Sulla “zona grigia” - Anna Bravo
Si potrebbe scrivere un libro sugli usi e gli abusi fatti del termine zona grigia; probabilmente si scoprirebbe che nessuna espressione ha avuto tanta fortuna ed è stata tanto travisata. Mi chiedo anzi se il suo significato originario non si sia perso. Sarebbe un peccato, perché ha una capacità straordinaria di farci riconsiderare il passato e di aprire squarci nuovi sul presente. Visto che a frequentare questo sito non sono soltanto i già esperti, richiamo i contenuti principali del concetto.
Una riflessione sul dominio totalitario nel Lager
Quello sulla zona grigia non è l’ennesimo discorso sul potere in generale – credo che a Levi sarebbe piaciuto poco un taglio così onnicomprensivo, dilatabile all’infinito. È una riflessione sulla natura del dominio totalitario nella forma compiuta che si realizza in Lager1«Finché tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui – il che finora è avvenuto solo nei campi di concentramento – l’ideale del dominio totale non è raggiunto», scrive Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità, Milano 1996, p. 626. ; i temi della “complicità” e della responsabilità sono vincolati a questo dato, che impone di non dimenticare mai la pressione spinta all’estremo e ininterrotta subita dai prigionieri. Coniando il termine, Primo Levi metteva a fuoco due lineamenti del potere nel sistema concentrazionario: l’ambiguità «che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio»2P. Levi, I sommersi e i salvati, in M. Belpoliti (a cura di), Opere, vol. II, Einaudi, Torino 1997, p. 1034. ; l'area multiforme di ruoli e funzioni creata dai nazisti per amministrare i Lager impiegando il minimo di personale tedesco, e per compromettere i prigionieri che quelle funzioni svolgevano, ricevendone in cambio vantaggi a volte rilevanti. Un meccanismo simile vige nel Gulag ed è stato descritto, fra gli altri, da Varlam Salamov e Aleksandr Solženicyn3Cfr. fra gli altri testi, di Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, Milano, Mondadori 1974, che ebbe poche recensioni e poca eco, e di Varlam Salamov, Racconti di Kolyma, Torino, Einaudi 1999. Di Salamov era uscito nel 1976, accolto con poco interesse, Kolyma: trenta racconti dai Lager staliniani (Savelli, Roma), e nel 1992 Nel Lager non ci sono colpevoli: gli ultimi racconti della Kolyma (Theoria, Roma). .
Nella definizione che ne dà Levi ne I sommersi e i salvati, la zona grigia è una realtà «dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi»; a popolarla, è «la classe ibrida dei prigionieri-funzionari [che] costituisce l'ossatura del Lager, e insieme il [suo] lineamento più inquietante»4P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1022. . Perché, simile in questo alle istituzioni totali studiate da Goffman5E. Goffmann, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell'esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 1968. , l'ordine concentrazionario si regge su un sistema di punizioni e privilegi che presuppone l’assenso o la tolleranza di una guardia, di un altro prigioniero collocato più in alto nella gerarchia dei deportati, in qualche caso di un comandante – il termine, yiddish e polacco, per indicare il privilegio era protekcja. Eppure ambiguità, ibridismo, contorni mal definiti, non vogliono affatto dire vaghezza.
Descrivendo la zona grigia, Levi distingue le diverse posizioni e atteggiamenti dei suoi abitanti. Ma non applica le categorie della ricerca sociale e psicologica – classe, ceto, cultura, temperamento, pulsioni, legame con la politica e le credenze religiose – che pure considera significative e che altri autori hanno impiegato. Sceglie di partire dall’interno, dall’analisi minuziosa e mirata della vita e morte in Lager, dove a dominare, insieme alla differenza fra vecchi e nuovi prigionieri, è quella fra i privilegiati e i non privilegiati. Il concetto di zona grigia è il risultato di questa analisi.
Il discrimine fondamentale è il rapporto con il sistema concentrazionario: l’importanza della funzione svolta, il potere sugli altri prigionieri che ne deriva. Una cosa sono i funzionari di basso rango – scopini, lava- marmitte, guardie notturne, stiratori dei letti, controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. Questi costituiscono «una fauna pittoresca, e in generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni "terziarie"»6P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 1023-4. . I “poveri diavoli” per lo più si limitano a soddisfare la passione maniacale per l’ordine diffusa fra le guardie, addirittura inventandosi una mansione, come gli stiratori di cuccette. Si tratta di lavori «innocui, talvolta utili», che non causano danni agli altri prigionieri.
Altra cosa sono i detentori di posizioni di comando, una sorta di élite dei prigionieri: i capi (detti Kapos) «delle squadre di lavoro, i capibaracca, gli scritturali, fino agli addetti a varie attività, talvolta delicatissime, presso gli uffici del campo, la Sezione Politica (di fatto, una sezione della Gestapo), gli archivi, il Servizio del Lavoro, le celle di punizione»7Ivi, p. 1024. . Questi prigionieri “funzionari” garantiscono la tenuta amministrativa del Lager, e possono manipolare disposizioni e documenti, per esempio spostando un prigioniero da un Kommando di lavoro all’altro, o ottenendo dalle guardie un trattamento meno duro per qualcuno. I Kapos delle squadre di lavoro assicurano la produzione per il III Reich e l’ordine nel campo – per questo tutti, anche quelli di basso grado, hanno un potere «sostanzialmente illimitato» sulla vita degli altri prigionieri, possono «commettere [...] le peggiori atrocità, a titolo di punizione per qualsiasi loro trasgressione, o anche senza motivo alcuno: fino a tutto il 1943, quando il bisogno di mano d'opera si era fatto più acuto, non era raro che un prigioniero fosse ucciso a botte da un Kapo, senza che questo avesse da temere alcuna sanzione»8Ivi, p. 1025. . Ma dal momento in cui comincia a servire i padroni nazisti e a infierire contro i compagni, il Kapo resta a sua volta imprigionato dal potere che esercita. Temuto e odiato dagli altri deportati, non potrebbe, anche volendo, rinunciare ai privilegi e ricollocarsi nella massa: sarebbe isolato, respinto, se possibile ucciso. Come nelle organizzazioni terroristiche, tornare indietro è una possibiltà non prevista.
A Levi interessano anche le motivazioni che spingono i prigionieri verso la zona grigia. La fame innanzitutto. A volte, intrecciati con la fame, il terrore, l'adescamento ideologico, il lucido calcolo inteso a eludere gli ordini. E «la voglia miope di un qualsiasi potere, anche ridicolmente circoscritto nello spazio e nel tempo». Lo cercavano i sadici, i frustrati, «lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro»9Ivi, pp. 1023, 1026. .
Levi invita però a non invischiarsi nella querelle sullo scambio di ruoli fra l’oppressore e l’oppresso. È vero che la rete dei rapporti umani nel Lager non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori; è vero che lo spazio fra l’uno e l’altro non era vuoto, «non lo è mai»10Ivi, p. 1020. . Ma non per questo si può sostenere che i ruoli di soverchiatore e di vittima siano interscambiabili. È un tema su cui «si sono dette cose vere e inventate, conturbanti e banali, acute e stupide: non è un terreno vergine, anzi, è un campo arato maldestramente, scalpicciato e sconvolto. [...] Non mi intendo di inconscio e di profondo, ma so che pochi se ne intendono, [...] non so, e mi interessa poco sapere, se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato ed assassino no; so che gli assassini sono esistiti, non solo in Germania, e ancora esistono, a riposo o in servizio, e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetistico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori della verità»11Ivi, pp. 1026-7. .
Con questo intreccio di fredda ironia e di protesta bruciante, Levi fa barriera alle attualizzazioni forzate, chiede di procedere con «mano più leggera, e con spirito meno torbido»12Ivi, p. 1020. di quanto non si sia fatto ad esempio in alcuni film, assume fino in fondo la singolarità del Lager. A dare un respiro universale al suo discorso (e non solo al suo) è questa adesione all’esperienza, non le false analogie.
I prominenti
Nel linguaggio del Lager, il termine “prominenti” si applica genericamente ai prigionieri membri della gerarchia concentrazionaria; ma è anche usato in modo selettivo per indicare quelli fra loro che godono di una condizione e di un trattamento "di riguardo", e che per questo si staccano e si distinguono dalla massa. Sono i “grandi funzionari” inseriti in luoghi cruciali dell'organizzazione, che per le loro capacità e abilità si sono resi indispensabili e hanno accesso alle notizie più segrete. A volte si tratta di detenuti di diritto comune, a volte di politici, che «erano anche membri di organizzazioni segrete di difesa»13Ivi, p. 1024. e a volte riuscivano a ottenere qualche miglioramento per tutti i prigionieri. In qualche caso diventeranno gli storici del loro campo, come Hermann Langbein per Auschwitz, Eugen Kogon per Buchenwald, Hans Marsalek per Mauthausen.
Pur collocando questi prigionieri fra i privilegiati della zona grigia, Levi precisa che «il potere di cui disponevano grazie alla loro carica era controbilanciato dal pericolo estremo che correvano, in quanto "resistenti" e in quanto detentori di segreti. I funzionari ora descritti non erano affatto, o erano solo apparentemente, dei collaboratori, bensì piuttosto degli oppositori mimetizzati»14Ivi, p. 1024-5. . Ma il discorso è breve, quasi contratto, e sorvola su due punti critici.
Il primo riguarda il rapporto fra privilegio e autoconsapevolezza, su cui Bettelheim esprime un giudizio duro. Questi prigionieri di "élite" «erano raramente immuni da un senso di colpa per i propri vantaggi [...] ma il massimo al quale di solito arrivavano era un maggior bisogno di autogiustificarsi. E si autogiustificavano come per secoli ha sempre fatto ogni membro delle classi dominanti, cioè sottolineando la propria importanza per la società (maggiore di quella delle persone comuni), il proprio potere di influire sulla realtà circostante, la propria istruzione, la propria cultura». Eugen Kogon, scrive Bettelheim, racconta«con un certo orgoglio che nella quiete della notte godeva della lettura di Platone e di Galsworthy, mentrenella stanza adiacente i prigionieri comuni appestavano l'aria col loro puzzo e russavano spiacevolmente. Egli sembra incapace di rendersi conto che soltanto la sua posizione privilegiata [...] gli consentiva la possibilità di godere della cultura, e che egli si serviva di questo piacere per giustificare la propria posizione privilegiata. Egli poteva leggere perché non tremava dal freddo, non moriva di fame, non era istupidito dall'esaurimento». Eppure non riusciva a ammetterlo. «Nessun uomo che sia fondamentalmente corretto e sensibile potrebbe fare altrimenti»15B. Bettelheim, Il prezzo della vita, Adelphi, Milano 1965, ora con il titolo originale Il cuore vigile (The Informed Heart), capitolo 5, Comportamento in situazioni estreme: le difese. Bettelheim, che non ha ostilità preconcette verso Kogon, ricorda che il fatto di aver accettato di prendere parte agli esperimenti sugli esseri umani (era stato segretario personale del medico capo di Buchenwald), gli ha poi consentito di testimoniare a Norimberga contro i medici nazisti. Ma in L'Etat SS. Le système des camps de concentration allemands, Seuil, Paris 1993 (I ed. 1947), molte volte ristampato, arriva a scrivere che «complicazioni psicologiche significative si avevano soltanto negli individui di una certa cultura o in coloro che erano appartenuti a gruppi o classi superiori» (pp. 302 segg.). Secondo Kogon, nota Bettelheim, «le classi colte non erano, dopo tutto, preparate per la vita nei campi di concentramento, e da queste parole sembrerebbe di poter inferire che i prigionieri comuni, invece, erano adatti a vivere in un campo di concentramento, oppure che essi non soffrivano di alcuna complicazione psicologica». , aggiunge Bettelheim. Ma la sua analisi contribuisce a spiegare come mai i prigionieri "comuni" guardino spesso ai prominenti con risentimento – che beninteso è tutt'altra cosa dall'astio nazista per gli intellettuali.
Il secondo punto su cui Levi sorvola è il potere delle organizzazioni politiche clandestine, che spesso si accompagna a paternalismo, autoritarismo, diffidenza verso gli altri deportati16C. Andrieu, Réflexions sur la Résistance à travers l'exemple des Françaises à Ravensbrück, Histoire@Politique 2/2008 (n. 05). Secondo Kogon, l’organizzazione avrebbe consentito di alzare contro le SS un muro elastico, che «ne pouvait être maintenu que si le camp était solidement organisé par les détenus eux-mêmes et fermement conduit. C’était la seule façon de maîtriser et même de protéger les éléments qui restaient en dehors de l’organisation, l’ignoraient ou manquaient de discipline». E infatti il social-cristiano Kogon arriva a approvare i metodi dei comunisti, «qui fournirent lesmeilleurs moyens de réaliser cette tâche». Eugen Kogon, L’Etat SS, cit., pp. 343 e segg. . Ma c'è un di più che ha risvolti tragici. Molti prominenti, in primo luogo i comunisti, portano in Lager il loro bagaglio ideologico di allora: il primato assoluto del collettivo, in questo caso il partito, sugli individui; l'imperativo dell’autoconservazione, spinto fino a far apparire legittima persino la scelta di “sacrificare” chi del partito non fa parte.
In un'intervista del 198317Intervista del 27 gennaio 1983 a Anna Bravo e Federico Cereja, di prossima pubblicazione. , Levi aveva affrontato proprio questo aspetto: «il reticolo di preparazione alla resistenza [...] aveva potere, in qualche caso, di vita o di morte, cioè erano in grado di mettere le mani sui fascicoli dell’anagrafe del campo e togliere un nome e metterne un altro. Quindi questo Kapo di cui dicevo prima [il Kapo era sparito improvvisamente, n.d.a.] poteva essere stato messo al posto di un selezionato, c’era modo insomma di pilotare in certa misura le liste di quelli che andavano in camera a gas. Lo stesso uomo che mi ha spiegato queste cose a cui ho chiesto: ma allora poteva capitare a me, non comunista, di finire in camera a gas per salvare un comunista? e mi ha detto, mah naturalmente [...]. Sono cose che non so commentare, penso che in qualche modo fossero giustificate, nel senso che solo loro potevano tenere in piedi, solo il PC, il partito comunista tedesco com’era allora, tutti i partiti comunisti come erano allora, cioè monolitici, potevano avere questa forza. E quindi credo che dovesse essere pure ammesso questo fatto, che potesse essere condannato a morte uno qualunque per salvare uno di loro. Non mi sembra più... non mi sembra una cosa così, così mostruosa». Il «più» suggerisce che prima gli fosse apparsa tale.
Ma I sommersi e i salvati non chiarisce il percorso e la posizione di Levi; si spinge a metterci sotto gli occhi un interrogativo enorme e all'epoca quasi taciuto18Il dibattito sul ruolo dei prominenti soprattutto comunisti vede convivere l’accusa di aver creato una “struttura mafiosa” e l’affermazione che il loro potere poteva a volte avere effetti positivi anche per i prigionieri comuni. Per un’analisi ampia vedi O. Lalieu, La zone grise? La Résistance française à Buchenwald, prefazione di J. Semprun, Tallandier, Paris 2005. Vedi le osservazioni di F. Sessi, Criminels par procuration. Sur l’auto-administration des détenus, in P. Mesnard et Y. Thanassekos (eds.), La zone grise entre accomodation et collaboration, Kimé, Paris 2010, pp. 67-80. Del volume si vedano anche i saggi introduttivi dei curatori e quelli di Claudio Pavone, Gustavo Corni, e Luba Jurgenson - Elisabeth Anstett. , e ci lascia a riflettere. Come potrebbe essere altrimenti? Alla base di quel potere di vita o di morte c'è la più tremenda fra le questioni politico/filosofiche della contemporaneità, il rapporto diritti individuali/progetto collettivo.
Una giuria di pari
Sebbene non sia universalmente condiviso, in tutto il mondo il termine zona grigia entra negli studi filosofici, femministi, di diritto, storia, teologia, cultura popolare. E diventa presto un riferimento ineludibile, che chiama in causa moltissimi autori, da Wiesel a Todorov, da Agamben a Card a Finkielkraut a Levi Della Torre a Cavaglion a Pavone a Lawrence Langer – troppi anche solo per nominarli. Al centro, spiccano alcune domande della contemporaneità e di sempre. Perché vertono sulla narrazione del dolore e della morte di massa, sui soggetti che hanno la titolarità per raccontarli, sul giudizio morale applicabile o meno ai comportamenti delle vittime, sulla possibilità di usare le parole del Lager per descrivere altre realtà. Sono questioni così complesse che non trovano mai formulazioni adeguate né risposte innocenti – o risposte tout court.
La prima domanda – il tormento massimo di Levi in quegli anni – è se la parola dei salvati sia in grado di rappresentare l'universo della prigionia19Non posso non ricordare qui la critica ferma (ma affettuosa) di Bruno Vasari, amico di Levi e vicepresidente dell'Associazione nazionale ex deportati, che rivendica l'autorevolezza del testimone, riprendendola in vari testi, vedi per es. La prevalenza della ragione sul sentimento nella testimonianza di Primo Levi, in E. Mattioda (a cura di), Al di qua del bene e del male. La visione del mondo in Primo Levi, Franco Angeli, Milano 2000. . Per lui come per Wiesel, il testimone “vero”, “integrale” è il sommerso, il musulmano, l’unico che ha conosciuto il campo dal punto più basso. «La demolizione condotta a termine, l'opera compiuta, non l'ha raccontata nessuno, come nessuno è mai tornato a raccontare la sua morte. I sommersi, anche se avessero avuto carta e penna, non avrebbero testimoniato, perché la loro morte era cominciata prima di quella corporale»20Primo Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1056. . La testimonianza dei sommersi è il non poter testimoniare, il salvato lo fa per loro, “per conto terzi”.
Ma anche dopo aver chiarito questo aspetto, resta aperta la domanda generale: è possibile costruire una narrazione adeguata del Lager? Nel concetto di zona grigia, e più in generale ne I sommersi e i salvati, Alberto Cavaglion avverte una discontinuità rispetto a Se questo è un uomo, dove Levi aveva ingaggiato un corpo a corpo con il linguaggio scommettendo sulla sua capacità di trasmettere l'esperienza. Ora ha perso quella fiducia.
Non del tutto, però, se è vero che ne I sommersi e i salvati preme l'impegno a costruire un'etica e una grammatica della testimonianza. Nell'Italia dei decenni Cinquanta/Ottanta, dove l'interesse degli storici per la deportazione è a dir poco avaro, ad alcuni supersititi tocca assumere un ruolo di supplenza. Levi riflette allora sulle derive e sui rischi della memoria, sullo scorrere del tempo che la appannerebbe, sul sovrapporsi di esperienze e racconti altrui, sull'impoverirsi del linguaggio esposto all'invadenza delle formule celebrative; invita a distinguere fra quel che si è vissuto e quel che si è sentito dire all’epoca e in seguito, insiste sulla necessità di sottoporre il ricordo al vaglio delicato e in apparenza impietoso che la certificazione della verità, sia pure circoscritta, impone. Mette in gioco se stesso e la propria scrupolosissima memoria22P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., in particolare La memoria dell'offesa, pp. 1006-16. Sul ruolo crescente della testimonianza nella trasmissione dell’esperienza e sull’“americanizzazione” della Shoah, vedi A. Wieviorka, L’Ère du témoin, Plon, Paris 1998. , creando, scrive Bidussa, una lingua capace di esprimere «qualcosa che non è solo vicenda, ma ventaglio di strumenti»23D. Bidussa, Gli storici devono uscire dall'atteggiamento etico, «La Stampa», 26 gennaio 2010. Di Bidussa vedi l’introduzione a I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2003. .
Si può allora dire, credo, che anche per il Levi de I sommersi e i salvati un discorso parziale è meglio che nessun discorso. Purché se ne dichiarino le aporie.
Torna qui la questione dell'indicibilità, così dura e complessa che forse non chiede neppure una risposta. Come scrive Agamben, «da una parte, infatti, ciò che è avvenuto nei campi appare ai superstiti come l’unica cosa vera e, come tale, assolutamente indimenticabile; dall’altra, questa verità è, esattamente nella stessa misura, inimmaginabile, cioè irriducibile agli elementi reali che la costituiscono. Dei fatti così reali che, in confronto, niente è più vero; una realtà tale che eccede necessariamente i suoi elementi fattuali»24G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz: l'archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 8. . È quel che intendono i deportati quando spiegano che sì, si può dire fame, ma quella era un’altracosa: la fame è un fatto reale, la verità della fame in Lager non ha nome. Già Lyotard aveva paragonato laShoah a un terremoto così forte da distruggere, insieme a persone e cose, gli stessi strumenti per misurare la sua intensità25J.-F. Lyotard, Il dissidio, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 81-2. . Il che non giustifica però chi neppure si sforza di immaginarlo26«Non soltanto l'inimmaginabile, l'indicibile e l'intrasmissibile [...] non costituiscono degli handicap alla trasmissione della memoria, scrive Jean-Michel Chaumont, ma ne sono al contrario dei vettori cruciali». Proprio ciò che vi è di irriducibile offre – secondo questo autore – la possibilità di creare una vera comunità d'esperienza fra le vittime e l'ascolto esterno, una comunità evidentemente ristretta, ma fondamentale, il filo rosso che garantisce la trasmissione non direttamente dell'esperienza in sé, ma la piena coscienza – della ragione e del cuore – che «i crimini e il genocidio nazista costituiscono una frattura della nostra storia, rispetto alla quale siamo tutti tenuti a situarci e che ne rifrange il corso sotto tutt'altra luce». J.-M. Chaumont, L'inimaginable, l'indicible et l'intransmissible au service de la transmission, relazione presentata al Convegno internazionale "Histoire et mémoire des crimes et génocides nazis", Bruxelles, 23-27 novembre 1992. : forse, prima che di indicibile, bisognerebbe parlare di non ascoltabile e di non guardabile, qualcosa che va oltre quanto si può e si vuole sapere.
Anzi, secondo Agamben il termine “indicibilità” è ingannevole allo stesso modo in cui lo è “olocausto”: tutte e due le espressioni conferiscono allo sterminio un’aura mistico/sacrale totalmente abusiva, tutte e due chiedono di abbassare lo sguardo, quasi legittimando chi lo distoglie. Mentre bisogna invece mantenerlo fisso, anche «a costo di scoprire che ciò che il male sa di sé lo troviamo facilmente anche in noi». Per quanto il Lager incarni lo stato d’eccezione al suo culmine, per quanto sia luogo di una morale capovolta in cui non è decente essere decenti, appartiene pur sempre all’esperienza umana27G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., pp. 30, 55. .
In quanto esperienza umana, però, come possono i comportamenti dei prigionieri sfuggire al giudizio morale? Qui il concetto di zona grigia esprime al massimo la sua capacità di complicare l'analisi – e subisce il massimo di equivoci. Per Agamben, è il simbolo e l’area in cui «le vittime diventano carnefici e i carnefici vittime», in cui «l’oppresso diventa oppressore e il carnefice appare a sua volta come vittima», perché tutti e due sono immersi in «qualcosa come un nuovo elemento etico [...] una zona di irresponsabilità [intesa in senso giuridico, n.d.a.] e di impotentia judicandi»28Ivi, pp. 15, 19 e segg. . Non è chiaro – lo notano sia Cavaglion sia Stefano Levi Della Torre29S. Levi Della Torre, Una nota critica a “Quel che resta di Auschwitz”, al sito Morashà.it. Dello stesso autore, vedi Mosaico: attualità e inattualità degli ebrei, Rosenberg & Sellier, Torino 1994. – come Agamben arrivi a questa conclusione. Oltre a rigettare le costruzioni simboliche sullo scambio di ruoli, Levi non nega affatto la possibilità di giudicare, ma la riserva a chi ha conosciuto il tempo senza fine del Lager. A chi è visitato periodicamente dal peggiore dei sogni: essere fra amici o in famiglia e ritrovarsi, lentamente o all’improvviso, solo «al centro di un grigio e ibrido nulla, e scoprire quel che ha sempre saputo. È in Lager, e niente è vero al di fuori del Lager. Tutto il resto era una pausa, o un inganno».
Levi chiede una cosa semplice: una giuria di pari. Storicamente, la parità fra giudicanti e giudicati riguardava il rango, per il Lager si misura sull'affinità dell'esperienza. E consente di sfuggire sia al sentimentalismo che tutto assolve, sia al moralismo astratto che pretende di assegnare voti in solidarietà e dignità ai prigionieri.
È come membro di quella giuria di pari che Levi fa incontrare il concetto di zona grigia con un interrogativo – il rapporto fra privilegio e sopravvivenza – non nuovo, ma mai affrontato con tanta radicalità. «I prigionieri privilegiati, scrive, erano in minoranza dentro la popolazione dei Lager, ma rappresentano invece una forte maggioranza fra i sopravvissuti»30P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1020. . A suo avviso, i salvati devono la vita in primo luogo alla fortuna e ad abilità personali, ma anche a una forma magari minima di privilegio: in un mondo dove la morte per inedia, o per malattie indotte dall’inedia, era il destino normale, la sola speranza stava infatti nel conquistare «un sovrappiù alimentare, e per ottenere questo occorreva un privilegio, grande o piccolo; in altre parole, un modo, octroyé o conquistato, astuto o violento, lecito o illecito, di sollevarsi al di sopra della norma»31Ivi, p. 1021. . Se in altri testi Levi distingueva soltanto fra i più vulnerati e i più resistenti, ora scrive che a sopravvivere non sono stati i migliori.
Il discorso semina sconcerto e dolore fra gli ex deportati. Alcuni di loro ribattono con un argomento avanzato da molti ed enunciato esemplarmente da Bettelheim: la casualità connaturata al destino dei prigionieri, l'irrilevanza strategica di quel che chiunque può fare o evitare di fare per salvarsi32B. Bettelheim, Sopravvivere, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 197-231. .
Ma questo è il medesimo giudizio di Levi, che lo àncora a una verità elementare: se la fortuna è capricciosa, il privilegio è volatile. In un mondo dove non c'è nessun perché, può succedere che il protetto (o il suo protettore) cadano in disgrazia, che il “buon” lavoro conquistato sia soppresso, che la gerarchia del campo si rimodelli con l'arrivo di gruppi agguerriti. Può succedere di vedere o ascoltare qualcosa di proibito, di finire tra i prescelti per una decimazione; e naturalmente di ammalarsi a morte. Il privilegio senza la buona sorte non basta, la buona sorte da sola a volte sì.
Da dove origina allora la reazione di molti ex deportati? Per alcuni, forse, da quel “a sopravvivere non sono stati i migliori”. Per molti, dalla sensazione di essere collocati nella zona dell'ambiguità per il solo fatto di aver salvato la vita. È decisivo, credo, il riferimento a Caino: «È solo una supposizione, anzi, l'ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico "noi" in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride»33P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. p. 1054. Il tema di Caino è ampiamente commentato da T. Todorov, Mémoire du mal, tentation du bien, Robert Laffont, Paris 2000, alle pp. 213-23. .
Anche se Levi passa dall'orizzonte del campo alla condizione umana, Caino resta il simbolo dell'odio fratricida verso il quale i nazisti spingono i prigionieri, a volte riuscendoci. E resta il fulcro di una interpretazione della prigionia: il Lager di Caino è il luogo di una guerra di tutti contro tutti, dove i sodalizi si trasformano fatalmente in complicità, i gruppi amicali in clan impegnati a scalzarsi reciprocamente, e non c'è rapporto se non all'interno dei gruppi etnici e nazionali. Una visione che si scontra con l'impegno di alcuni ex deportati a esaltare gli aspetti di solidarietà e di resistenza, a certificare che il progetto nazista di controllo totale dei comportamenti non è passato, che Hitler ha fallito. Tentativo pedagogico coraggioso e forse troppo generoso, valutazione controversa: il III Reich ha perso la guerra, ma ha fatto in tempo a distruggere milioni di vite e gran parte della cultura yiddish.
Per alcuni autori, e in altri testi per lo stesso Levi, il Lager non è sempre quello di Caino. Secondo Todorov34T. Todorov, Mémoire du mal, tentation du bien, cit. , anche nell'asprezza della competizione per la vita i prigionieri si sforzavano di preservare un abbozzo di contratto sociale “morale”, che sapevano necessario per non distruggere livelli minimi di convivenza. Fa parte di questo contratto il galateo del Lager di cui parla Levi in un'intervista, riferendosi a «un complesso di comportamenti che non avevano direttamente a che fare con la sopravvivenza ma che erano considerati di buona o di cattiva educazione». Come una certa «proprietà nel vestirsi, aveva importanza avere gli abiti, il cappello e le scarpe decenti, dico decenti tra virgolette [...]. Allo stesso modo era considerato un... uno sgarbo, come dire una... un atto di maleducazione parlare di crematorio, nel mio campo, o di camera a gas...»35Intervista del 27 gennaio 1983 a Anna Bravo e Federico Cereja, cit. . È una forma di tutela reciproca che non esclude affatto la violenza, e neppure certe forme di aggressività gratuita come i riti iniziatici in qualche caso pericolosissimi ai danni dei nuovi arrivati. Compiuti, spiega Levi, «con la crudeltà tipica delle scuole e delle caserme» – il Lager è anche una grande concentrazione di maschi (o prevalentemente di maschi); ma pochi altri autori nominano questo aspetto.
Da concetto a metafora
Oggi, e da molto tempo, si dice Lager parlando di un ospedale psichiatrico, di un carcere, di un istituto per anziani o per disabili. Il termine è entrato nel linguaggio corrente, non tanto per assimilare Lager e istituzioni totali quanto per rafforzare la denuncia di condizioni disumane. Altra cosa è usare categorie specifiche degli studi sul Lager per analizzare situazioni diverse. Cosa può dirci il modo in cui ne I sommersi e i salvati viene affrontata la zona grigia?
Innanzitutto, Levi mostra che comparare non significa fare il conto delle somiglianze e differenze fra due fenomeni; si tratta di “smontare” i concetti applicati al primo nelle loro componenti di base, per distinguere quelle che gettano nuova luce sul secondo, e quelle che li falsificano entrambi. Nel capitolo sulla zona grigia, si legge che «il Lager (anche nella sua versione sovietica) può ben servire da "laboratorio"». Per il Gulag, che Levi considera uno dei rari terreni accettabili di comparazione fra nazismo e comunismo, poche parole, ma immerse in una analisi del Lager così minuziosa e dettagliata da offrire a chiunque la possibilità di impostare una propria ricerca.
In secondo luogo, Levi mette in guardia, implicitamente, dal sovraccarico ideologico che grava, non solo in Italia, su quella comparazione. Non è solo per scelta estetica che detesta i toni oracolari o enfatici, che affida la trattazione più articolata del problema all'appendice dell'edizione per la scuola di Se questo è un uomo (1973); mentre il dibattito in materia si sviluppa nel luoghi canonici della cultura, libri, riviste – e quotidiani, che per loro natura spigono al botta e risposta, alle radicalizzazioni, alle diffide. È vero che, come dicono molti, il procedimento analogico deve arrestarsi di fronte al genocidio razzista e alle camere a gas36secondo Kaminski, autore del primo studio complessivo sui campi di concentramento novecenteschi, i Lager per lo sterminio immediato, Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka, non sono neppure Lager, sono fabbriche di cadaveri che rifiutano ogni comparazione con altri campi di qualsiasi tipo e di qualsiasi regime. Lo stesso vale per la funzione di sterminio di Auschwitz, dove i deportati sono sottoposti a selezione all'arrivo e quelli giudicati inabili al lavoro sono subito uccisi. A. J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi: storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino 1997. . Ma non per questo perde senso il confronto su altri terreni.
Nell'Italia degli anni Ottanta, invece, alla maggioranza degli studiosi ogni comparazione sembra abusiva: perché – si dice – rischia di relativizzare lo sterminio, ma soprattutto perché presuppone la coabitazione dei due regimi all'interno della categoria di totalitarismo – all'epoca ancora considerato da molti uno strumento propagandistico della guerra fredda.
Il fatto è che al comunismo anche molti non comunisti riconoscono la prerogativa delle buone intenzioni: pur avendone sotto gli occhi gli esiti, si insiste sul carattere progressivo e positivo dell'aspirazione originaria – come prescrive il “paradigma intenzionalista”, che giudica le azioni non dalle loro conseguenze, ma dai principi guida. I vuoti di conoscenza e le distorsioni propiziano queste e altre cecità, che riguardano praticamente ogni corrente della sinistra vecchia e ex nuova, e quasi tutti i suoi padri simbolici. Tanto forte è il bisogno di preservare una speranza sull'emendabilità del comunismo.
Cruciale per la storia delle idee nel Novecento, questo spaccato è solo un frammento della vicenda di Levi. Che fra quei padri simbolici rientra, controvoglia e in posizione appartata. Ma non tanto appartata, credo, da impedirgli di cogliere le derive del dibattito, il suo corredo di scomuniche reciproche, il suo carattere ripetitivo – quante volte a una efferatezza nazista si ribatte con una efferatezza comunista, e viceversa. Cosa avrà pensato di fronte a certi toni ultimativi dell'Historikerstreit, la querelle iniziata nel 1986 sul carattere di evento unico del genocidio37Il punto d'inizio – 1986 – è uno scritto dello storico del fascismo Ernst Nolte, che si chiede se la riluttanza della società tedesca a confrontarsi con un passato così spaventoso non sia in una certa misura legittima; e se la concentrazione sulla Shoah non distragga da altri fatti del periodo nazista, e «dai genocidi in atto ieri nel Vietnam e oggi in Afghanistan». Il passo successivo riguarda la genesi della Shoah: ossessionato dall'idea che la rivoluzione di ottobre fosse un frutto del giudaismo internazionale, Hitler avrebbe agito nella convinzione di essere obiettivo di un progetto di annientamento da parte dell'Urss. Lo «sterminio di classe» dei bolscevichi e i Gulag sarebbero dunque il «prius logico e fattuale» e il modello dei Lager, e la Shoah se ne distinguerebbe solo per la "tecnica" delle camere a gas. Per altri autori, le somiglianze fra nazismo e stalinismo non possono far dimenticare le differenze: la dimensione dello sterminio (europea in un caso, interna all'Urss nell'altro), e le sue modalità organizzative (in Germania un sistema burocratizzato e industrializzato, in Urss «una brutale mistura di eccessi da guerra civile, di 'liquidazioni' in massa, di schiavismo e sfruttamento»). Più in generale, la comparazione è ritenuta legittima esclusivamente all'interno di contesti affini, non con realtà culturalmente lontane come per esempio la Cambogia di Pol Pot. La controversia è presentata e commentata da G.E. Rusconi (a cura di), Germania: un passato che non passa, Einaudi, Torino 1987. ? O di fronte a alcuni paladini del Lager che mostrano di conoscerlo poco e male?
È un clima in cui Levi non può accasarsi. Sta su un altro scenario, su un altro asse cronologico, quello del lungo e graduale costituirsi della memoria del genocidio38A. Wieviorka, in Déportation et génocide: entre la mémoire et l'oubli, Plon, Paris 1992, ai capitoli Le ministère Frenay et les déportés e Les déportés juifs, ne ricostruisce finemente le tappe e le motivazioni. Sulla consapevolezza dello sterminio fra gli intellettuali, cfr. E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, il Mulino, Bologna 2004, dove si analizzano le posizioni di maestri come Hannah Arendt, Guenther Anders, Levi, Sartre, Celan, Améry. . Una memoria esposta a una doppia minaccia: affermando l'unicità e irripetibilità dello sterminio si può indebolirne la funzione di monito universale; abbandonando quella tesi si rischia che il Lager sprofondi nella voragine dei crimini novecenteschi. Levi sa di essere considerato il titolare primo della lotta per impedire questi esiti; sa che la sua autorevolezza nasce dall'esperienza diretta del Lager e dalla riflessione pluridecennale cui si è dedicato. Di qui la scelta di narrare esclusivamente quello che ha vissuto in prima persona – una promessa di veridicità e insieme un'applicazione del principio “a ciascuno il suo”. Il “suo” è il Lager, non il Gulag, non la comparazione fra i due, che lascia, a malincuore, agli specialisti. I sommersi e i salvati non vuole affatto essere una storia dei sistemi concentrazionari novecenteschi.
Oggi lo stato della ricerca è molto cambiato, e così il clima; la comparazione fra nazismo, comunismo e altri sistemi totalitari è auspicata e praticata. Ma proprio grazie a questa maggiore libertà, si può scoprire che resta ancora molto da esplorare all'interno stesso del mondo concentrazionario nazista. Per la zona grigia, un esercizio necessario e ancora da completare è capire se abbia le stesse caratteristiche e si realizzi allo stesso modo in tutti i Lager e per ogni categoria di prigionieri – a cominciare dalla differenza fra donne e uomini, che molti citano in modo commosso e sommario, e Levi con loro.
Nel campo femminile di Ravensbrück le Kapo non erano meno feroci dei loro omologhi di Buchenwald o Mauthausen, la lotta fra prigioniere poteva essere violentissima, ma non c’era l’equivalente dell'“iniziazione” maschile, e tra le comuniste francesi l'atteggiamento verso l’organizzazione politica non era paragonabile a quello degli uomini39C. Andrieu, Réflexions, cit. . Forse perché le donne non avevano ruoli di altrettanto rilievo, forse perché in genere erano militanti e non dirigenti. O perché la loro scala di priorità era più duttile, più aperta alla valutazione caso per caso. Certo è che le esperienze divergono, confermando la pluralità delle situazioni, e nello stesso tempo suggerendo una domanda in più alla storia di genere.
Per decenni si è identificata la “differenza” delle prigioniere nella maternità, la fecondità, la minaccia sessuale da parte dei guardiani, le relazioni familiari e quelle parafamiliari nate in Lager, il rapporto con il corpo, su cui esistono analisi importanti40In questa sede, devo limitarmi a citare il bellissimo D. Ofer, L.J. Weitzman (eds.), Donne nell'Olocausto, Le Lettere, Firenze 2001. Un esempio chiarissimo (non un modello!) della differenza si coglie confrontando l’esperienza del corpo53T. Des Pres, The Survivor. An Anatomy of Life in the Death Camp, Oxford University Press, New York 1976. affamato narrata da Jean Améry, Intellettuale a Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 35, 37, 39, 40, 54-55, e da Margareta Glas-Larsson, Survivre dans un camp de concentration. Entretien avec Margareta Glas-Larsson, commenté par G. Botz e M. Pollak, «Actes de la recherche en sciences sociales», 41, 1982, pp. 4-28. Mi permetto di rimandare anche all’Introduzione di A. Bravo a Donne nell'Olocausto. . Specificamente sulla zona grigia si è scritto poco, e varrebbe la pena leggere in questa prospettiva la preziosa memorialistica femminile e i saggi spesso molto belli usciti in questi anni.
Qui mi limito a un'osservazione: se anche per le donne si può parlare di zona grigia, è perché esiste una fascia di prigioniere che fa parte della gerarchia interna, esercita certe funzioni, vive le contraddizioni che ne derivano. A maggior ragione, se si guarda a una realtà esterna, bisogna chiedersi quali tratti siano almeno parzialmente associabili alla zona grigia, e se bastino a reggere l'analogia.
Un buon esempio è il lavoro di Claudia Card sulle mogli di proprietari di schiavi. Per quanto oppresse dal potere maritale, queste donne sono in condizione di opprimere a loro volta altri più vulnerabili come appunto i neri che lavorano in casa; e un discorso simile vale per le madri sorelle mogli di membri di organizzazioni criminali, vittime del primato maschile, da un lato, complici dall’altro41C. Card, Women, Evil, and Gray Zones, «Metaphilosophy», vol. 31, n. 5 [2000], pp. 509 e segg. Di Card, vedi anche The Atrocity Paradigm: a Theory of Evil, Oxford University Press, 2002, specie il capitolo Gray Zones. . Card definisce queste situazioni area grigia (a suo avviso, “zona” alluderebbe troppo all’istituzione totale chiusa al mondo); ma anche al di là di questa precisazione, il suo è un prestito rispettoso, e utile a mettere in luce la coabitazione fra responsabilità e irresponsabilità, la differenza fra non avere alcun potere e averne uno, sia pure circoscritto.
Non sempre è così. È vero che molte osservazioni profonde sulla condizione umana sono venute dallo studio dei campi, quasi fosse necessario un estremo per mettere a fuoco elementi che nella normalità tendono a sfumare. Ma è altrettanto vero che il Lager non è l'esempio limite dell'oppressione quotidiana né la metafora della modernità, così come il totalitarismo non è la verità segreta della democrazia.
Levi scrive che è necessario conoscere le figure turpi o patetiche della zona grigia «se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale»42P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1020. . Ma diceva anche di non capire chi si ostinava a definire un Lager la Fiat, e – lo ricorda Langer – dubitava dell'estensibilità del concetto. Avrebbe respinto «any effort to identify such camp behaviour with the collaboration of free men and women in the Vichy or Quisling regimes in France and Norway» – il giudizio cambia a seconda che la collaborazione avvenga all’interno o all’esterno dei reticolati!43L.L. Langer, Legacy in Gray, in R. S. Kremer (ed.) Memory and Mastery: Primo Levi as Writer and Witness, State university of New York, 2001, pp. 208-9. . Si sarebbe stupito di fronte all’uso del termine zona grigia per definire lo spazio dai confini fluidi che esiste fra le pratiche di guerra dirette a rendere inoffensivo il nemico e quelle messe in atto per sterminarlo44F. Rousseau, Aux marges de la guerre: le nettoyage des tranchées. Exploration d’une zone grise durant la Grande guerre, in P. Mesnard et Y. Thanassekos, La zone grise entre accomodation et collaboration, cit., p. 235. Il saggio, interessante, tratta della “pulizia delle trincee”, vale a dire delle operazioni di sgombero e messa in sicurezza del territorio guadagnato. .
Qualcuno potrebbe rispondere che il metodo analogico si applica per definizione a realtà storiche diverse. Certo. Ma senza dimenticare il primo insegnamento di Levi sulla necessità di disaggregare e “pesare” i concetti.
Può succedere invece che l’analogia si aggrappi al tema, apparentemente più maneggevole, dell’ambiguità e dell’incertezza dei confini, lasciando fuori il rapporto con il potere, i ruoli, i privilegi, il livello di pressione subìto. Con il risultato che la zona grigia si trasforma da concetto in metafora.
Contro le idealizzazioni
Gli anni in cui presumibilmente Levi sta elaborando il tema della zona grigia vedono la memoria della deportazione spostarsi dall’urgenza di testimoniare verso un bisogno di ripensamento e di categorizzazione. Anche se la conoscenza del Lager è più diffusa, alcuni equivoci rimangono, e per di più si sta affacciando una nuova forma di revisionismo, in cui alla pura negazione si sostituisce il tentativo di relativizzare lo sterminio fino a farne una variante – di spicco, ma una fra le altre – dell'imbarbarimento europeo nella prima metà del secolo. Ancora più subdolo è il soggettivismo “post-moderno” che fa leva sul rapporto sempre problematico fra la realtà e le sue rappresentazioni per negare ogni autonomia al documento, ridotto a materiale inerte, utilizzabile indifferentemente per l'una o l'altra tesi. Con il risultato che vero e falso perdono il loro senso proprio per trasformarsi in interpretazioni inconfrontabili, come se la realtà non esistesse; e che di fronte a posizioni alla Faurisson45Il francese Robert Faurisson è fra i primi e più accaniti nel negare lo sterminio degli ebrei e l'esistenza delle camere a gas, e definisce la Shoah un'invenzione della propaganda americana a sostegno dello stato di Israele. La sua notorietà come capofila del negazionismo è dovuta anche al fatto che la pubblicazione del suo opuscolo Mémoire en défense contre ceux qui m'accusent de falsifier l'histoire. La question des chambres à gaz (La Vieille Taupe, Paris 1980) è stata caldeggiata, in nome della libertà di espressione, dal famoso linguista americano Noam Chomsky, uomo di estrema sinistra, che ne ha scritto anche l'introduzione. si esprime rifiuto morale, ma si esita a definirle per quel che sono, menzogne46C. Ginzburg, «Unus testis». Lo sterminio degli Ebrei e il principio di realtà, «Quaderni storici», n.s., n. 80, agosto 1992, pp. 529-48. .
Non è la sola minaccia. Equivoci e distorsioni colpiscono, non necessariamente per effetto di cattiva fede, un terreno delicatissimo, l'immagine sociale del sopravvissuto. Cito i due casi che mi sembrano direttamente o indirettamente connessi alla zona grigia.
Il primo è la facilità con cui si discetta sul senso di colpa del superstite. Un dato reale, ma su cui sarebbe doveroso distinguere. Una cosa è il dolore nel ricordare un compagno, il trauma di sentirsi chiedere dai suoi cari: “perché tu sì e lui no?”, il rimorso per qualcosa che si è fatto o si è omesso di fare. Altra cosa è il senso di colpa universale, “cosmico”, che è il prezzo dell’essere rimasti in vita, e che non è esclusivo degli ex deportati: lo si trova fra i sopravvissuti di Hiroshima e di catastrofi naturali, eventi che si consumano in tempi così stretti da rendere impossibile qualsiasi spiegazione diversa dal caso – il che non cancella il pensiero di essersi salvati “al posto” di qualcuno o di molti. Altra cosa ancora sono l'angoscia e insieme il compiacimento per essere in vita, che si possono provare anche quando la morte avviene in condizioni di normalità47E. Canetti, Massa e potere, Millano, Adelphi 1981, cfr. il capitolo Il sopravvissuto, pp. 273-336, e Epilogo. Il dissolvimento del sopravvissuto, pp. 565-71. .
Levi ha scritto che «la condizione di offeso non esclude la colpa»48P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1023. , ha nominato con totale franchezza il tormento che nasce dal sospetto di essere, in qualche modo e forma, responsabili. «Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi»49Ivi, pp. 1032-3. , sono le parole che nel capitolo sulla zona grigia Levi fa dire dalle SS agli uomini di un Sonderkommando50Il tema di Caino è ampiamente commentato da T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2001, alle pp. 213-23. . Ha descritto (non lui solo) uno stato d’animo in cui si urtano la consapevolezza dell’“ingiusto” privilegio toccato in sorte e quella di essere innocenti. Altri parlano di un senso di vergogna personale (per quel che si è visto e subìto, per aver cercato di conservare la dignità di fronte a chi l’aveva subito perduta51G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 55. ) e generale (per il precipizio in cui la specie umana si è gettata creando il Lager)52Altra cosa ancora «il senso di colpa per non aver conosciuto Auschwitz, di inguaribile frustrazione e ancora senso di colpa, per non poter capire né condividere quel dolore, scrive Elena Loewenthal; inventare dentro la Shoah non è un tabù, anzi. È diventata una necessità intima e terribile». E. Loewenthal, Se la memoria diventa ossessione, «La Stampa», 26 gennaio 2010. .
Sarebbe sensato fare tesoro di queste osservazioni e coltivare la prudenza. Mentre analizzava nella zona grigia le responsabilità dei deportati, Levi invitava ad astenersi dalle scorribande amatoriali nella loro psiche e dalle generalizzazioni; ad abbandonare la malsana ambizione di guardare come le persone sono fatte dentro. Non sempre è stato ascoltato. C'è chi ha usato Freud per una caricaturale psicanalisi di massa; chi, di fronte a un ex prigioniero che negava i sensi di colpa, si è premurato di informarlo che li aveva rimossi. Il peggio è la tendenza a ricondurre ogni sofferenza al Lager, a decretare addirittura che un suicidio non può che essere il suo frutto. In questa ideologia, l'ex prigioniero appartiene stabilmente e in esclusiva all'orizzonte della tragedia – il che ne fa un personaggio letterariamente suggestivo, proprio perché gli è negato il diritto alla normale infelicità.
Che queste distorsioni si incontrino spesso nei discorsi, di rado nei testi scritti, è un buon segno; vuol dire quantomeno che si ha pudore a dare loro una veste definitiva, anche se il fastidio che provocano a tanti ex deportati resta.
Ma sulla figura del sopravvissuto pesa una deformazione anche peggiore, all’apparenza lusinghiera, in realtà oltraggiosa – quella dell'eccezionalismo.
Per Terrence Des Pres, il superstite è l’eroe moderno capace di attraversare il male per immergersi nella vita senza riserve, svincolato da coazioni e mediazioni culturali sotto l'urgenza degli imperativi primordiali del corpo53T. Des Pres, The Survivor. An Anatomy of Life in the Death Camp, Oxford University Press, New York 1976. . Per molta opinione comune, è un essere sopravvissuto perché eccezionale, e eccezionale perché sopravvissuto – il che rischia di trasformarlo in testimone coatto della propria eccellenza. La critica durissima a queste o simili «mostruose»54P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1054. ideologie non ha impedito il loro riemergere periodico. Tanto è forte la convinzione che soffrire sia un merito e sopravvivere un premio.
Poi c’è la variante mistica dell’angelismo: come denuncia Finkelkraut56A. Finkielkraut, Le combat avec l'Ange, «Le Messager européen», n. 4 (1990), pp. 229- 40. , il sopravvissuto è precettato a testimoniare del Bene, vale a dire della presenza di Dio nella storia, così da apparire doppiamente salvato, sul piano materiale, terrestre, e su quello “celeste” o metafisico come colui che ha beneficiato del favore divino. Bettelheim riferisce un dialogo-simbolo fra una donna sfuggita all'arresto e alla deportazione e un'interlocutrice che aveva pagato con diversi anni di prigionia l'aiuto offerto a famiglie ebree. «Perché proprio io mi sono salvata?» si chiede la prima; e la seconda: «Perché lei possa dimostrare per il resto della sua vita che era stato giusto salvarla»57B. Bettelheim, Sopravvivere, cit., pp. 36-7. . Per Levi che parla di salvati, non di “scelti”, e che in Lager ha visto ulteriormente indebolirsi «le (sue) convinzioni religiose, che erano già molto scarse»58Intervista del 27 gennaio 1983 a Anna Bravo e Federico Cereja, cit. , questo obbligo a dimostrarsi “degni della grazia” è un insulto.
Del resto, il favore divino costa caro. Un amico credente – ricorda Levi – gli aveva detto che era stato salvato perché scrivesse, e scrivendo portasse testimonianza. È altra cosa dal dovere di testimoniare sentito da molti ex deportati, è la condanna a giustificare la propria esistenza con la scrittura, condanna che non prevede il “fine pena”, ma il suo reiterarsi – come se tacendo il superstite perdesse il diritto alla vita. Collocando i sopravissuti (e se stesso) fra i “peggiori”, forse Levi cercava di contrastare quelle idealizzazioni, comprese le molte costruite sulla sua persona: in Italia, il testimone per conto di terzi era diventato anche il Giusto per conto di terzi59«Per una sorta di transfert collettivo, il Giusto tra i Giusti, il campione dell'umano si è visto attribuire una delega che lo chiamava a pensare e garantire per tutti. Ma a lui chi pensava?», Ernesto Ferrero, Primo Levi. La vita, le opere, Einaudi, Torino 2007, p. 133. Vedi anche La solitudine di Primo Levi, intervento al Convegno sulla ricezione dell'opera di Primo Levi nei paesi europei, Torino, ottobre 2003, ora in www.ernestoferrero.it. .
Ricordo che di fronte alla morte di Primo Levi, il dolore e lo stordimento per la perdita di un padre simbolico (di un santo laico, dicevano alcuni) si mischiavano alla sensazione di essere stati doppiamente abbandonati. Per la sua fine, come se i santi non avessero diritto di morire. Per il modo, come se il suicidio gettasse retrospettivamente un’ombra sulla vita. Nell’opinione comune, Levi era l’uomo che aveva vinto Auschwitz – definizione infelice per una persona così libera dal vizio della belligeranza. Il suicidio rompeva quell’immagine. Di qui la pulsione, comprensibile in chi lo amava ma violenta, a “spiegarlo” per farsene una ragione. Di qui la non innocente ostinazione di alcuni aspiranti biografi a rovistare nella sua vita alla caccia del minimo dettaglio personale.
Forse l’intero capitolo sulla zona grigia si può leggere anche come diffida dalle idealizzazioni. Ma non solo.
Classificare le persone, classificare i comportamenti
C'è una seconda chiave di lettura della zona grigia che mi sembra utile, ed è la tensione avvertibile nel testo fra la scelta di giudicare i comportamenti e quella di giudicare l'identità di chi li pratica. Questione decisiva per la storia. L'identità è plurima, variabile, un caleidoscopio di tessere in movimento; ci si può riconoscere come membri di una famiglia, di un'etnia, di una comunità, come lavoratori, fedeli di una religione, militanti politici – e come atleti, musicisti, pittori, titolari di una bella voce o di una buona capacità di rapporti – talenti che in Lager potevano contribuire alla salvezza. Ma il discorso vale sempre e per ciascuno – Vjosa Dobruna, attivista della resistenza nonviolenta in Kossovo e fondatrice di un Centro medico per le donne e i bambini privati di assistenza dal governo federale serbo, lo spiega come meglio non si potrebbe: «La mia identità è di essere una donna, una kosovara, una pediatra, la figlia di qualcuno, e come me ognuno dovrebbe essere libero di esprimersi60Era un medico!, intervista a Vjosa Dobruna, realizzata da M. Tesei, «Una città», n. 78, Giugno 1999, al sito www.unacitta.it. ».
Ormai pochi storici vedono l'identità come un tutt'uno. I più avvertiti, specie le donne, cercano di muoversi fra un aspetto e l'altro, sforzandosi per esempio di non appiattire il singolo sulla sua appartenenza politica. Come facevano sessanta anni fa, nei giorni della liberazione, quelle partigiane che dietro il fascista vedevano il padre di famiglia, il poveraccio, lo sbruffone innocuo, e cercavano di risparmiarlo.
Allo storico, si dice, non spetta emettere sentenze. Ma il suo racconto non può ignorare il problema del giudizio, e il concetto di identità, con la sua forza definitoria, resta una tentazione, a volte una necessità.
Altre volte è invece un'operazione sviante, perché ragionare in termini di identità equivale a classificare gli individui, e le categorie della ricerca storica e sociale sono ovviamente troppo strette rispetto al reale. Così strette che per collocare le persone al loro interno bisognerebbe prima farle a pezzi, espellendo quelli dissonanti.
Altra cosa è classificare i comportamenti. Fra i grandi soccorritori degli ebrei, si incontrano il tedesco Oskar Schindler e l'italiano Giorgio Perlasca, il primo un affarista senza troppi scrupoli iscritto al partito nazista, il secondo un (forse ex) fascista mai convertito all'antifascismo, già volontario nella guerra di Spagna dalla parte di Franco. Tutti e due amavano le donne e il bel vivere.
La commissione israeliana incaricata di scegliere i Giusti ha aspettato anni e anni prima di insignirli; cercava salvatori esemplari, politicamente e socialmente “garantiti”. Per dotare Schindler e Perlasca di quel certificato di rispettabilità, ci sarebbe voluto un restyling, con l'epurazione – ironia del destino – proprio di quei tratti che avevavo contribuito a dare loro la forza di agire: la spregiudicatezza, la capacità di mentire, di cambiare le carte in tavola, di corrompere un nazista; e lo spirito di avventura, il vitalismo, l'infedeltà alle ideologie. A giudicarli dall'identità risultavano “impresentabili”. Se si fossero considerati i loro atti, sarebbero stati accolti a braccia aperte.
Certo i protagonisti non sono una tabula rasa, e fra comportamenti e identità c’è un nesso; ma non è un nesso scontato. Gli esempi limite di Perlasca e Schindler offrono una prima indicazione: piuttosto che ingabbiare i singoli nei recinti del giusto e dello sbagliato, è utile valutare i comportamenti nella loro contradditorietà e imprevedibilità, nell'intreccio o nell'alternarsi di positivo e negativo. Il secondo insegnamento è che i giudizi sull'identità, mentre dicono poco su chi ne è oggetto, rivelano molto su chi li emette. Nel caso della Commissione dello Yad Vashem, si scopre una preoccupazione perbenista per l'immagine offerta all'esterno che non ci si aspetterebbe, dopo l'ignavia dimostrata dalla maggioranza della cosiddetta gente perbene.
Il meccanismo vale anche per l'oggi e per l'analisi politica, non solo per il passato e per la storia. Nell'Italia di questi anni, anziché comunicare la notizia che qualcuno ha vinto o perso, si dice spesso che quel qualcuno è un perdente (o un vincente). Slittamento significativo. Nel primo caso si evoca un episodio, la scheggia di un percorso di vita, nel secondo un tipo umano immodificabile, anzi, una specie umana; e si riduce il mondo alla dicotomia bellicista forti/deboli, sagaci/sprovveduti, capibranco/gregari. Chi si aggiudica il primo premio a una lotteria è un vincente abusivo, perché non può specchiarsi nel suo perdente. Non so se in altre lingue esista una simile involuzione linguistico/simbolica.
Cosa può dire su questo terreno la zona grigia? Levi non è uno storico e non è tenuto a dirimere il conflitto fra giudizio sull'identità e giudizio sui comportamenti. Scrive però che «ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento [...] neppure è possibile antivedere il comportamento proprio»61P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1037. 61. E mostra che anche in situazioni estreme l'analisi degli atti e delle pratiche è la strada migliore per raggiungere una approssimazione credibile alla realtà. Sebbene ne I sommersi e i salvati compaiano vari soggetti individuali e collettivi, per lo più la zona grigia è descritta in termini di funzioni, di pratiche, di stati mentali, di fragilità o resistenza. Persino di Rumkowski, che nominato dai nazisti presidente del ghetto di Lódz tiranneggiava con voluttà i suoi "sudditi", Levi scrive che la sua figura «fu più complessa di quanto appaia fin qui» e che «alla sua identificazione con gli oppressori si alterna o si affianca un'identificazione con gli oppressi»62Ivi, pp. 1039 e 1040. .
Solo in pochi casi, mi pare, prevale il giudizio sulle persone. Uno riguarda Muhsfeld, uno dei militi SS addetti alle camere a gas, che in un'unica occasione ha mostrato un fuggevole barlume di pietas. Scrive Levi: «Nei Fratelli Karamazov, Grušen'ka racconta la favola della cipollina. Una vecchia malvagia muore e va all'inferno, ma il suo angelo custode, sforzando la memoria, ricorda che essa, una volta, una sola, ha donato ad un mendicante una cipollina che ha cavata dal suo orto: le porge la cipollina, e la vecchia vi si aggrappa e viene tratta dal fuoco infernale. Questa favola mi è sempre sembrata rivoltante: quale mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non ad altri ai suoi figli, alla moglie, al cane? Quel singolo attimo di pietà subito cancellata non basta certo ad assolvere Muhsfeld, basta però a collocare anche lui, seppure al margine estremo, nella fascia grigia»63Ivi, p. 1034. . Ma non fra i redenti. Il dualismo evocato da Debski, secondo cui «l’egoista di oggi può diventare l’altruista di domani, e viceversa»64T. Debski, A Battlefield of Ideas: Nazi Concentration Camps and Their Polish Prisoners, Columbia University Press, 2001,p. 162, citato in J. Warmund, The Gray Zone Expanded, in S.G. Pugliese (ed.), The Legacy of Primo Levi, Palgrave Macmillan, 2005, p. 167. , in questo caso non basta a convincere Levi, che pure è maestro nel rappresentare oscillazioni e rovesciamenti. Ma il bersaglio è davvero Muhsfeld, oppure l'idea, radicata nella tradizione cattolica o in una sorta di umanesimo consolatorio, che un attimo di compassione possa compensare una vita intera di bassezze?
Il secondo esempio viene da Se questo è un uomo e chiama in causa Henry il seduttore, per cui Levi ha provato «un fastidio quasi fisico». Perché, credo, Henry non è solo un abitante della zona grigia, ne ha creato un prolungamento personale, un'accezione in più. Ha intuito che anche nei peggiori cova il bisogno di uno spiraglio sul mondo esterno, e assicura loro qualcosa di non meno utile del buon funzionamento della macchina produttiva – un simulacro di sentimenti “normali”. Quando va incontro ai capi con un sorriso cosìben confezionato da sembrare spontaneo, Henry inscena una rappresentazione, fittizia quanto attraente, incui il Lager non è più il Lager. Per le guardie SS e i funzionari di alto rango, il Kapo è un servo, lui è un amico.
Molti anni dopo, Henry risponderà collocandosi nel tempo lungo della propria storia di prigionia: ha sofferto, rischiato la morte, conosciuto la condizione di prigioniero non privilegiato, visto fallire le sue manovre. Non è stato sempre e soltanto il seduttore65Vedi il punto di vista di Henry in S. Nezri-Dufour, Lo scontro di due testimonianze: Henri il salvato risponde a Primo Levi, «Studi piemontesi», novembre 2008, pp. 351-76. .
Viene spontaneo chiedersi se Henry sia, come Rumkowski, principalmente «una figura simbolica ecompendiaria», in cui «ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito»66P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 1043. . Certo è un personaggio letterario, risorsa di cui la narrativa, compresa la narrativa testimoniale o intrecciata alla saggistica, non può fare a meno. Ma in Se questo è un uomo sembra anche un individuo concreto, che trova il massimo di verosimiglianza nell'affinità con la prostituta accorta, capace di convincere il cliente che sta vivendo una storia d’amore. Con una differenza basilare: la prostituta vende il suo corpo, Henry vende la sua anima. Agli occhi di Levi, vendere l'anima è più grave che perderla, come succede a tanti prigionieri. Perché la parola vendere allude a una relazione, a un campo di scelte, a un patto: una visione che falsifica alla radice i rapporti fra oppresso e oppressore – e che stravolge in parodia una delle parole più care a Levi, amicizia.
Le parole della pigrizia
Non so se, come pensa Alberto Cavaglion, I sommersi e i salvati sia in sintonia con il clima italiano di quegli anni, propenso alle mezze tinte, all’autoassoluzione quando non all’autocompiacimento. Secondo Eraldo Affinati, al contrario, nessun altro scrittore aveva avuto il coraggio, «prima della caduta del muro di Berlino [...] di riflettere, al di là delle categorie ideologiche, sull’ambiguità umana, sul sentimento di estrema fragilità presente in ognuno come nociva sirena capace di sguarnire le nostre difese inducendoci alla più temibile delle astensioni: quella del giudizio»67E. Affinati, Responsabilità, «Riga», 13, 1997, dedicato a Primo Levi scrittore, p. 432. Vedi l’editoriale di Marco Belpoliti che lo definisce un testimone, ma anche «uomo di scienza [...], un amante delle parole e dei giochi linguistici, un innovatore del vocabolario [...], un curioso e un appassionato indagatore di zone marginali della nostra cultura, ma soprattutto un amante della complessità e dell’ibridazione tra i diversi saperi», pp. 6 e segg. .
È certo comunque che per alcuni l'espressione zona grigia diventa immediatamente una sorta di “liberi tutti” dal peso del passato, e di lì a poco una scorciatoia etico-politica. Molti che potrebbero riflettere autobiograficamente sul potere di corruzione del fascismo, preferiscono cercare riparo in un'immagine abusiva ma provvidenziale di vaghezza. È il primo passo di una interpretazione della zona grigia in termini ideologici, magari di senso opposto, e del suo travisamento. La zona grigia di Levi nasce infatti per sottrazione dai due blocchi dei “buoni” e dei “cattivi”, revocandone alcuni per spostarli nel nuovo territorio. La zona grigia banalizzata, al contrario, non scompagina affatto quei recinti, semplicemente aggiunge loro un’appendice pronta a tutti gli usi. Non è una piccola differenza.
C’è da chiedersi come mai l’appropriazione raggiunga il suo estremo in Italia, e nella storiografia della Resistenza. Più della primogenitura nella pubblicazione, contano – credo – il gentlemen’s agreement in virtù del quale si è sorvolato per decenni su certe adesioni al fascismo; e contano i limiti del dibattito fra gli storici. Cosa prometteva, oltre a quel “liberi tutti”, la zona grigia (reinterpretata)?
Nella produzione italiana sulla Resistenza, il termine viene adottato, con una rapidità stupefacente, per indicare quelle e quelli che non hanno scelto, che hanno mantenuto un atteggiamento di equidistanza fra gli schieramenti. All’apparenza, parlare di zona grigia apre la strada a una ricerca non manichea sugli orientamenti popolari; nei fatti equivale spesso a dichiarare che non c’è niente da capire. Grigiore, opacità, passività – il quadro è già lì. Che in questo modo a qualcuno si faccia uno sconto, a qualcuno un’ingiustizia, non sembra importare molto. Qui il concetto non nasce dall’analisi storica, la sostituisce e la fa apparire futile – l’esatto contrario di quanto fa Levi. In tempi ravvicinati, la parola diventa il nuovo modo di nominare una realtà poco o niente studiata, e che non si intende studiare. Eppure al suo interno si trovavano persone diversissime fra loro, compresi quelli che si erano schierati in forme invisibili alle categorie della politica. Per esempio i resistenti senza armi e quanti agivano fuori dai circuiti di partito e dentro reticoli parentali, di vicinato, di paese.
Il fatto è che nella comunità degi storici e nell'establishment intellettuale si guardava quasi esclusivamente all’aspetto armato e militante68Per una lettura critica, mi permetto di rimandare a A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Laterza, Roma-Bari 1995. , e operava ancora un pre-giudizio affine a quello che Calvino aveva rappresentato luminosamente in Oltre il ponte: «tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore».
Non è solo il bisogno di semplificazione descritto da Levi, è che i chiaroscuri incorporati in ogni esperienza umana sembravano attentati ai valori resistenziali – sull’opera di Pavone si era scatenata la collera di molti partigiani, i lavori di Crainz sulle violenze successive al 25 aprile non erano ancora usciti. Ma quei valori dovevano misurarsi anche sul radicamento fra le popolazioni, che si era rivelato parziale e instabile e che andava pur preso in conto. Ecco allora che il grigio, espulso dalla Resistenza, veniva spostato all’esterno, come colore di un’ignavia onniesplicativa, indipendente dalle vicissitudini personali e dalle diverse scelte politiche dei partigiani. La zona grigia entrava così nell’“autobiografia della nazione” come un altro tassello indistinto e inverificabile – e qui l’Italia si differenzia dalla Francia, con cui ha in comune la difficoltà a costruire un’antropologia più realistica del resistente.
Non che da allora siano mancati i passi avanti. Assimilata per decenni a una palude opportunista69G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, il Mulino, Bologna 1995, cap. I. , quella parte maggioritaria della popolazione ha cominciato negli anni Novanta a essere guardata con più sensibilità, per esempio sottolineando la fatica di sopravvivere e la sofferenza comune70P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, pp. 47-54. , o rifiutando di stigmatizzare esitazioni e sentimenti di estraneità. Ma di quale popolazione si tratta? Si è dedicata una mole di studi a fascismo e antifascismo, infinitamente meno a quelli che stavano in mezzo, a lato (o, più realisticamente, erano in vario modo intersecati con ciascuno schieramento). E infatti se ne sa pochissimo. Purtroppo. La zona grigia è un quadro a molti colori, fra cui bianco e nero, che fra l'altro messi insieme non fanno grigio. A patto però di guardarla dall’interno.
Come fa Tzvetan Todorov in un libro stupendo (T. Todorov, Une tragédie française. Eté 1944: scènes de guerre civile, Éd. du Seuil, Paris 1994), dove racconta l’andirivieni spasmodico fra comandi partigiani, tedeschi, fascisti, con cui il sindaco di una cittadina francese cerca di scongiurare un cortocircuito di rappresaglie e contro rappresaglie, e la disperazione del fallimento. Senza il suo diario, ritrovato da Todorov, non se ne sarebbe saputo niente. In questo libro, compaiono argomenti centrali del discorso di Levi – il rapporto con il potere, la responsabilità verso i propri simili – mentre l’ambiguità non è una categoria portante. Se mai, la fatalità. Che io sappia, in Italia non esiste un lavoro simile. La mia impressione è anzi che da un po’ di tempo siamo rimasti fermi.
Continua invece l’avanzata della zona grigia nel nostro senso comune. Nata per capire la complessità delle relazioni di potere, è diventata una metafora per alludere, lo notava Belpoliti71M. Belpoliti, La "zona grigia", introdotta vent'anni fa da Primo Levi, «La Stampa», 27 settembre 2006. , a «qualcosa di nascosto, d’impenetrabile, d’incerto», una categoria psico-antropo-sociologica buona per leggere ogni realtà, «anche quella dello spionaggio telefonico, per di più usata in una conferenza stampa dall’azionista di maggioranza della più grande azienda del paese responsabile, secondo i magistrati, dell’illecito». Non esiste settore che non abbia diritto alla sua zona grigia; ce l’hanno la politica, la cultura, la società, i servizi di informazione, le polizie, lo spettacolo, lo sport, e naturalmente la mafia, l’etica e la bioetica. Spariti il rapporto con il potere e l’abnormità della pressione sull’individuo, non resta che l’ambiguità trasformata in passepartout. È, per usare le parole di Alberto Cavaglion, una marcia trionfale.
Evidentemente si accetta di accantonare le opposizioni binarie solo a patto di avere a disposizione una terza chance altrettanto rassicurante, che non chiami in causa il potere, la responsabilità, la libertà. I buoni restano, i cattivi restano, si aggiungono i grigi, che a seconda delle ideologie sono assimilati ai primi o ai secondi: a volte li si esalta come espressione di una saggia medietà contrapposta all’“estremismo”, a volte li si stigmatizza come zavorra storica. In questi casi, “zona grigia” rappresenta alla perfezione quelle che si potrebbero chiamare le “parole della pigrizia”, perché ci esentano dalla fatica di pensare in una fase di impoverimento pauroso delle idee e di opposti conformismi.
Mi sembra un tratto di questi anni, in cui, parafrasando Agamben, non è serio essere seri, non è utile essere utili. Non è utile respingere le generalizzazioni sull’Italia e gli italiani – è così confortevole parlare di carattere nazionale, e pazienza se la categoria è così volatile che la si può tirare in tutte le direzioni. Non è utile (o lo è per una minoranza) cercare nuovi termini per caratterizzare le democrazie deficitarie e i dispotismi mediatici – viene così spontaneo usare “fascismo”, un’altra parola della pigrizia. Non è serio criticare chi usa pigrissimamente il termine soggettività per giustificare chiunque, compresi i ragazzi di Salò. Non è opportuno denunciare il filosofo e editorialista che ha copiato intere parti dell’opera di una collega – meglio il poco impegnativo termine “citazione”: non ci ha insegnato la post-modernità che tutto lo è? Non è meglio evitare parole forti come plagio? Persino il dramma della testimonianza “per conto terzi” è ridotta alla ricerca di qualsiasi soggetto parlante che accetti di dare un tocco di vissuto al racconto di un delitto, di una catastrofe, anche se quel soggetto non ha da dire altro che “non ho visto niente”.
Stiamo banchettando sulla zona grigia. O meglio, sulla caricatura che è diventata agli occhi di tanti.
Scheda bio-bibliografica di Anna Bravo
È stata professore associato di Storia sociale all'Università di Torino e ha lasciato l’insegnamento anticipatamente. Vive e lavora a Torino. Il suo ultimo libro è A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma - Bari, Laterza 2008. Sulla deportazione e il genocidio ha pubblicato fra l’altro:
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(a cura di) La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti (con D. Jalla), presentazione di Primo Levi, Franco Angeli, Milano 1987, 7° edizione 2001
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(a cura di) Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall'Italia 1944-1993, (con D. Jalla), Franco Angeli, Milano 1994
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Introduzione a D. Ofer - L. Weitzmann, Donne nell’Olocausto, Firenze, Le Lettere 2001
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Voce I Giusti in Enciclopedia dell’Olocausto (ed. it. a cura di A. Cavaglion) Torino, Einaudi 2003
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The Rescued and the Rescuers in Private and Public Memories, in J. Zimmerman (ed.), The Jews of Italy under Fascist and Nazi Rule: 1922-1945, Cambridge University Press, 2005.
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Armed and Unarmed: Struggles without Weapons in Europe and in Italy, “Journal of Modern Italian Studies”, 4, 2005
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Introduzione a L. Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti, Franco Angeli, Milano 1995
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La résistance civile des femmes pendant la Seconde Guerre Mondiale et la communauté des historiens, in C. Veauvy (éd.), Les femmes dans l'espace public. Itinéraires français et italiens, Parigi, Ed. de la Maison des sciences de l'homme 2004.