna considerare che Rumkowski, benché menzionato nella ricostruzione del rapporto tra Judenrat e gerarchie tedesche, non vi è mai descritto nel suo profilo di leader politico. Sembrano invece fonti decisive gli altri due testi.
Lo studio di Poliakov traccia un ritratto breve di Rumkowski (una pagina circa) che ha molti elementi in comune con quello di Levi. Poliakov si sofferma quasi esclusivamente sulla descrizione degli aspetti più esasperati del suo populismo e delle sue vanità leaderistiche, tra cui i poeti di corte, le monete e i francobolli con la sua effigie, i componimenti dei bambini delle scuole. Oltre all'importanza capitale dello studio di Poliakov, per cui è certamente molto probabile che Levi lo abbia acquistato e studiato, bisogna aggiungere che Levi medesimo, nel 1968, scrive la prefazione a un altro lavoro di Poliakov, Auschwitz. Nel presentare la ricostruzione storica dell’autore riguardo al lager in cui egli stesso è stato prigioniero, Levi sottolinea la tensione tra impossibilità di comprendere uno sterminio compiuto da uomini «diligenti, tranquilli, volgari e piatti» e la necessità di conoscerlo, al modo in cui si conoscono i sintomi di una malattia, in parte prevenibile, in parte inevitabile. Nelle parole di Levi, Auschwitz è ancora «intorno a noi, è nell’aria», come un’«infezione» che «serpeggia»; una caratterizzazione in cui al lettore di Levi non sfuggirà il rimando, la significativa anticipazione della categoria del contagio tra vittima e soverchiatore, che Levi prenderà in prestito da Manzoni proprio ne I sommersi e i salvati. Ma c'è di più: Levi riscontra nel testo di Poliakov la descrizione dei segni di questa infezione, vale a dire «il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale»3La prefazione a Auschwitz di Poliakov è ora raccolta in Opere, I, pp. 1175-77. . Possiamo certamente affermare che questa semiotica di Auschwitz sia già abbondantemente presente in Se questo è un uomo; nello stesso tempo, la climax ascendente che culmina nella viltà abissale appare in stretto legame con l’elaborazione del concetto di «grigio».
Nel testo di Gerald Reitlinger troviamo un ritratto di Rumkowski che ha più di un elemento in comune con la narrazione di Levi, e che desta impressione soprattutto per il contesto in cui lo si trova descritto. Per Reitlinger, la storia dei presidenti dei Consigli Ebraici dei principali ghetti europei è una storia di «suicidi o di esecuzioni capitali» in cui le “dittature del ghetto” del tipo di quella di Rumkowski restano comunque eccezioni. Egli elenca le sorti di Adam Czerniakov (Varsavia), Marek Biberstein (Cracovia), Abraham Rotfeld (Leopoli) Marcus Horowitz (Kolomea), tutti decani di ghetti che muoiono, eccetto Biberstein, suicidi; e qui, afferma Reitlinger, «gli esempi potrebbero essere citati a dozzine». Rumkowski invece, eletto dai tedeschi nel 1939, per cinque anni «fece il comodo loro». Il profilo politico del decano di Łódź è formulato in poche emblematiche righe: «Fuori del ghetto veniva trattato come un cane, ma all'interno del filo spinato gli era permesso di fare il re. Emise banconote con la sua firma e francobolli con la sua effigie, questo tipo di filantropo dall'aspetto gentile, in caffettano e criniera bianca, che se ne andava per il ghetto in una carrozza tanto dignitosa quanto scassata»4Gerald Reitlinger, La soluzione finale: il tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-1945, tr. it. di Quirino Maffi, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 86-87. . L'immagine della carrozza scassata sarà ripresa efficacemente anche da Levi; ma ciò che soprattutto colpisce è la struttura di questo giudizio, imperniato sulla contrapposizione fuori-dentro il ghetto, che in Levi diviene una chiave per leggere l'operato del decano. Inedita anche la versione di Reitlinger circa la fine di Rumkowski: egli sostiene che sia salito volontariamente sul treno per Auschwitz dopo essersi accorto che il discorso di Biebow agli ebrei del ghetto (circa una nuova deportazione “pacifica” a fini di lavoro) era un inganno.
Ciò che resta significativo, comunque, per l'autore di The Final Solution, è l'eccezionalità della parabola rumkowskiana nel ghetto di Łódź rispetto alle esperienze degli altri ghetti polacchi, dove i vari leader degli Judenräte o si suicidarono presto, colti da rimorso e dall'impossibilità di svolgere un simile compito, oppure non esercitarono di fatto alcun tipo di potere, restando quest’ultimo nelle mani della Gestapo che dettava gli ordini direttamente alle forze di polizia. La storia e la posizione di Rumkowski, la sua smania di comando, le sue velleità di dittatore carismatico, rimangono un caso isolato e dunque una tragedia individuale più che un fenomeno storico ricorrente; a questo tipo di lettura è indubbiamente molto sensibile il racconto di Levi, che non accenna al fenomeno storico degli Judenräte. A proposito del testo di Reitlinger è indispensabile aggiungere che fu, come è noto, l'oggetto del Promemoria steso da Luigi Meneghello: ossia, una sorta di recensione a puntate di The Final Solution che uscì sul mensile «Comunità», fondato a Ivrea da Adriano Olivetti, nei numeri di dicembre 1953 e di febbraio e aprile 19545I contributi di Meneghello su «Comunità» erano firmati con lo pseudonimo di Ugo Varnai. Il titolo Promemoria appartiene alpiccolo volume in cui furono ripubblicati in forma organica nel 1994, presso il Mulino (Bologna), gli articoli del 1953-54; Meneghellone firmava anche la prefazione. . È verosimile pensare che la rivista olivettiana circolasse in casa Levi, visto anche che Anna Maria Levi, sorella di Primo, era impiegata proprio presso l'Olivetti. L’opera originale di Reitlinger conta oltre seicento pagine, il Promemoria di Meneghello (firmato allora con lo pseudonimo Ugo Varnai, poi raccolto in volume, in ortonimo, nel 1994 presso il Mulino)appena cento: qui la figura di Rumkowski, come si indovinerà facilmente, non compare. Eppure, è possibile sia stata proprio questa recensione a dare notizia a Levi del volume del Reitlinger, che poi molto probabilmente avrà acquistato e letto in edizione italiana nove anni più tardi.
The Final Solution costituisce anche un possibile ponte per chi si voglia inoltrare nella letteratura sviluppatasi sulla figura di Rumkowski. Esso è la fonte di un romanzo che al «re dei Giudei» si ispira esplicitamente: si tratta appunto di King of the Jews di Leslie Epstein, scrittore statunitense figlio e nipote della famosa coppia di sceneggiatori di Casablanca. Pubblicato nel 1979, King of the Jews prende forma negli anni in cui Epstein sta compiendo il suo perfezionamento a Oxford: dove, per sua stessa ammissione in un’intervista al «New York Times», si era imbattuto in un affascinante resoconto della vita di Rumkowski. Il testo in questione, come dichiara lo stesso Epstein in un’intervista video (disponibile a questo link), è proprio The Final Solution.
Dunque il testo di Gerald Reitlinger, dopo aver intrigato Luigi Meneghello all'indomani della sua pubblicazione, dopo essere comparso in forma di recensioni/riassunto sulle colonne di «Comunità», continua a viaggiare dall'Italia all'Inghilterra come una spora che a distanza di molti anni si riattiva nelle menti di due scrittori; ossessionati – questo è l'elemento davvero sorprendente – dall’influsso di un medesimo personaggio. I risultati sono un racconto e un romanzo che escono a due anni di distanza (Levi 1977, Epstein 1979) e che (sarà un caso?) portano lo stesso titolo – King of the Jews, Il re dei Giudei.
C'è un'altra possibilità che deve essere presa in considerazione. Sia Poliakov che Reitlinger citano tra le fonti principali su Rumkowski un articolo di Solomon F. Bloom che esce sulla rivista statunitense «Commentary» nel dicembre 1948. L'articolo in questione è Dictator of the Lodz Ghetto. The Strange History of Mordechai Chaim Rumkowski – e si tratta del primo resoconto dettagliato della storia del Decano di Łódź. Nel porsi la domanda preliminare se Levi potesse aver letto l'articolo di Bloom, si avrebbe la tentazione di dare risposta negativa: spulciando tra le biblioteche d'Italia si nota che quasi nessuna di esse possiede i primi numeri di «Commentary». Ma questa considerazione si rivela sommaria al primo confronto testuale: leggendo Bloom ci accorgiamo che ci sono informazioni che Levi ha preso necessariamente e quasi sicuramente dal suo articolo. Il caso più macroscopico è quello dello stralcio di un verso su Rumkowski che Levi riporta nel suo resoconto: «dai suoi poeti-cortigiani fece comporre inni in cui si celebrava la sua “mano ferma e potente”» [L, II, p. 69]; le parole fra virgolette sono la traduzione di un verso della poesia-preghiera The Strong Arm riportata da Bloom nel suo resoconto, che il poeta di corte L. Berman dedica a Rumkowski dalle colonne del giornale «Getto Zeitung», nel giugno1941: «Our President Rumkowski / Is blessed by the Lord above / Not alone with brains and talent / But with a firm and powerful arm»6S.F. Bloom, Dictator of the Lodz Ghetto. The Strange History of Mordechai Chaim Rumkowski, «Commentary», VII, December 1948, p. 116. .
Di queste corrispondenze Bloom-Levi se ne possono trovare molte: qui ricorderò soltanto il doppio finale della storia di Rumkowski, che Levi sembra riprendere fedelmente da Bloom, quasi con una traduzione a ricalco. Ci sono poi alcune considerazioni nelle quali già si può cogliere una certa curvatura che Levi darà al suo personaggio: quando un folto gruppo di bambini viene deportato dinanzi agli occhi del decano, Bloom così commenta: «Since Rumkowski truly loved the young, this was the most tragic day in his life, but he was no man to be broken by tragedy, even his own»7Ivi, p. 120. ; oppure, riguardo al fatto che Rumkowski era debole di fronte ai piaceri della carne, ma solo fino a un certo punto, segue la considerazione che: «He was not mercenary. He was captivated rather by the psychological and political perquisites of his strange and – he dared to think – promising role. Like all dictators he affected to despise politics, to love order, and to protect his loyal subject»8Ivi, p. 115. .
Sembra dunque molto prossima al vero l'ipotesi che Levi abbia letto questo articolo. Che, tra l'altro, era accompagnato da un viatico di tutto rispetto. Nella presentazione del pezzo di Bloom si rivela che Maurice Merleau-Ponty, in qualità di condirettore di «Les Temps Modernes» ha chiesto il permesso di ripubblicare lo studio di Bloom così commentandolo: «The case of Lodz is especially important because it shows that the mechanism of Nazi power is the same even when it relies upon Jewish assistance; and that the passions which support such a power are the same, even when they grow in the mind of a Jew». L'articolo di Bloom viene effettivamente tradotto e ripubblicato, quasi contemporaneamente alla versione originale inglese, sul numero di dicembre-gennaio 1949 di «Les Temps Modernes»; e ci si potrebbe chiedere se Levi non lo avesse letto già a quell'epoca, stante l'ampia circolazione della rivista francese a Torino. Si potrebbe pensare a un numero acquistato proprio in virtù di quel pezzo, e letto e poi lasciato sedimentare nella memoria. Ma l'indicazione che Levi fornisce all'inizio del racconto – solo «Di recente» [L, II, p. 67] ha trovato notizie sulla vita e la storia di Rumkowski9Questa indicazione generale può dilatarsi o restringersi a seconda di quali fattori decideremo di prendere in considerazione. Levi lascia la fabbrica di vernici SIVA nel 1975; sette anni dopo esce Se non ora, quando?, romanzo accompagnato da una bibliografia di testi storici sulla resistenza nell'Europa dell'Est. Levi dichiara che l'idea del libro gli era venuta già nel 1972; ma varie testimonianze (che qui non è il caso di elencare) provano che l’intenzione era assai più remota. È possibile che le ricerche su Rumkowski si siano incrociate con le ricerche per il romanzo, beneficiando di un maggiore tempo libero? Tenendo a mente che la prima pubblicazione de Il re dei Giudei è del novembre 1977, verrebbe da pensare che le ricerche si siano concentrate soprattutto nel biennio 1975-77. Si tratta comunque di congetture cronologiche che, non supportate da verifiche, non possono ovviamente costituire la base di alcun ragionamento su Levi, né qui pretendono di riuscirvi. – è già sufficiente a farci scartare questa ipotesi, benché non scuota la convinzione che Levi si sia imbattuto nel resoconto di Bloom durante gli anni Settanta, grazie ai rimandi in nota offerti dai volumi di Poliakov e Reitlinger. Inoltre, sebbene la versione francese di «Les Temps Modernes» sia fedele al testo inglese, il traduttore René Guyonnet ne rovescia il primo paragrafo, inserendo come incipit una sentenza che nell'originale era solo un inciso: «Il est donné à peu d'hommes d'incarner les limites d'une société, à plus forte raison de deux. C'est ce que Mordechai Chaim Rumkowski, de Lodz, qui n'avait par ailleurs rien de remarquable, sut faire de façon rigoureuse»10S.F. Bloom, Dictature au ghetto. Le gouvernement de Chaim Rumkowski à Lodz, «Les Temps Modernes», 39, décembre 1948 - janvier 1949, pp. 96-121: 96. . Che Rumkowski rappresenti i limiti di una particolare società, e che la sua persona non abbia avuto niente di rimarchevole sono due considerazioni – lo vedremo tra poco – ben lontane dal profilo che ne traccia Levi, il cui interesse consiste, al contrario, nella parabola che assume la storia così come è raccontata da Bloom, in un incalzante procedere di fatti che sembrano ora decisivi ora del tutto superflui per cogliere il senso dell'operato di Rumkowski. Come Bloom dice bene da sé (citando peraltro un grande amore letterario leviano): «Under this autocracy a shadow state arose with all the panoply of the real. The panoply plays here the role of the precise detail in Gulliver's Travels: it persuades us, for a moment, that the fantasy is true. But the meaning of Swift lies elsewhere, and so does that of Rumkowski's state»11Dictator of the Lodz Ghetto, cit., p. 113. .
La quarta fonte leviana su cui voglio soffermarmi è la più misteriosa, sotterranea, sconosciuta, ma sicuramente non la meno decisiva. Anche perché si tratta di un testo, a differenza degli altri due, letterario. Nel 1967, Arnoldo Mondadori Editore pubblica per la collana «Nuovi scrittori stranieri» una raccolta di racconti del polacco Adolf Rudnicki intitolata I topi. Si tratta di sei tra i più famosi racconti di questo scrittore, attivo fin dal 1932. L'ultimo in ordine di apparizione – sia nella raccolta, sia per data di pubblicazione – è intitolato Il commerciante di Łódź e traccia un profilo storico e psicologico di Mordechai Chaim Rumkowski. Per Rudnicki, si tratta di una vicenda della sua storia nazionale che misteriosamente è stata ignorata dalla grande cronaca storica polacca la quale, all'epoca in cui pubblica il suo racconto, non ha mai creduto di dedicargli una monografia12«Ci siamo lasciati derubare di uno tra i più coloriti personaggi della storia dell'ultima guerra, visto che, almeno finora, non c'è un libro polacco che parli di quest'uomo e non sembra che un tale libro possa apparire presto». Adolf Rudnicki, Il commerciante di Łódź, in I topi, Milano, Arnoldo Mondadori, 1967, p. 212. Il racconto Il commerciante di Łódź esce in Polonia nel 1963, in una raccolta dallo stesso titolo. Il volume apparso da Mondadori raccoglie invece sei tra i più famosi racconti dell'autore, scritti in periodi diversi e tratti da raccolte differenti. La silloge originale, così come era uscita in Polonia, è stata tradotta in francese da Gallimard nel 1969 col titoloLe Marchand de Lodz. .
Il racconto di Rudnicki e quello di Levi sembrano avere innanzitutto lo stesso carattere di saggio-ritratto. Si legge nella quarta di copertina de I topi: «Un lungo saggio di sconcertante vigore narrativo, Il commerciante di Łódź, biografia e ricostruzione psicologica del vecchio ebreo che i nazisti misero a capo del ghetto, secondo per grandezza in Polonia solo a quello di Varsavia, e che, inebriato al potere, dimenticò la propria razza per trasformarsi in carnefice, nella sinistra parodia di un feroce dittatore». Un commento che si potrebbe facilmente scambiare per una recensione del racconto Il re dei Giudei di Primo Levi. Anche Rudnicki, come Levi, sembra più interessato all'uomo che al fenomeno; anche lui vuole scandagliarne i pensieri più che attribuirgli colpe; vuole ripercorrerne la storia per capire se c'è un punto in cui situare il non ritorno, la consapevolezza, l'autocoscienza, oppure se davvero Rumkowski visse «incantato di se stesso e della sua situazione». Rudnicki crivella il suo racconto di domande retoriche: «è possibile che non vedesse la propria miseria? Che non si accorgesse di essere diventato una caricatura? [...] è possibile che non capisse che con le sue azioni, a cominciare dal casellario da lui stesso preparato, faceva il tornaconto dei tedeschi? Se lo capiva, probabilmente pensava: e che rimedio c'è? Come agire in un altro modo? [...]Perché proprio lui? In che cosa era tanto diverso dagli altri? [...] C'è un uomo normale che ha bisogno di migliaia di cadaveri umani?». Ma questa non è solo retorica narrativa: è l'ansia di capire che provoca questa storia; è l'impossibilità di mettere a tacere le domande, di fronte alla vicenda del Decano di Łódź.Questo, più di tutto, avvicina i due scrittori: Rumkowski come il vaso di Pandora delle domande, che a loro volta ne generano altre, e queste altre ancora, senza possibilità di esaurimento; Rumkowski come frizione tra la storia di un popolo e una storia individuale.
Anche Levi è tormentato dagli stessi interrogativi, sebbene solo due volte ponga domande esplicite a se stesso: una volta lo fa per chiedersi, tutt'altro che banalmente, a racconto concluso, «chi è Rumkowski?»; nell'altro caso, si tratta di un inciso che compare solo nel racconto Il re dei Giudei, e che vale la pena trascrivere una seconda volta, così come – con la sua urgenza della voce – si presenta nella versione 1977 del testo: «Pronunciò molti discorsi, che in parte ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile: aveva adottato (deliberatamente? consapevolmente? o si era inconsciamente identificato col modello dell'uomo provvidenziale, dell'“eroe necessario” che allora dominava in Europa?) la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler» [L, II, p. 69]; ne I sommersi e i salvati, lo abbiamo visto, il medesimo passaggio – uno dei pochi che mutano in modo significativo – diventa affermativo, si arricchisce uscendo dalle parentesi in cui Levi l'aveva relegato nove anni prima.
Ciò che accomuna Levi e Rudnicki – i due ritrattisti di Rumkowski – è, in un certo senso, l'ossessione dello sguardo: di comprendere cioè cosa Rumkowski pensasse di sé, come si vedesse, come ragionasse delle proprie scelte. Ci sono poi ampie differenze: l'importanza che Rudnicki attribuisce alla retorica del lavoro di Rumkowski; la sua sete di denaro che per lo scrittore polacco diviene la prima causa delle sue scelte (di cui è segno evidente l'enfasi sul ruolo del commerciante nel titolo del racconto); e infine la svolta del 1942, quando iniziano ledeportazioni giornaliere dal ghetto. Secondo Rudnicki – così come secondo la maggior parte degli storici contemporanei che si sono occupati della vicenda Rumkowski13Ci sono poi alcuni storici che hanno ricostruito il profilo di Rumkowski, senza che però gli siano state dedicate monografie specifiche; la più particolareggiata è forse quella di Étienne Jaudel, La malediction du pouvoir, Jerusalem, Yad Vashem, 2004, in cui è presente anche una bibliografia dettagliata e aggiornata sul decano e sul ghetto di Łódź. Per quanto riguarda la vicenda personale di Rumkowski, i titoli più significativi (oltre allo studio di Jaudel) sono: Leonard Tushnet, The Pavement of Hell. Three Leaders of Judenrat, New York, St. Martin Press, 1972; Shmuel Huppert, King of the Ghetto. Mordechai Haim Rumkowski, the Elder of the Lodz Ghetto, «Yad Vashem Studies», 15, 1983, pp. 125-58; Michal Unger, Reassessment of the Image of Mordechai Chaim Rumkowski, Jerusalem, Yad Vashem, 2004. Appartiene invece al genere testimoniale Rumkowski and the Orphans of Lodz di Lucille Eichengreen (San Francisco, Mercury House, 2000). – prima del '42 è possibile in qualche modo, se non assolvere, almeno comprendere l'operato del Decano, in un certo senso immedesimarsi in lui, pensando che non avesse capito la follia nazista. Dopo, tuttoprecipita: come è noto, il 20 gennaio 1942 si svolge la conferenza di Gross-Wannsee, in cui si pianifica nel tempo di mezza giornata la «soluzione finale», e fa la sua prima comparsa il nome di Auschwitz, già campo di quarantena dalla metà degli anni Quaranta; solo dopo Gross- Wannsee il lager di Auschwitz diviene il cuore della deportazione e dello sterminio – ed è chiaro che la deportazione inizia proprio dai ghetti.
Difficile dunque pensare che Rumkowski firmasse il via libera alle deportazioni senza sapere, senza chiedersi, senza indovinare. Abbiamo citato, parlando della ricostruzione storica di Reitlinger, i suicidi di molti altri decani di ghetti: questi suicidi avvengono per la maggior partenel 1942. Levi curiosamente glissa del tutto su questo punto; stranamente, non distingue. Parladelle deportazioni verso Auschwitz, ma incastra l'informazione per dovere di cronaca, e non la lega alla storia di Rumkowski, non ne fa una tappa decisiva del suo percorso. Il fatto è che – forse – Levi non sta cercando il punto esatto in cui situare la colpa; forse, ma è un'anticipazione che verrà sviluppata più avanti, quello che gli interessa non è stabilire il giudizio ma ragionare su una storia, scomporla e ricomporla per capirla meglio, isolarne le componenti, psicologiche, contestuali, contingenti, ipotetiche. All'orizzonte non c'è nessuna pena. Si tratta di un'indagine sull'uomo.
Il racconto di Rudnicki non sembra dunque costituire una fonte minore; esso è anzi una buona pietra di paragone per misurare il procedere della narrazione di Levi, il modo in cui pesa i suoi concetti, senza cedere alla retorica, senza dire tutto e subito, senza lasciarsi andare a generalizzazioni grossolane. Non è questo il luogo per un confronto puntuale; conta qui sottolineare che è molto probabile che Levi avesse letto con attenzione Il commerciante di Łódź, che ne abbia tratto ispirazione, che proprio a partire da quel racconto si sia persuaso della forza e dell'urgenza che scaturivano dalla storia di Chaim Rumkowski. Lo si nota anche nei dettagli secondari: come quando, ne Il re dei Giudei, Levi riporta un breve sunto della vita di Rumkowski prima di diventare decano del ghetto, brano poi espunto da I sommersi e i salvati. Dice Levi: «già comproprietario di una fabbrica di velluto a Łódź, era fallito ed aveva compiuto diversi viaggi inInghilterra, forse per trattare con i suoi creditori; si era poi stabilito in Russia, dove in qualche modo si era nuovamente arricchito; rovinato dalla rivoluzione nel 1917, era ritornato a Łódź»[L, II, p. 68]. Una descrizione assai simile si legge in Rudnicki: «Era un tipico Lodzermensch, comproprietario di una fabbrica di velluto e di felpa. Fece fallimento e andò in Inghilterra per accordarsi con i creditori. Poi lo si trova a bazzicare in Russia dove riuscì a guadagnare parecchi soldi. Nel 1917, dopo aver perso tutto, tornò a Łódź».
Da notare, qui, che né Poliakov né Reitlinger fanno riferimento al passato “pre-ghetto” di Rumkowski. Rudnicki svela, in parte, la fonte da cui ha tratto queste informazioni: tale Szulman, «giornalista polacco ormai morto»; ma di costui non cita né il prenome né il titolo dell'opera in cui avrebbe raccontato la storia di Rumkowski15Sul conto di Szulman non ho trovato notizie certe. È possibile che Rudnicki si riferisse a Jakob Szulman, alcuni stralci del cui diario sono raccolti, con altre testimonianze, in Alan Adelson, Robert Lapides, Lodz Ghetto: Inside a Community under Siege, New York, Viking Penguin, 1989; in questi diari però ci si riferisce a Szulman come medico e non come giornalista. I diari di Szulman provengono comunque da archivi polacchi, dunque è possibile che Rudnicki li abbia consultati con facilità, mentre sembra davvero improbabile che Levi vi abbia fatto ricorso come fonte diretta. . Sembra difficile, però, pensare che Levi possa aver letto direttamente questa non meglio precisata fonte polacca primaria; è ben più probabile che abbia attinto direttamente al racconto di Rudnicki.
III.
In Lilìt e altri racconti, la storia di Rumkowski si trova all’ultimo posto nella prima sezione del volume, intitolata Passato prossimo: l’ultimo di dodici racconti, tutti legati all’esperienza del Lager.Il re dei Giudei è un tentativo di suggellare un percorso antropologico: lo stesso tentativo, con la stessa struttura, si ripeterà nel capitolo La zona grigia, in I sommersi e i salvati. I dodici racconti della prima sezione di Lilìt sono tutti dei ritratti; ciascuno di quei testi narra la vicenda di un personaggio: a Capaneo-Rappaport, che tiene la contabilità del bene e del male avuta in sorte nella sua vita e che, ancora in lager, si sente in credito, fa eco Il nostro sigillo dove un prigioniero- violinista strappa, nel suonare, un momento di evasione, di sospensione del tempo e dello spazio che concentra un intero lager intorno alla sua umanità brevemente riacquisita. Il giocoliere e Il cantore e il veterano sono, entrambe, storie di Kapos che agiscono con inaspettata clemenza. Ancora, Un discepolo e Lo zingaro sono incentrati su uno dei temi che torneranno nel capitolo sulla zona grigia dei Sommersi e i salvati, vale a dire lo shock dell’ingresso in lager, il rapporto tra lo Zugang (il nuovo entrato) e gli altri, i prigionieri anziani. Infine, la sezione Passato prossimo ci presenta ben quattro nostoi, storie di ritorni in cui si nota una differenza marcata tra i primi tre (Storia di Avrom, Stanco di finzioni e Il ritorno di Cesare), tutti improntati sulle tecniche di finzione a scopo di sopravvivenza, su una dissimulazione picaresca coronata dal vittorioso ritorno a casa, e il quarto racconto, Il ritorno di Lorenzo, in cui il protagonista è invece «un uomo che non sapeva mentire» [L, II, p. 65]. Lorenzo si fa tutta la strada del rientro a piedi, da Auschwitz fino alla soglia di casa. Una volta tornato alla vita normale ha perso però ogni energia di vita – lui che in lager aveva molti protetti cui, rischiando quotidianamente la pelle, forniva razioni supplementari di cibo; prende a bere e muore. Verrebbe da dire che Lorenzo finisce sommerso, secondo le categorie di Se questo è un uomo. I salvati sono invece gli altri tre: non dunque perché sopravvissuti (anche Lorenzo, tecnicamente, lo è), ma perché dotati di quello spirito di dissimulazione, di adattamento necessario a chi sopravvive: essi sono dunque gli adatti, secondo la categoria del capitolo decimo di Se questo è un uomo.
Al centro della sezione Passato prossimo c’è Lilìt, il racconto che dà il titolo all’intero volume: una storia interna e al tempo stesso esterna al lager. Interno è il pretesto: una donna che compare dinanzi a Levi e al suo compagno di lavoro dà il destro a quest’ultimo per raccontare, a «Primo l’epicureo», la leggenda legata al personaggio biblico: Lilìt diventa diavolessa dopo non essere stata riconosciuta pari all’uomo né da Adamo né da Dio; è golosa del seme dell’uomo ed è dunque madre di migliaia di diavoli, spiritelli maligni che «non fanno molto danno, anche se magari vorrebbero» [L, II, p. 22]. Lilìt diviene poi l’amante di Dio, dopo che Egli è stato ripudiato dalla sua prima compagna, la Shekinà (cioè la sua stessa presenza nel creato). La storia di Lilìt è piena di ossimori: nasce con un paradosso – un’uguaglianza naturale ma non riconosciuta che si trasforma in privilegio per l’uomo – e di paradossi e contraddizioni si alimenta finché, nell’unione con Dio, giunge al culmine dell’ambiguità. In essa si trova l’unico personaggio femminile di tutti i racconti della sezione Passato prossimo. Lilìt è la madre di tutti loro, se è vero che «Finché Dio continuerà a peccare con Lilìt, sulla terra ci saranno sangue e dolore» [L, II, p. 23].
Passato prossimo mette insieme racconti che Levi ha pubblicato negli anni 1975-81, a eccezione di Capaneo che esce per la prima volta sul mensile fiorentino «Il Ponte» nel 1959 e di Un discepolo, che risale al 1961. Della maggior parte degli altri racconti non si sa di preciso a quando risalga laprima stesura. Già in una lettera a Piero Calamandrei del 1954, Levi scrive: «Le confesso di aver messo mano in questi ultimi anni a qualche racconto, ma non mi piacciono e sono rimasti tutti a mezzo»17Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Firenze, Fondo Piero Calamandrei, busta 23, fasc. 4, ins. XXIV (Primo Levi). La lettera è stata pubblicata da Massimo Bucciantini in occasione della sua Lezione Primo Levi, tenuta l'11 novembre 2010 nell'Aula Magna della Facoltà di Scienze Naturali, Fisiche e Matematiche dell''Università di Torino. La si può leggere nell’appendice del volume Esperimento Auschwitz - Auschwitz Experiment, Torino, Einaudi, 2011, p. 167. . Si sta discutendo di un’eventuale pubblicazione di testi su «Il Ponte», rivista in cui effettivamente nel novembre 1959 comparirà, come detto, Capaneo. «Qualche racconto», dunque, esiste già. È inoltre nota la lettera con cui – siamo nel novembre 1961 – Italo Calvino, dopo aver apprezzato alcuni racconti leviani per i quali conia l'aggettivo «fantabiologici», ne commenta alcuni altri dedicati al tema-lager. Il suo giudizio non è altrettanto entusiasta: «Per i racconti d'altro genere, le possibilità sono minori. Quelli di lager sono frammenti di Se questo è un uomo che, staccati da una narrazione più ampia, hanno i limiti del bozzetto. E il tentativo di un'epica conradiana dell'alpinismo incontra tutte le mie simpatie, ma per ora resta un'intenzione»18Lettera di Italo Calvino a Primo Levi inviata da Torino il 22 novembre 1961, in Italo Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Arnoldo Mondadori, 2000, pp. 695-96. . Laddove i racconti «fantabiologici» di Levi avevano colpito positivamente Calvino («è una direzione in cui ti incoraggio a lavorare»), quelli «d'altro genere» – cioè ambientati in lager – gli sembravano, dopo Se questo è un uomo, limitati, miniaturistici, proprio perché staccati da una narrazione più ampia. Anche qui, comunque, il dato importante è che esistono già, sebbene non trovino ancora collocazione. Certamente sono tra quelli che compariranno in Passato prossimo: ma quanti, e quali?
Il problema che qui si pone non consiste tanto nel ricostruire il periodo di stesura di ciascun testo; per una tale cronologia non si dispone, finora, degli elementi minimi necessari. Piuttosto, la posta in gioco sarà stabilire fino a che punto la raccolta Lilìt sia stata pensata come un insieme organico di racconti strutturato in tre sottoinsiemi – Passato prossimo, Futuro anteriore, Presente indicativo – altrettanto organici.
Il mio parere è che Lilìt si possa considerare una raccolta la cui struttura è modulata senza costringere i personaggi in una cornice, eppure secondo un ritmo che scandisce il tempo e i significati all’interno dei quali il lettore si muoverà: inconsapevolmente, magari. In questo senso, eventuali scoperte o nuove acquisizioni sul periodo di stesura di ogni singolo racconto non confuterebbero il ragionamento che qui si tenta di fare. Se pensiamo ad esempio che tanto Capaneo quanto Un discepolo vengono parzialmente riscritti e ampliati per la pubblicazione in Lilìt, se si considera che Stanco di finzioni non è altro che il resoconto della vicenda descritta in Sfuggito alle reti del nazismo di Joel König (memoriale che Levi ha prefato nel 1973 per Mursia) e che Storia di Avrom è il riassunto di Storia di un ragazzo ebreo nella seconda guerra mondiale di Marco Herman (di cui Levi scriverà la prefazione nel 1984); ancora, se si considera che proprio Il re dei Giudei sarà reinserito ne I sommersi e i salvati; tutto questo ci spinge a ritenere Levi uno scrittore che pratica volentieri rimandi interni e autocitazioni, purché inseriti in un percorso di senso. Appaiono particolarmente appropriate, per questa analisi del rapporto tra racconto e raccolta, le categorie di testo e macrotesto con cui Maria Corti analizzò nel 1978 il Marcovaldo di Calvino: «Una raccolta di racconti può essere un semplice insieme di testi o configurarsi essa stessa come un macrotesto; nel secondo caso ogni racconto è una microstruttura che si articola entro una macrostruttura, donde il carattere funzionale e narrativo della raccolta»19Maria Corti, Testi o macrotesto?, in Il viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, p. 185. . Al di là delle raccolte narrative calviniane che furono oggetto di quello studio, ciò che interessa nella valutazione di Corti è l'idea che un certo insieme di racconti possa costituire un risultato (un macrotesto, appunto) diverso dalla somma dei singoli testi, cioè che si vada a creare una rete di significati che sorgono solo in virtù di quel dato accostamento, di quella specifica progressione.
Nel caso specifico del volume Lilìt e altri racconti, sembra proprio che la macrostruttura faccia acquisire forza ai racconti stessi; in Levi la «combinatoria di invarianti», per continuare con una terminologia strutturalista, è senza dubbio ricca e scientemente costruita. Se Calvino, probabilmente a ragione, trovava deboli gli sparsi racconti su Auschwitz, fragili appendici di Se questo è un uomo, essi assumono luce nuova nella parabola di Lilìt così come finora la si è analizzata. Lilìt, e anche il suo sottoinsieme Passato prossimo, possono costituire una tappa organica del pensiero di Levi, un'opera analizzabile come tale, una produzione di significato che si può e deve mettere in relazione col percorso da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati. Tutto ciò è in rapporto diretto col tema di queste pagine: sebbene l’espressione «vasta fascia di coscienze grige» [L, II, p. 73] compaia solo nel racconto 1977 Il re dei Giudei, Levi già pone al centro, nelle pagine dei dodici racconti di Passato prossimo, alcuni temi del secondo capitolo – La zona grigia – de I sommersi e i salvati: l’isolamento dello Zugang; l’ambiguità del ruolo dei Kapos; la complessità del rapporto tra sommersi e salvati in relazione all’adattamento al lager; il problema del mantenere la propria identità personale là dove domina il terrore e dove si dipana una strenua lotta per la sopravvivenza.
Rispetto a Se questo è un uomo, si ha l’impressione che questi stessi temi si alzino di un semitono (o «si abbassino di un’ottava», come Levi stesso dichiarerà ad Anna Bravo e a Federico Cereja nel 1987)20Anna Bravo e Federico Cereja, Ex deportato Primo Levi: un’intervista (27 gennaio 1983) «La Rassegna mensile di Israel», 2-3, maggio-dicembre 1987; oggi è raccolta in volume a cura degli stessi due autori: Intervista a Primo Levi, ex deportato, Torino, Einaudi, 2011 , che l’attenzione narrativa si trovi sempre più sbilanciata verso le eccezioni, verso tentativi di precisare una parola giuridica, quella di Se questo è un uomo, necessaria ma sommaria. La sezione Passato prossimo si regge infatti soprattutto su alcune storie di ambiguità con le quali inizia (storie di Kapos e di Zugang), di cui traccia una parabola biblica (Lilìt), e su cui culmina (Il re dei Giudei). Così, per dirla di nuovo con Corti: «Il modello ripetitivo, in quanto sotteso ai vari racconti, è la macrostruttura della raccolta, la quale può quindi parlarci della propria esistenza come tale».
Curiosamente, dell'esistenza come tale della sua raccolta Lilìt e altri racconti Levi ci parla per vie traverse. La prefazione a Moments of Reprieve è del 1986 (si noti bene, siamo nello stesso anno dell'uscita de I sommersi e i salvati, quando il capitolo sulla zona grigia è un fatto compiuto): questo volume riunisce, per il pubblico anglofono, i racconti di Passato prossimo insieme con alcuni tratti da un’altra raccolta, Racconti e saggi apparsa sempre nell’86 nelle edizioni del quotidiano torinese «La Stampa». Ecco il commento di Levi in proposito:
Col passare degli anni [...] mi sono accorto che la mia esperienza di Auschwitz era ben lontana dall’essere esaurita. I suoi lineamenti fondamentali, che sono oggi di pertinenza della storia, li avevo descritti nei primi due libri, ma continuava ad affiorarmi alla memoria una folla di particolari che mi dispiaceva lasciar estinguere. [...] In questi racconti, scritti in epoche ed occasioni diverse, e non certo su piano, mi pare che affiori appunto questo tratto comune: ognuno di essi si accentra su uno ed un solo personaggio, e questo non è mai il perseguitato, la vittima predestinata, l’uomo prostrato, quello a cui avevo dedicato il mio primo libro, e di cui mi domandavo ossessivamente se «fosse ancora un uomo». I protagonisti di queste storie sono «uomini» al di là di ogni dubbio, anche se la loro virtù, quella che concede loro di sopravvivere e li rende singolari, non è sempre una di quelle che la morale comune approva.
Pagine sparse, II, pp. 1314-15
È evidente che, almeno secondo la percezione che Levi ha della sua stessa opera, da Se questo è un uomo è cambiato qualcosa, si è aggiunto, o forse esisteva già ed è affiorato: i salvati hanno guadagnato spazio, si è acceso il riflettore su una parte di umanità finora in ombra, quella degli «uomini» (tali al di là di ogni ragionevole dubbio, sebbene virgolettati) che posseggono, si faccia attenzione, non un generico spirito di sopravvivenza, ma una specifica virtù che concede loro di sopravvivere. E la declina, Levi, poco più avanti: «Bandi, il mio “discepolo”, trae forza dalla santa gaiezza dei credenti, Wolf dalla musica, Grigo dall’amore e dalla superstizione, il Tischler dal patrimonio leggendario; ma Cesare dall’astuzia spregiudicata, Rumkowski dalla fame di potere, Rappaport dalla vitalità ferina» [Pagine sparse, II, p. 1315]. Un ma eloquente e misterioso unisce e distingue i due elenchi: tutte quante sono virtù da cui i personaggi traggono forza, eppure vengono tenute distinte da una diversa sfumatura qualitativa. Fede, musica, amore, superstizione, leggenda per il primo gruppo; astuzia, fame di potere, vitalità ferina per il secondo; apparentemente: virtù positive le prime, negative le seconde. Ma anche: virtù eminentemente umane le prime, animali le seconde, se perfino il desiderio di potere è reso con il sostantivo fame. Quelle del primo elenco sono virtù civili, acquisite, risultato di un’educazione e di una storia individuale; le seconde sono invece una sorta di patrimonio biologico degli uomini in questione, un marchio di nascita. Sono, insomma, molto più congenite delle prime: in corrispondenza con quanto già avevamo analizzato in Se questo è uomo.
Lorenzo è assente da questo elenco: ma forse il suo racconto è il liquido di contrasto per osservare più nitidamente gli altri, il sentore che questi momenti di tregua non sono che attimi, sprazzi, all’interno di una storia di sommersi; o forse – ma sono due letture che non si escludono a vicenda – in quel racconto il salvato, l’«uomo», è proprio l’amico Primo, anche lui dotato di una virtù, che Levi descrive in questa stessa prefazione: «Mi appare oggi evidente che questa mia attenzione di allora, rivolta al mondo ed agli esseri umani intorno a me, è stata non soltanto un sintomo, ma anche un importante fattore di salvazione spirituale e fisica» [Pagine sparse, II, pp. 1315-16]. Salvazione: evidentemente, come già si notava analizzando un passaggio di Se questo è un uomo, è questa la giusta derivazione di salvati, e non l’altro sostantivo salvezza. Entrambe le parole vengono dal latino salvus: incolume, illeso; ma si ritiene pure che salvazione derivi più direttamente dal verbo tardo latino salvāre, utilizzato per primo da Vegezio nell’accezione di conservare. In effetti, i due lemmi si distinguono soprattutto per essere l’uno (salvezza) la condizione del salvo, l’altro (salvazione) l’effetto del salvarsi; la salvezza è un atto compiuto, la salvazione una condizione che permane nel tempo22Fonti: Manlio Cortelazzo - Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, 1988; Alberto Nocentini, L’etimologico. Vocabolario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 2010. Il risultato, in certa misura, corrisponde anche all'analisi del lemma salvazione che si legge nel Grande Dizionario della Lingua Italiana diretto da Salvatore Battaglia: tra i dieci significati proposti se ne contano ben tre che hanno a che fare con la conservazione: preservazione dalle distruzioni (5); conservazione di una città (6); preservazione/mantenimento di una condizione positiva o ritenuta tale, di un bene morale o di un valore culturale. Non ci sono invece accezioni analoghe per il lemma salvezza. Infine, se il lemma salvazione ha come primo rimando quello cristiano (tanto come condizione ottenuta dopo la morte quanto come redenzione), suggerisco che l'etimologia leviana non segua questa pista, vista la sua formazione, la laicità che contraddistingue tutta la sua opera e anzi il netto contrasto con l'idea di salvazione in senso cristiano espressa inequivocabilmente in queste parole, tratte dal capitolo La vergogna de I sommersi e i salvati: «Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me, mite ed intransigente [...]. Mi disse che l'essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. [...] / Questa opinione mi parve mostruosa» [SES, II, p. 1054]. C'è poi una catena curiosa che si può ricostruire incrociando le etimologie proposte dall'Avviamento all'etimologia italiana di Giacomo Devoto (Firenze, Le Monnier, 1968): da una parte, salvare ha le sue radici nel latino tardo salvare (da salvus), che si sostituisce a servare. Nello stesso tempo, conservare deriverebbe da serbare, che a sua volta proviene egualmente dal latino servare. Sembra quindi che un filo diretto leghi queste due famiglie di parole, quella del salvarsi e quella del conservarsi. . Non a caso Levi chiamerà «la salvazione del capire» e «la salvazione del riso» due dei quattro percorsi che mettono insieme – da Giobbe ai buchi neri, appunto – alcuni degli autori prediletti in La ricerca delle radici. Ancora una volta risulterà evidente come i salvati non siano banalmente coloro che ce l’hanno fatta a sopravvivere, ma piuttosto coloro i quali hanno saputo conservarsi, in qualche modo, o almeno conservare qualcosa di sé in lager – e non necessariamente ci sono riusciti per mezzo di una virtù positiva.
Anche il compagno Primo Levi, Häftling 174 517, ha una virtù tutta sua che gli ha concesso la salvazione. Una parafrasi più ricca della sua definizione si trova in I sommersi e i salvati:
ho contratto dal mio mestiere un’abitudine che può essere variamente giudicata, e definita a piacere umana o disumana, quella di non rimanere mai indifferente ai personaggi che il caso mi porta davanti. Sono esseri umani, ma anche «campioni», esemplari in busta chiusa, da riconoscere, analizzare e pesare. Ora, il campionario che Auschwitz mi aveva squadernato davanti era abbondante, vario e strano; fatto di amici, di neutri e di nemici, comunque cibo per la mia curiosità, che alcuni, allora e dopo, hanno giudicato distaccata. Un cibo che sicuramente ha contribuito a mantenere viva una parte di me, che in seguito mi ha fornito materia per pensare e per costruire libri. [...] Lo so, questo atteggiamento «naturalistico» non viene solo né necessariamente dalla chimica, ma per me è venuto dalla chimica.
SES, II, p. 1102
La scrittura è il risultato di questo atteggiamento, ed è anche la prima prova inequivocabile della posizione di salvato. Certamente essa scaturisce da un’esigenza testimoniale; diventa tuttavia, in modo sempre più consapevole, l’evidenza di una condizione, l’atto dimostrativo – carico anche di disagio – di una tendenza congenita alla salvazione. La risultante di questa tendenza alla salvazione e del disagio intrinseco alla scrittura è uno dei fattori che producono l’opacità della narrazione, un’interferenza psichica contro cui Levi lotta di continuo: lo scrivere, il suo desiderio insopprimibile di raccontare, è prova e pungolo dell’inadeguatezza e della vergogna del salvato. In mezzo, tra l’attenzione di allora e la scrittura di adesso, c’è l’impossibilità di dimenticare – anche a quarant’anni di distanza – ogni minimo dettaglio dei «due anni di vita fuori legge» [Pagine sparse, II, p. 1315]: immagini, frasi in lingue sconosciute, odori; «a volte, ma solo per quanto riguarda Auschwitz, mi sento fratello di Ireneo Funes “el memorioso” descritto da Borges, quello che ricordava ogni foglia di ogni albero che avesse visto, e che “aveva più ricordi da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini vissuti da quando esiste il mondo» [RS, II, p. 911].
Una memoria che si rivela ossessiva e maniacale; Levi ne è probabilmente turbato fin da I mnemagoghi, scritto nel 1946, cioè in simultanea con i capitoli urgenti di Se questo è un uomo. In quel racconto, il giovane medico Morandi si imbatte in un bizzarro farmacista, Montesanto, che ricrea in laboratorio gli odori che evocano momenti significativi del suo passato. Montesanto sottopone a Morandi questi odori, sfidandolo a riconoscerli; eppure, a un certo punto,
Superato il disagio iniziale, Morandi stava prendendo interesse al gioco. Sturò a caso una quinta boccetta e la porse a Montesanto: – E questa?
Emanava un leggero odore di pelle pulita, di cipria e di estate. Montesanto odorò, ripose la boccetta e disse breve:
– Questo non è né un luogo né un tempo. È una persona. Richiuse l’armadio; aveva parlato in tono definitivo.
SN, I, p.406
Dopo queste parole, Morandi si congeda imbarazzato da Montesanto, scappa quasi, terrorizzato dalla possibilità di diventare come lui, un uomo custode di un passato invisibile imbottigliato ed etichettato, un uomo che tenta di riprodurre in laboratorio la singolarità massima: l’odore di una persona. Una delle paure che tormentano Levi da sempre: ridurre il singolo a una legge, la materia irregolare e ruvida a un giudizio apodittico piano, rendendola inconsistente. Proprio lui,salvato dall’attenzione ai particolari e agli individui, ha paura di svegliarsi in un mondo di formule autoritarie e inodori.
La prefazione a Moments of Reprieve rilegge dunque gli sforzi compiuti in Passato prossimo per dar voce all’irregolarità del singolo, e in questo denuncia lo scarto rispetto a Se questo è un uomo. Ma per trovare il ponte ulteriore che collega Lilìt a I sommersi e i salvati dobbiamo rivolgerci alla storia de Il re dei Giudei. Nel racconto di Rumkowski, i salvati possono entrare a far parte della schiera degli uomini ambigui, abbagliati dal potere, ma soprattutto dimentichi di sé, della propria fragilità, mortalità e miseria, come chiosa la storia di Rumkowski: dimentichi «che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno» [L, II, p.74]. Ne I sommersi e i salvati questi «uomini» al di là di ogni dubbio non sono più dipinti durante momenti di tregua, ma tornano dentro la storia terribile di un lager la cui memoria è stata rinchiusa, forse per troppi anni, in boccette non dissimili da quelle di Montesanto. Il racconto di Rumkowski in Lilìt è appunto una spia di questo passaggio, e sebbene non lo compia del tutto, ne prepara certamente la pista. Sarà Levi stesso a definirlo il punto focale della raccolta:
Uno di questi racconti [di Lilìt], a mio parere il più importante, riassume in poche pagine la storia di KhajimRumkowski, il presidente del Judenrat nel ghetto di Łódź: cèomnoeto, quest’uomo si adattò a tutti i compromessi pur di conservare il miserabile potere che l’investitura tedesca gli aveva conferito [...].
Itinerario d’uno scrittore ebreo (1984), in Pagine sparse, II, p. 1224
Il re dei Giudei si apre con la riproduzione recto-verso di una moneta, fatta coniare da Rumkowski nel ghetto di Łódź e raccolta da Levi sul suolo di Auschwitz. È l’unico esempio, nell’opera di Levi, in cui l’autore provi il bisogno di dare al suo testo un supporto materiale. Perché farlo? Certo, è davvero possibile – perché non credergli – che egli abbia ricostruito la storia di Rumkowski a partire dall’oggetto che aveva conservato; ma sembra che qui la presenza della riproduzione aggiunga qualcosa al testo stesso. Ripetiamoci mentalmente l’attacco, senza l’immagine: «Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa moneta...» [L, II, p. 67]: l’assenza della riproduzione fotografica non avrebbe fatto perdere al testo nulla della propria potenza espressiva. Si tratta a mio avviso piuttosto di un oggetto portato come prova processuale; spia, forse, che la storia è costruita, in questo caso, per un tribunale dei lettori, cui è rimesso un giudizio, e al quale il testimone consegna anche un reperto che conferma la propria versione, inducendo la giuria a prendere il caso sul serio. Il fatto che ci sia un imputato, con la relativa richiesta di un giudizio, è confermato poco oltre: «lui solo [...] potrebbe chiarire se parlasse davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva; ci aiuterebbe a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo giudice, e lo aiuta anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità di un uomo di recitare una parte non è illimitata» [L, II, p. 73].
Torna dunque il carattere giuridico (come lo definisce Levi stesso nella conversazione dell’87 con Anna Bravo e Federico Cereja) già presente in Se questo è un uomo; ma in questo caso non è una testimonianza dell’accusa; piuttosto, si avverte l’urgenza che il racconto non resti tale, perché esso pone delle domande complesse, perché non è chiaro, perché turba. Ecco che infatti, dopo avere narrato la parabola di Rumkowski, Levi lascia uno spazio bianco e afferma: «Una storia come questa non è chiusa in sé. È pregna, pone più domande di quante ne soddisfaccia, e lascia sospesi; grida e chiama per essere interpretata perché vi si intravvede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo, ma interpretarla non è facile» [L, II, p. 72].
La radice dell’aggettivo pregno – comunemente dal doppio significato di gravido e impolpato di succhi e liquidi – era stata usata da Levi in Se questo è un uomo solo nella seconda accezione, con riferimento ai succhi velenosi del carbone e all’odore del fenilbeta [SQU, I, pp. 67 e 133], dunque a sostanze tossiche, amare. È possibile che una vicenda come quella di Rumkowski sia nello stesso tempo velenosa ma non sterile, bensì feconda, gravida di sensi? Levi gioca in maniera volontaria con l’ambiguità di questo aggettivo; si direbbe che in tutto il racconto ogni elemento sia doppio, che ogni termine porti in sé il suo contrario. In nessuno degli altri ritratti, poi, il lettore era stato delegato a interpretare la storia stessa che gli veniva presentata. Qui invece si narra una vicenda che va oltre se stessa: un simbolo, dice Levi, ma anche un «significato [...] diverso e più vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, di ibridi impastati d’argilla e di spirito» [L, II, p. 73]. Da notare che il riferimento all’argilla ci riporta dritti alla nascita biblica di Lilìt, anche lei parte di un ibrido e condannata all’ambiguità. Dunque, non solo polisemia, ma una rete intertestuale – e un vero e proprio groviglio di significati tra loro ossimorici. La storia di Rumkowski «grida e chiama per essere interpretata», eppure essa è paragonabile ai sogni e agli auspici, dunque non certo a fenomeni naturali da interpretare secondo nessi scientifici di causa-effetto. Scordiamoci di trattare la storia di Rumkowski in termini sociologici: non è questo che la vicenda ci chiede, non è questo che il suo autore le chiede.
La storia del «re dei Giudei» non è neppure una parabola portatrice di messaggio: per Levi, come si dichiara proprio nella quarta di copertina di Lilìt, questa sarebbe una forzatura. Messaggio è però diverso da significato: un messaggio è volontario e dunque univoco, o almeno: non si può voler mandare messaggi contrastanti. Se i messaggi sono contrastanti non sono volontari, e viceversa. I significati invece possono essere contenuti in una storia – che li ha assorbiti e generati, per questo ne è pregna – per somiglianza, affinità, differenza, contrasto. I significati sì che possono convivere in contrasto.
In Lilìt, dunque, Il re dei Giudei appare una storia polifonica, ambigua, complessa, culmine di un passato prossimo carico di vicende individuali figlie del lager (e di una diavolessa), singolari dunque eccezionali, un luogo dove sono contenute – forse – storie della fascia grigia, ma un luogo dove questa stessa fascia non è ancora teorizzata. È sicuramente una tappa del percorso, e direi una tappa decisiva. La sua fecondità – che abbiamo interpretato come forza maieutica conseguente all’urgenza di un giudizio – mista alla sua carica velenosa – la paralisi del giudizio stesso di fronte all’ambiguità massima in cui è immerso il personaggio – sono le due caratteristiche decisive per comprenderne l’importanza.
IV.
In un dialogo con Vittorio Foa, Carlo Ginzburg afferma di essere incline a considerare la zona grigia in Primo Levi come una categoria analitica: «Io credo che quando Primo Levi parlava di zona grigia non volesse affatto assolvere tutte queste zone di grigio, tutt’altro: voleva mostrare che anche nelle zone grigie c’era un coinvolgimento morale, nel male e nel bene. [...]. Era una posizione analitica. Dopo aver analizzato tutti questi grigi uno può dare un giudizio morale, che di volta in volta implicherà una condanna o meno; però i due piani, quello analitico e quello morale, non coincidono». Secondo Ginzburg, insomma, la «zona grigia» di Levi non è un’etichetta, né un giudizio morale, ma una categoria d’analisi, che come tale è forse preparatoria rispetto al giudizio, preliminare al giudizio, ma non è essa stessa giudizio, e «il senso dell’invito a riflettere sul grigio è il contrario del detto “tout comprendre c’est tout pardonner”».
Utilizzata come mezzo concettuale d’orientamento, la zona grigia amplia la nostra cognizione del Lager, senza però condannare o assolvere più di quanto Levi non avesse già fatto in Se questo è un uomo. Una tale considerazione potrà apparire una scoperta banale, eppure se la pensiamo con la dovuta attenzione non lo è per niente: negare che Levi abbia conferito una funzione giuridica alla zona grigia, e ritenere che i due livelli – quello conoscitivo e quello morale – siano da considerarsi separati, equivale a rivendicare la possibilità che il percorso di Levi da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati non sia quello che procede da un ottimismo illuminista a una cupa epigrafe del presente. Piuttosto, implica l’idea che quel suo razionalismo come metodo, quel suo illuminismo come stile, quel suo costante desiderio di disamina concreta, siano – in maniera ancora più forte rispetto a quarant’anni prima, rispetto al primo libro – i perni de I sommersi e i salvati. Sarebbe semplicistico e riduzionista ritenere che un capitolo come quello sulla Zona grigia non abbia comportato un travaglio morale per chi lo ha scritto o non restituisca un pessimismo maggiore rispetto all’umanesimo di Se questo è un uomo. Eppure non sono totalmente d’accordo con Alberto Cavaglion quando sostiene che I sommersi e i salvati sia il più antileviano dei libri di Levi23Questa posizione è espressa in Alberto Cavaglion, Attualità (e inattualità) della zona grigia, in La memoria del male. Percorsi tra gli stermini del Novecento e il loro ricordo, a cura di Paolo Bernardini, Diego Lucci, Gadi Luzzatto Voghera, collana «Primo Levi Project Proceedings», 1, Cleup, Padova 2006, pp. 135-46. : non lo è, almeno se seguiamo la sua attenzione proprio all’analisi, alla distinzione, alla pesatura dei concetti, alla radicale differenza del quasi-uguale, alla distillazione come opera paziente, filosofica, del separare le parti dei composti per tornare agli elementi primi. Nel tempo, Levi continua, a intervalli diversi, a compiere la sua opera di distillazione, accorgendosi non solo che c’è ancora qualcosa da dire sul lager, ma che questo qualcosa dipende dalla possibilità di affinare l’apparato concettuale, il linguaggio d’analisi con cui avvicinarsi alle nuove cose ancora prive di nome. Come risultato, ecco che Levi genera – pregno anche dei significati della storia di Rumkowski – un testo tutto fatto di precisazioni, teso a sfatare miti, stereotipi, cristallizzazioni concettuali. Il pessimismo, se c’è, non è legato a un ripensamento sui meccanismi di Auschwitz, ma all’osservare l’azione velenosa e banalizzante del tempo sulla memoria, compresa la propria. Quel periodo, l’unico della sua vita vissuto in technicolor, stava cominciando a diventare grigio; per riflesso e per antidoto, anch’esso in parte velenoso, e anch’esso in parte grigio, Levi scrive I sommersi e i salvati.
Commentava Lorenzo Mondo recensendo Lilìt sul «Notiziario Einaudi»: «Perché, al di là dei rari divertissements, lo scrittore celebra in Lilìt la sempre giovane avventura della conoscenza, delle sue vittorie e dei suoi molteplici scacchi; è la lotta dell’intelligenza ordinatrice contro la confusione delle cose e degli eventi, contro una notte densa e malefica che, già lo ha detto, non è soltanto quella del lager». Potrebbe essere una delle chiavi di lettura del percorso leviano da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati: la tensione vitale tra l’ordine e il caos di cui parla Giovanni Tesio25Giovanni Tesio, Primo Levi tra ordine e caos (1987), in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di Ernesto Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, pp.40-50. , ma anche tra purezza e impurità, tra teoria e materia. È questo esercizio avventuroso che contraddistingue la sua poetica letteraria, è la storia che percorre tutte le storie. La «zona grigia» rappresenta uno dei materiali più resistenti in quest’epica battaglia: è strumento e avversario insieme, perché scivola continuamente di mano allorché si prova a usarlo; insidiosa, quasi maledetta, è una nozione che porta con sé la propria condanna. Ne I sommersi e i salvati l’incipit del capitolo La zona grigia annuncia di per sé questa difficoltà: «Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni» [SES, II, p. 1017].
L’operazione anti-intuitiva di questo capitolo vuole essere una strenua battaglia contro la semplificazione – cioè contro un desiderio legittimo e necessario –, fino ai limiti più estremi, cioè la melma indefinita dell’ambiguità del grigio. Senza la semplificazione, dice Levi, sarebbero minate «la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni». È una parafrasi per indicare i due fili che la sua trattazione sulla zona grigia tenta di tenere insieme: quello conoscitivo e quello morale. Davvero si può giudicare dopo aver conosciuto fino in fondo ogni cosa?
Il capitolo La zona grigia si svolge secondo un’oscillazione che si fa sempre più insistente, pressante: Levi è ora tentato di dare un giudizio universale al sistema concentrazionario, ritenendolo responsabile diretto della creazione della schiera di collaborazionisti e privilegiati, in altri momenti invece è indotto a fondare tutto sui distinguo, sui singoli casi, sui gradi di colpa, sulle attenuanti individuali. La parola letteraria è messa continuamente alla prova nella sua possibilità conoscitiva, nel grado di comprensione cui può giungere, anche con un materiale così vischioso quale è, appunto, il concetto di «zona grigia». Al tempo stesso, la conseguenza morale di questa analisi è posta insistentemente in discussione, interrogata, temporaneamente affermata per poi essere negata nel rigo successivo. Insomma: chi racconta e chi giudica, entrambi si trovano dinanzi al medesimo cortocircuito. In chiosa (sono le ultime sette pagine di La zona grigia), Levi racconta di nuovo la storia di Rumkowski. Poche sono le varianti stilistiche rispetto a Il re dei Giudei versione 1977: molto più macroscopica è la decisione di riproporre quella medesima storia.
Quello di Rumkowski è un racconto-limite, innanzitutto perché non si tratta propriamente di una vicenda di lager e perché, come abbiamo visto, è intrisa di ambiguità, contraddizioni, difficoltà. Perché Primo Levi sceglie proprio questo personaggio per chiosare il secondo capitolo dei Sommersi e i salvati? Ci sarebbero stati dei buoni motivi, infatti, contro questa scelta: era una storia già pubblicata due volte; e poi, è ambientata nel ghetto e non nel lager; e, sebbene sia anch’essa un prodotto della strategia nazista della soluzione finale, questa vicenda risulta comunque l'unica, in tutto I sommersi e i salvati, che non sia chiusa entro il perimetro di filo spinato del lager. Il ghetto ha sue caratteristiche strutturali peculiari: come il lager è uno spazio chiuso, ma mentre il primo nasce come universo concentrazionario di terrore e annientamento, il ghetto sorge invece all’interno di una città, con un grado di pianificazione minore; isolamento e stanziamento in attesa della deportazione erano gli scopi manifesti della costruzione dei ghetti; nel lager si concretizzava ciò che nel ghetto era annunciato: due diverse linee nell’industria della morte.
Perché Rumkowski, dunque? Perché non un aguzzino (come Franz Stangl, intervistato da Gitta Sereny, che Levi stesso cita ne I sommersi e i salvati, o come quello descritto da Simon Wiesenthal ne Il girasole)? Perché non un singolo Prominent, perché non la storia particolarissima di un Kapo, di una SS come Rudolf Höss o di un pentito come Albert Speer?
Possiamo formulare qualche ipotesi riassumendo alcuni tratti del personaggio fin qui analizzati: 1) perché «Non è un mostro, e neppure un uomo comune»; 2) perché «Rumkowski non fu soltanto un rinnegato e un complice; in qualche misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto di essere egli stesso un messia, un salvatore del suo popolo, il cui bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pur desiderato»; 3) perché «Paradossalmente, alla sua identificazione con l’oppressore si affianca, o forse si alterna, un’identificazione con gli oppressi»; 4) perché «è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo ma come ad un Signore»; 5) infine perché «Se è valida l’ipotesi di un Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere persino in condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà individuale» [SES, II, pp. 1039-1042].
Eccole tutte le unicità di questa storia: Rumkowski ha una personalità fuori dal comune e, come abbiamo già visto – si evince dalle prime quattro citazioni – si sente sia oppressore, sia Signore degli oppressi, cioè si identifica con entrambe le categorie; ora è il primo tra gli ebrei vessati dai tedeschi e ora un loro collaboratore. La complessità individuale è proprio questa: non si tratta di personalità schizoide, piuttosto della persistenza nel tempo di una doppiezza che non è frutto di dissimulazione, ma di convincimento. Il Doppelgänger di cui Levi parla in Dello scrivere oscuro [AM, II, p. 677] non è semplicemente un «inquilino del piano di sotto» (separato spazialmente da un solaio/membrana); al contrario, è un elemento del composto umano, magari isolabile nell’analisi – se condotta con lenta distillazione e filosofica pazienza – ma mescolato, legato chimicamente nella sua azione quotidiana.
La struttura di potere del ghetto fa sì che Rumkowski sia totalmente subordinato ai gerarchi nazisti, che lo considerano un ebreo come tutti gli altri, la cui vita è rimessa al loro arbitrio. Questo porta Rumkowski a immedesimarsi negli oppressi. D’altra parte, all’interno del ghetto,
Rumkowski è der Alter, the Elder, il Decano, il primo tra gli ebrei, designato a essere il loro signore. Ha pieni poteri. In un certo senso, la definizione che meglio gli si addice, insieme a quella di Re dei Giudei, è proprio quella di signore degli oppressi; se non fosse che non sono stati gli oppressi a designarlo loro capo, bensì quei tedeschi con i quali collabora e di cui esegue gli ordini, deportazioni di massa comprese. Qui risiede la sua doppiezza, ambivalenza, complessità storica, che sembrano legate al contesto del ghetto. Avrebbe potuto il lager produrre un’analoga posizione di potere? Forse no. Quindi si potrebbe dire, proprio seguendo il testo: Levi sceglie Rumkowski in virtù della specialissima doppia posizione che egli ha potuto assumere nel ghetto.
Eppure, l’ultimo tra i passaggi citati smentisce quanto sopra: Rumkowski si è intossicato di potere non a causa del ghetto ma nonostante esso. Dunque, attenzione: se finora pensavamo di trovarci davanti alla spiegazione delle manifestazioni del potere all’interno di un dato ordine socio-politico, adesso capiamo che siamo già oltre. Rumkowski ha avuto la sua parabola indipendentemente dal contesto del ghetto: è riuscito a rimanere attaccato al proprio obiettivo nonostante le circostanze avverse. Nello stesso tempo, sembra che Rumkowski possegga quelle caratteristiche adattive tipiche del salvato cui Levi si riferisce in Se questo è un uomo. Ma di nuovo, attenzione: occorre distinguere. Innanzitutto, Rumkowski non lotta per sopravvivere ma per mantenere il proprio potere. Non ha sviluppato meccanismi di difesa semplicemente per salvare la pelle; lo ha fatto per salvaguardare la propria posizione di comando. Contrariamente a quanto accade per i Prominenten del lager, non ha accettato il privilegio per sopravvivere, ma, per come Levi lo ritrae, ha fatto il contrario: è sopravvissuto per mantenere il proprio potere, invertendo scopi e mezzi. Levi espressamente riconosce che le condizioni del ghetto sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà individuale – come in effetti è accaduto nel caso di Adam Czerniakov e degli altri decani di ghetti europei che si sono suicidati. Invece Rumkowski al tempo stesso resiste al contesto e vi si adatta. Non si può negare però che la sua volontà individuale sia costantemente alimentata dalla sua peculiare posizione di potere – che vista dall’interno del ghetto di Łódźappare di potere assoluto, e vista dall’esterno è di subordinazione totale. Ma allora perché Levi insiste sull’intossicazione del potere nonostante il contesto?
È probabile che lo scrittore volesse mostrare le estreme conseguenze cui si giunge partendo da una iniziale conservazione adattiva (un adattamento che permette di conservare una data posizione di potere) a un ordine socio-politico che appare assurdo e mortifero. Un tale adattamento – prendere, da ebreo, le redini di un ghetto al servizio dei tedeschi – è sbalorditivo, fuori dal comune. Una volta compiuto questo passo, l’intossicazione prende piede, e allora sì, essa segue le caratteristiche specifiche del contesto entro il quale si sviluppa. Il passo iniziale invece è anti-economico, sproporzionato rispetto alle forze medie distribuite nell’umanità. Se è questo che Levi ci vuol dire, siamo vicini a Se questo è un uomo – ad Henri, ad Elias, a Schepschel e ad Alfred – e ad alcuni personaggi di Lilìt – Cesare, Rappaport – nello slancio, nella molla che dà inizio a questa parabola. Siamo invece lontani da entrambi i gruppi di personaggi per tutto quanto attiene all’intossicazione, al contagio, alla piega che prende la vicenda allorché si subisce la fascinazione del potere. Ed è in nome dell’esplorazione di questa seconda fase che Levi apre i cancelli di Auschwitz e fa uscire la zona grigia nel mondo. Fuori dal filo spinato, anche nel ghetto, dove comunque un minimo margine di libertà si dava, questa intossicazione di potere chiama in causa un grado maggiore di responsabilità.
Ricapitolando: la peculiarità di Rumkowski consiste nella perenne doppiezza (non dialettica) di cui è costituito il suo comportamento, che si è manifestato malgrado il contesto e non in virtù di esso: un altro elemento che ci allontana dalla lettura sociologica e ci riporta sul terreno letterario. D’altra parte, se la vita e l’agire di Rumkowski pongono un ipotetico giudice di fronte a una difficile presa di posizione, questo è esattamente lo stesso effetto che provocano in chi provi anche solo a raccontarne la storia. Raccontare e giudicare sembrerebbero allora indistricabili, contraddicendo così l’analisi di Carlo Ginzburg, che Cavaglion definisce infatti un «wishful thinking che suona come una difesa d’ufficio»26Cavaglion, Attualità (e inattualità) della zona grigia, cit., p. 141n. .
Eppure, qualcosa tiene in piedi entrambi i momenti, il racconto e il giudizio, li ordina e li separa; e non è altro che la narrazione, la possibilità di dare un inizio e una fine al «groviglio infinito e indefinito» [SES, II, p. 1017], senza per questo imbrigliare la realtà in una rete di concetti semplificati. Il racconto di una storia individuale è l’attività che esalta maggiormente Levi; quella, anche, in cui ripone maggiore fiducia. Non a caso la sua prima idea di romanzo, esposta anche ai suoi compagni durante la prigionia, era la storia delle avventure di un atomo di carbonio, poi realizzata nel Sistema periodico in forma di racconto breve. Un oggetto scientifico viene reso soggetto letterario: questa è l’operazione di Levi, dall’inizio alla fine. La narrazione è la sua specifica presa conoscitiva, anche analitica, sulla realtà: così si realizza la sua natura di centauro. Il valore euristico del concetto di «zona grigia» può compiersi pienamente – ed è questa forse la conclusione più sconcertante e al tempo stesso inevitabile – soltanto attraverso una storia individuale, che prepara il giudizio morale. Detto all’inverso, il punto d’accesso per l’analisi morale della zona grigia passa sempre attraverso il racconto di una storia individuale. C’è un passo dove Levi sembra giudicare il suo personaggio: «se [Rumkowski] fosse sopravvissuto alla sua tragedia ed alla tragedia del ghetto che lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul piano morale» [SES, II, pp. 1042-43]. Pare dunque che una sentenza di colpevolezza siastata emessa. Levi però non ne è soddisfatto, tant’è che subito controbilancia con una forte attenuante: «un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole» [SES, II, p. 1043]. E non si tratta di un’attenuante qualsiasi, bensì della ripresa di un passaggio teorico tra i più significativi e delicati dell’intero capitolo: il contagio tra carnefice e vittima, enunciato qualche pagina prima con la famosa citazione da Manzoni: «Lo sapeva bene il Manzoni: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”» [SES, II, p. 1023].
Il problema della degradazione e del contagio che le vittime subiscono in lager sembra proprio uno degli approdi teorici più densi e problematici di I sommersi e i salvati, un approfondimento sulla natura del potere di cui Rumkowski rappresenta l’exemplum; anche per questo desta meraviglia un passaggio di un intervento di Levi sulla rivista di Piero Calamandrei, «Il Ponte», dove già nel 1961 troviamo introdotto con forza e chiarezza questo aspetto della sua riflessione sul lager: «I funzionari del campo di Auschwitz, anche i più alti, erano prigionieri; molti erano ebrei. Non si deve però credere che questo mitigasse le condizioni del campo: al contrario. [...] Rileggete la terribile pagina del diario di Hoess in cui si parla del Sonderkommando, della squadra addetta alle camere a gas e al crematorio, e capirete cosa è il contagio del male».27Primo Levi, Testimonianza per Eichmann, «Il Ponte», XVII, 4, aprile 1961, pp. 646-650: 649. si tratta di un testo non ancora indicizzato in nessuna raccolta di saggi, né nelle Opere einaudiane, ora anch'esso registrato nella sezione «Scoperte recenti» del sito del Centro Studi Primo Levi di Torino. Siamo venticinque anni prima della pubblicazione dei Sommersi, e il tema del contagio del male è già presente, forte. Significativamente, è riferito all’altro exemplum con cui, insieme alla storia di Rumkowski, Levi sceglierà di chiosare il capitolo sulla Zona grigia: il Sonderkommando. Sembra davvero che l’occhio di Levi veda già davanti a sé questa declinazione del problema del male e della degradazione delle vittime28Un’analoga considerazione sul contagio del male si trova anche nella prefazione di Levi (1976) a La notte dei girondini di Jacob Presser: «Esiste un contagio del male: chi è non-uomo disumanizza gli altri, ogni delitto si irradia, si trapianta intorno a sé, corrompe le coscienze e si circonda di complici sottratti con la paura o la seduzione [...] al campo avverso. È tipico di un regime criminoso, quale era il nazismo, di svigorire e confondere le nostre capacità di giudizio»: Pagine sparse, in Opere, I, p. 1210. .
Ma torniamo per un momento al Manzoni de I sommersi e i salvati. Una considerazione preliminare: in un capitolo così tormentato sul piano argomentativo, in pagine dove si tenta di capire le radici e la fenomenologia del privilegio, e dei rapporti di forza in lager, i luoghi per cercare citazioni d’appoggio potevano essere la sociologia, l’antropologia, la storiografia. E invece Levi si affida a Manzoni, a Dostoevskij, a Thomas Mann: il suo campo del sapere è la letteratura, e in particolare gli scrittori di romanzi. Anche questo, probabilmente, è uno degli indizi su cui fare affidamento per staccarci dalla pista dei Sommersi e i salvati come «saggio storico». Quella citazione dai Promessi sposi non è poi semplicemente rafforzativa, ma, come detto, fa parte dell’argomentazione stessa. Si tratta di una considerazione morale di carattere generale che Levi estrae dalla scena del secondo capitolo in cui Renzo, subito dopo aver parlato con Don Abbondio e aver scoperto la causa del diniego del curato a celebrare il matrimonio, è accecato dall’odio per Don Rodrigo, e si figura nella mente i modi in cui potrebbe ucciderlo. «Camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile». È il comportamento del soverchiatore – Don Rodrigo – che provoca nel pacifico Renzo un impeto violento, spingendolo a ragionare secondo le categorie dell’oppressore. L’occhio narrante segue il percorso di Renzo, lo accompagna nei suoi passi pesanti e cadenzati, e attraverso la smania del corpo ha accesso alla sua mente, dipanando il filo dei pensieri, senza la paura – ma anzi col desiderio – di capire i lati più oscuri delle sue reazioni, le conseguenze più nere della sua vicenda, perché questa comprensione, per la storia, per il suo prosieguo e per la sua forza, è indispensabile. Certo, non c’è sovrapposizione possibile tra il personaggio di Renzo e quello di Rumkowski; il primo è mite e onesto, vittima di un sopruso che ha appena scoperto, di cui non si capacita, colto nel suo momento di massima rabbia29La citazione manzoniana prosegue infatti così: «Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento». Sul rapporto tra Levi e Manzoni in relazione al tema del contagio si è espresso Gian Paolo Biasin nel saggio Contagio: «Le parole di Levi allargano la portata della meditazione morale da una persona singola (il personaggio romanzesco di Renzo Tramaglino, che subisce la violenza di Don Abbondio, il prete codardo che rifiuta di sposarlo per paura di don Rodrigo) a un’intera generazione; e la natura del “pervertimento” causato dall’offesa è più sottile e pericolosa di uno scoppio di violenza, per di più puramente mentale: pullula in mille modi diversi, dall’abiezione all’infamia, dall’odio alla disperazione, dalla vendetta alla rinuncia» («Riga», 13, 1997, numero monografico dedicato a Primo Levi, a cura di Marco Belpoliti, p. 262). Tuttavia mi pare che l’allargamento di cui parla Biasin sia già presente anche in Manzoni, che infatti si esprime con una proposizione dai termini universali. È chiaro che Manzoni si sta riferendo, come caso specifico, a Renzo; ma forse che Levi, dopo aver delineato – se lo si può delineare – lo spazio della «zona grigia», non si concentra su alcuni personaggi specifici, non ricorre di continuo a storie singole per spiegare, descrivere, raccontare gli universali? Inoltre, Biasin sostiene che la violenza che pervade Renzo sia «puramente mentale». Ad analizzarlo più approfonditamente però, il brano di Manzoni si rivela più complesso: egli si immagina una violenza concreta, fisica, e si figura due diverse scene dell’omicidio di don Rodrigo. Prima lo strangola, poi si dissuade pensando alle misure di sicurezza del palazzo, e allora ripiega su un agguato molto simile a una scena di caccia. Sembra in effetti una fantasia lucida e animalesca insieme, raziocinante e strategica come lo può essere appunto il comportamento del cacciatore. È il pensiero di Lucia che lo dissuade una volta per tutte dall’omicidio: ed è questa, semmai, la differenza col contagio descritto da Levi, che invece non si arresta, perché non conosce redenzione alternativa, concreta o morale. ; Rumkowski è uomo cui è stato fatto balenare un privilegio terribile, lo ha accettato e lo ha mantenuto senza tentennamenti.
D’altra parte, se Manzoni muove i fili di un romanzo che, pur essendo «storico», è di finzione, Levi si trova a contatto con una materia reale, per questo più delicata. Ma proprio l’aver a che fare con una «mezza coscienza» realmente vissuta sembra intensificare la necessità di capire e, al contempo, rende molto più fragile, difficile e rischioso il giudizio. Certo, il problema del contagio, del pervertimento che il soverchiatore provoca nella vittima, o il potere di corruzione di un ordine infero, non possono salvare l’imputato dal suo tribunale. Ma appunto, possono costituire delle attenuanti. Levi, nel pieno del capitolo La zona grigia, non è già tanto sicuro di voler assurgere al compito di giudice. «La condizione di offeso, non esclude la colpa, e spesso questa è obiettivamente grave, ma non conosco tribunale umano a cui delegarne la misura» [SES, II, p. 1023]. Il paradosso è proprio la contrapposizione tra obiettivamente grave e tribunale umano: è in questo punto che la colpa si scinde dal colpevole: nei confronti della prima prevale il giudizio, nei confronti del secondo il desiderio di capire, mentre il giudizio sembra sospeso, incerto.
Il luogo però più sorprendente e rivelatore di questo atteggiamento leviano è la citazione dal dramma di Shakespeare Measure for Measure (1603/4), in particolare di un passaggio dell’atto II in cui Isabella, giovane suora, supplica Angelo, vicario del Duca, di graziare suo fratello, che ha appena condannato a morte per aver messo incinta la fidanzata prima di sposarla. Levi cita queste parole: «[l’Uomo] ...ammantato d’autorità precaria, / di ciò ignaro di cui si crede certo, / – della sua essenza, ch’è di vetro –, quale / una scimmia arrabbiata, gioca tali / insulse buffonate sotto il cielo / da far piangere gli angeli» [SES, II, pp. 1043-44].
Isabella ha chiesto udienza ad Angelo proprio per cercare di persuaderlo a concedere la grazia a suo fratello: tra i due si svolge un dialogo sull’autorità e sul potere, e sui vizi e le necessità che al potere si legano. La storia avrà poi un risvolto tipico delle vicende giudiziarie del Cinquecento: il cosiddetto monstruous ransom, ricatto mostruoso, in cui il magistrato chiede alla moglie del condannato di concedersi a lui in cambio della salvezza del marito. Analoga richiesta viene avanzata da Angelo a Isabella, in questo caso non moglie ma sorella, e nei due significati del termine. Essi sono i due personaggi chiave della vicenda, entrambi pervasi da paradosso e ambiguità: il primo – «A man of stricture and firm abstinence» (un uomo di severi costumi, probo e casto) [I, iv, v. 12], come il Duca stesso lo definisce, o anche, a detta di Lucio, amico di Claudio, «a man whose blood / Is very snow-broth; one who never feels / The wanton stings and motions of the sense» (il cui sangue è come neve sciolta, uno che mai sente friggere i sensi o ha un desiderio) [I, v, vv. 57-59] – si trova a subire, assunto il ruolo di vicario, la fascinazione del potere, che si manifesta con una condanna spropositata per Claudio e con il fremente desiderio di possesso sulla sorella, che sfocia nel mostruoso ricatto. Isabella, d’altro canto, che della purezza ha fatto la sua regola di vita (anche se è a un passo da prendere i voti, ma non li ha ancora presi, e per questo può conversare con uomini), deve far i conti con la contraddizione tra giustizia e misericordia, tra l’amore per le sacre regole e quello per suo fratello, e si accorge presto anche del potere ambiguo e fascinoso tanto della sua carnalità quanto della sua parola. È curioso che la prima frase con cui entra in scena, nel primo atto, sia (rivolta ad una consorella): «And have you nuns no farther privileges» (e sarebbero questi i privilegi di voi suore)? [I, v, v. 1]. Quali siano i privilegi di cui le consorelle abbiano parlato fuori scena non è dato sapere. Ma questa si direbbe un’entrata ossimorica: invece delle rinunce della vita monacale, Isabella considera i privilegi: il potere invece dell’obbedienza. In ogni caso, i versi che rendono meglio la tensione continuamente presente in Isabella sono quelli con cui si rivolge in prima battuta ad Angelo: «I have a brother is condemn’d to die; / I do beseech you, let it be his fault, / And not my brother» (Ho un fratello che è condannato a morte. / Condannate la colpa, vi scongiuro, / e risparmiate lui) [II, ii, vv. 34-36]. La colpa è scissa dal colpevole, perché è Isabella stessa, in prima persona, a giudicare come colpa l’azione di suo fratello. È un ragionamento che Angelo trova assurdo («Mine were the very cipher of a function / To fine the faults, whose fine stands in record, / And let go by the actor» «non sarei che uno zero, se punissi / le colpe già punite dentro il codice / assolvendo il colpevole» [II, ii, vv. 39-41]): è comprensibile, dacché egli incarna il punto di vista della legge. Lo scontro non è però il classico dilemma di Antigone tra logos dello stato e legami familiari: il terreno è piuttosto quello della tensione tra legge universale e individuo, tra giustizia trascendente e condizione del singolo.
È, né più né meno, il tema della «zona grigia»: uno dei poli estremi di questo concetto è quello in cui l’azione e l’agente si divaricano al massimo grado. Rumkowski, vicario anch’egli come Angelo, anch’egli sottomesso dal fascino perturbante del potere, ambiguo nella sua doppia faccia di giudice degli altri e vittima di se stesso, si sente esecutore di una giustizia universale in virtù di una nomina di cui ci sfugge il motivo. Chi narra la sua storia, d’altro canto, riconosce la colpa giuridica del condannato, ma è incapace di emettere il verdetto perché continuamente prova il desiderio di mettersi nei panni del colpevole. Isabella sembra infatti incarnare l’alter ego di Levi: non solo, a detta del fratello, «she hath prosperous art / When she will play with reason and discourse, / And well she can persuade» (quando vuole / è brava anche a parlare, come un retore / che gioca con le frasi e gli argomenti / per arrivare al cuore) [I, iii, vv. 179-81]; ma è anche scissa, così come lo è Levi (almeno in tutto il capitolo sulla zona grigia), tra comprensione universale e giudizio individuale, tra la legge e l’uomo, tra la purezza del principio e della regola e l’impurità con cui entrambi devono misurarsi nel quotidiano – sebbene Levi si rivolga a quest'ultima con più limpida disinvoltura rispetto a Isabella.
Nel ricostruire il contesto dei versi di Isabella riportati da Levi si nota ancora altro: l’intero discorso della giovane novizia è impostato su quattro passaggi chiave in cui sono racchiusi il paradosso, l’oscillazione e l’ambiguità morale in cui lo scrittore ci ha immersi nel descrivere la storia di Rumkowski e del grigio. La revocabilità della condanna («I, that do speak a word, / May call it back again»: «Noi ci parliamo / lanciando e richiamando le parole.») e la toga del giudice che – ossimoricamente, ma al modo di quella dello scrittore – richiama la clemenza («The marshal's truncheon, nor the judge's robe, / Become them with one half so good a grace / As mercy does» «il bastone /del maresciallo, o la toga del giudice, / che dia solo metà di quella grazia / che sa donare la misericordia» [II, ii, vv. 60-62]); lo scambio di ruoli, il prendere il posto di, che comporta il ripetersi del medesimo peccato – dunque l’idea, questa sì universale, che si è giudicati per il luogo morale che si occupa («If he had been as you and you as he, / You would have slipt like him; / But he, like you, would not have been so stern. [...] Would to heaven I had your potency, / And you were Isabel! should it then be thus? / No; I would tell what 'twere to be a judge, / And what a prisoner»: «Se mio fratello fosse stato voi, / e voi lui, voi sareste scivolato / né più né meno come lui, ma lui / non sarebbe di pietra come voi; Ah se il cielo mi desse la metà / del potere che è in voi, / e voi foste Isabella! Questa storia / avrebbe un'altra fine. Io saprei dirvi / cos'è un giudice, e cosa un condannato» [II, ii, vv. 63-65; 67-70]); infine l’abuso del proprio privilegio, naturale o politico, nell’esercizio tirannico della propria forza («O, it is excellent / To have a giant's strength; / But it is tyrannous/ To use it like a giant»: «Oh, che bellezza / sentire in sé la forza di un gigante! / Ma agire da giganti è prepotenza» [II, ii, vv. 112-14]).
La citazione shakespeariana di Levi è una possibile chiave con cui accedere alla storia di Rumkowski. Certamente, essa rappresenta una sottoscrizione della fragilità dell’uomo, ma anche – sorprendentemente – della sua ridicolaggine che è mista alla tragedia. Gli angeli piangono, certo, ma per quale causa? Per «insulse buffonate» («fantastic tricks») giocate («play») da «una scimmia arrabbiata» («an angry ape») dall’«essenza ch’è di vetro» («his glassy essence»). E Levi non completa il passaggio di Isabella, altrimenti sapremmo che, questi stessi angeli «with our spleens, / Would all themselves laugh mortal»: «che se fossero mortali come noi, morirebbero dal ridere». In più, i protagonisti di questa messa in scena tragicomica sono uomini che, pur messi costantemente di fronte alle proprie ridicolaggini e miserie, non rinunciano a sfidare la fortuna, a tenerle testa, come Isabella con il Duca, come Lilìt con Dio, come lo scrittore con una materia sempre più lontana e sfuggente. Non ci tragga dunque in inganno la sentenza di condanna che Levi sembra affermare; non la ha mai emanata. Il suo luogo è rimasto quello letterario della comprensione, dell’alternarsi dello sguardo del giudice con quello del giudicato, dell’occhio del singolo con la contemplazione dell’umanità. Il suo Rumkowski – per dirla in termini vichiani – ha smesso da subito di essere un vero fisico ed è diventato un ritratto ideale. È diventato, per usare le stesse parole di Levi, «figura simbolica e compendiaria» [SES, II, p. 1043] o anche, più esplicitamente, «una metafora della nostra civiltà: in specie, dello squilibrio in cui viviamo, ed a cui ci siamo abituati, fra l’enorme quantità di tempo e di energia che spendiamo per raggiungere il potere e il prestigio, e l’essenziale futilità di queste mete» [Itinerario d’uno scrittore ebreo (1984), in Pagine sparse, II, p. 1224]. Contemporaneamente, l’ambiguità e il grigio, latragedia e la farsa sono portate in trionfo proprio dal chimico Levi, lo scienziato attaccato alla materia, scettico nei confronti di ogni filosofia, partigiano dell’azione sulla teoria, che continua – al modo del mestiere cui si è dedicato per trent’anni – a distillare, separare, pesare con stoica pazienza; la «zona grigia» è uno strumento di questa analisi, particolarmente delicato, fragile, e che rimette anche al lettore la responsabilità del suo uso.
L’esito di questo lungo percorso ci consegna due impressioni in contrasto. Da un lato, la storia di Rumkowski echeggia il fallimento di ogni proposito di distinzione e chiarezza: non è la prima volta che, nella prosa di Levi, assistiamo a esperimenti falliti, a esiti improbabili, alla nascita di ibridi insospettabili e misteriosi; Il sistema periodico è al tempo stesso una carrellata di problem solvings e un palmarès di vittorie della materia imperfetta sulla cristallina teoria del libro, della lezione, della parola. Ma in questo caso non si direbbe che la storia del Decano di Łódź siunisca pacificamente all’elenco delle reazioni andate a male; pare, piuttosto, che ne divenga la metafora definitiva. A due livelli: metafora della vittoria schiacciante della singolarità dell’umana stortura sulla teoria; più in profondità, metafora dello scacco dell’opacità su quella chiarezza tanto invocata da Levi, anche come posizione etica32Si veda a questo proposito il saggio Dello scrivere oscuro (1976), in L’altrui mestiere, anch’esso in Opere, II, pp. 676-81. .
Eppure, questa negatività ha un contrappeso: la continua, vistosa lotta dello scrittore con l’oggetto della sua analisi, viscido, tossico, velenoso, opaco, ma anche gravido di sensi che egli continua nonostante tutto a osservare e a voler raccontare. Insomma: il risultato (la finale sospensione del giudizio) non inficia il processo sperimentale: certo, incoraggia una rilettura di tutta l’opera di Primo Levi sotto la specie dell’ambiguità, dell’oscurità, dell’opacità, del caos; e insieme rende giustizia alla narrazione, alla parola letteraria, la cui maestria non sta nella perfezione della tavola periodica, ma piuttosto nel saper dipanare il filo ingarbugliato delle vicende umane, separando gli elementi anche dove la mistura parrebbe refrattaria a ogni analisi.